Quando nacque nel 1944, la Coldiretti si rivolse ai piccoli e medi coltivatori diretti: il cuore dell’organizzazione furono le famiglie rurali che lavoravano la terra. Il progetto politico fu quello di promuovere la loro partecipazione alla nascente vita democratica del paese e alla crescita socio-economica che segnò il passaggio da un’economia rurale ad una industriale e dei servizi. Si mutuava la visione degasperiana di una società democratica che si avvale della forza civica di un tessuto sociale di lavoratori autonomi (imprenditori agricoli) che ragionano con la loro testa e sanno assumersi responsabilità.
La centralità del coltivatore diretto e dell’agricoltura familiare furono i due poli di riferimento di una tensione progettuale in cui si iscrive anche il cammino delle donne; un cammino che si intreccia con i cambiamenti nella nostra società e con il progressivo emergere nel paese del “soggetto donna”. C’è la dimensione più verificabile di quel cammino, quella legislativa che iniziò con le battaglie comuni per il diritto alla pensione ed alla sicurezza sociale; dietro c’era il lavoro sulla formazione e la partecipazione, per il cambiamento di modelli culturali discriminanti e l’affermazione della soggettività femminile. Era il lontano 1953 quando Bonomi, il primo storico presidente della Coldiretti, chiamò la trentina Emma Schwarz, già responsabile della gioventù femminile nell’Azione Cattolica, per creare il Movimento Femminile della Coldiretti. Partì, allora, la creazione di gruppi di donne ai vari livelli dal locale al nazionale, in cui ci si occupò di pensioni, ma anche di scuola, delle abitazioni e delle infrastrutture del territorio rurale, per arrivare al nuovo diritto di famiglia.
Nel 1976 quei gruppi assunsero il carattere di un movimento di categoria autogestito dalle donne che iniziò ad occuparsi di temi professionali e sindacali: come la parità dei componenti dell’impresa, la tutela della maternità, la legge sull’imprenditoria femminile. Ovviamente, non dobbiamo pensare ad un percorso lineare di successo in successo nella società, nel mondo rurale e nella stessa Coldiretti. Un’iniziativa sintomatica delle speranze e delle difficoltà incontrate, nonché della cultura del periodo, risale al 1986, quando i giovani della Coldiretti si fecero promotori di una proposta di legge che intendeva migliorare il loro insediamento nell’impresa familiare. In seguito alla legge di riforma del diritto di famiglia (1975) il nostro codice (all’art.230 bis) aveva introdotto l’istituto dell’impresa familiare. Con la loro iniziativa i giovani della Coldiretti dicevano: “Premesso che la norma non riguarda esclusivamente l’agricoltura, ma tutti i settori produttivi, è da tutti condiviso che la sua genesi sia legata proprio al mondo contadino e alla volontà di emancipare quei familiari, donne e giovani in particolare, tradizionalmente relegati in posizione di subordinazione rispetto al capo famiglia.” Essi chiedevano che al giovane attivo nell’impresa familiare, come alla moglie, fosse riconosciuta la dignità di co-imprenditore insediato, acquisendo, così, in quanto partecipe dell’impresa, il diritto a ricevere tutte le agevolazioni creditizie e finanziarie disposte a suo favore e da destinare all’impresa. Si sviluppò un serrato confronto tra i sostenitori della visione “paritaria” e “gerarchica” dell’impresa familiare: per i primi, i familiari che prestavano lavoro in modo continuativo nella famiglia o nell’impresa familiare erano co-imprenditori, le decisioni si sarebbero dovute prendere a maggioranza e i familiari avrebbero vantato un diritto reale sugli utili, sui beni acquistati con essi, nonché sugli incrementi dell’azienda; per i secondi, l’art. 230 bis disciplinava solo i rapporti all’interno della famiglia, mentre all’esterno l’imprenditore, generalmente il capo famiglia, restava tale e i familiari mantenevano una posizione a lui subordinata. Questa proposta incarnava la contrapposizione tra impresa collettiva e impresa individuale; avrebbe inciso sul cuore dell’agricoltura italiana, poiché le imprese familiari erano il 93,6% del totale. La Coldiretti sposò la battaglia dei giovani non senza malumori interni; ma nella società l’idea non passò poiché ci fu l’immediata resistenza del mondo economico e giuridico (notai, commercialisti, ecc..), mentre la consistenza della contrapposizione ideale fu superata dall’evoluzione della realtà. Erano gli anni iniziali della globalizzazione in cui si fece più forte la pressione del modello dell’agricoltura industrializzata. Nel frattempo la famiglia rurale era già cambiata: ormai i familiari non lavoravano più tutti insieme nell’azienda agricola, in cui rimaneva solo il capo famiglia ed, eventualmente, un figlio. Chi poteva trovava lavoro nei settori extra agricoli e di conseguenza era venuta meno quella comunanza del lavoro familiare che era alla base della visione dell’impresa collettiva. Sul finire degli anni settanta si parlava già di femminilizzazione