a cura del Comitato per il progetto culturale della CEI, Laterza, 2013
Il Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana ci regala un nuovo studio: Per il lavoro: rapporto-proposta sulla situazione italiana, che fa seguito ai due rapporti precedenti: La sfida educativa (2010) e Il cambiamento demografico (2011), tutti pubblicati da Laterza. Il volume, scritto a più mani e frutto del lavoro congiunto e multidisciplinare di esponenti del mondo della cultura cattolica italiana, si propone di portare alla luce elementi per comprendere e strumenti per affrontare la difficile realtà che stiamo vivendo. Come ben anticipato nella Prefazione dal cardinal Ruini, scopriremo che questo nuovo ambito di ricerca - il lavoro - è strettamente collegato e interconnesso con i primi due - la sfida educativa e il cambiamento demografico - e che la complessità e i paradossi della situazione italiana possono essere colti efficacemente solo «ponendo nella dimensione antropologica la chiave interpretativa» di tutta l’indagine. Il rapporto si inserisce a pieno titolo nel solco della tradizione della Dottrina Sociale della Chiesa, che, a partire dall’enciclica Rerum Novarum (1891) fino alla più recente Caritas in Veritate (2009), pone al centro della propria attenzione il bene integrale dell’uomo, soggetto «concepito non in termini astrattamente individualistici, ma piuttosto come strutturalmente relazionale: come colui, dunque che si realizza in costante interdipendenza con gli altri soggetti e con l’intero ambiente in cui vive».
Il volume si compone di quattro capitoli. Il primo affronta: “La dimensione antropologica del lavoro”, fondamentale per comprendere la metodologia e la prospettiva in cui si muove l’intero studio. Il secondo è dedicato a: “Il lavoro nell’Italia di oggi” e ha il merito di offrire un confronto tra l’evoluzione del mercato del lavoro in