dell’agricoltura, ma non era un fenomeno molto virtuoso: si trattava di sostituzione del lavoro maschile uscito dal settore. Gli anni novanta si aprirono con l’intensificazione della competizione sui mercati agricoli internazionali e con una riforma delle politiche agricole che ne diminuì il grado di protezione; diventava evidente che se l’agricoltura italiana fosse rimasta circoscritta al modello industrializzato dominante, non avrebbe avuto un futuro. La Coldiretti reagì puntando sulla multifunzionalità e la diversificazione del lavoro agricolo della rete territoriale delle imprese agricole che fanno prodotti di qualità legati alla tradizione alimentare. In breve, assumono la sostenibilità nella sua triplice dimensione, ambientale, economica e socioculturale, e creano le premesse per una produzione e un consumo responsabili. Nel far ciò la Coldiretti assunse e diede una veste strategica e culturale a quanto le imprese, quasi sempre familiari, stavano iniziando a fare sul territorio e, questa volta, le donne avrebbero avuto un ruolo realmente importante nel cambiamento. Nelle loro riflessioni le donne della Coldiretti lo hanno interpretato come uno di quei casi della storia in cui tutto si incrocia: da un lato l’emergere di una nuova realtà dell’imprenditoria femminile, dall’altro la necessità e lo spazio per un “fare impresa al femminile” dove sono presenti, oltre alla prospettiva economica, anche sensibilità, attitudini, attenzioni verso la compatibilità con l’ambiente, la salute delle persone, la cura del territorio. Esse sostengono che c’è un patrimonio immateriale nel fare impresa al femminile che risponde in pieno ai nuovi bisogni della società post industriale: la qualità della vita, l’identità, il benessere, il tempo della natura ed i suoi ritmi, la responsabilità sociale. Ciò spiegherebbe il successo dei “nuovi prodotti”, dall’agriturismo alle fattorie didattiche, dalle produzioni tipiche del territorio alla ricerca dei sapori della tradizione. Tendenze confermate anche dai dati: le donne titolari d’impresa sono ormai il 30% del totale, sono presenti nelle formule più innovative, anche in imprese di dimensioni medio grandi; migliora il loro livello di istruzione e si assiste ad una nuova attenzione da parte di donne giovani verso l’avventura dell’imprenditorialità agricola. Dunque, donne e impresa agricola è, secondo le donne della Coldiretti, un binomio da leggere con occhi diversi rispetto al passato. La prontezza con cui le donne hanno saputo trasformare ruoli e saperi tradizionali in impresa (vedi agriturismo, fattorie didattiche, ecc.) costituisce una riserva di fantasia e tenacia che incrocia con eccezionale tempestività la necessaria rigenerazione dell’agricoltura e la risposta che essa deve dare ai nuovi bisogni della società: salute, benessere, ambiente, territorio. Per interpretare e rappresentare più
velocemente questi processi, il vecchio Movimento femminile si trasformò nel 1998 in un Coordinamento, iniziando un percorso che lo portò a diventare Coldiretti Donne Impresa nel 2008. Nelle novità, talvolta presentate con quel leggero entusiasmo che non guasta in un paese viziato di immobilismo, ci sono gli ingredienti per il cammino e gli approfondimenti che abbiamo davanti. Innanzitutto, la famiglia rurale e l’impresa familiare agricola: se per troppo tempo si è pensato alla famiglia rurale come qualcosa di immune dal contagio dei tempi, per poi scoprire che non era così e nelle campagne potevano esserci insospettabili fenomeni di sgretolamento familiare, ora si rischia di non vedere che questi processi rilanciano il ruolo della famiglia come spazio di un’attività condivisa pluridimensionale e non chiusa sull’azienda. Di più, anche se non tutti lavorano nell’impresa familiare agricola, questa famiglia può essere uno spazio di cura e attenzione reciproca dove la fiducia ricevuta e data, la coscienza del proprio saper e poter fare, diventa identità comunitaria, capacità di riconoscersi e di reciprocità nella rete di relazioni di cui la famiglia è un nucleo, uno snodo attivo. Siamo molto oltre le arcinote chiusure familistiche, siamo molto oltre anche alla vecchia immagine dell’impresa collettiva con una parità imposta per diritto. Occorre approfondire le ragioni e le fondamenta di questa capacità di riconoscere e riconoscersi nella comunità/società, nel rapporto con il creato e con la propria cultura. Una cultura da tempo abitata da una presenza cristiana che si sta rigenerando, ma che ha bisogno della consapevolezza vissuta della sua forza per trasformare il mondo, ancora una volta. Le donne del mondo agricolo hanno intuito la radice della novità di immagini come benessere/qualità della vita, ambiente, territorio, salute che non è soltanto l’assenza della malattia; anche qui occorre allargare e approfondire gli orizzonti di quelle intuizioni per fare in modo che i loro semi cadano su un terreno fertile per un percorso che lega insieme lavoro (a partire dalla fattibilità economica) e vita.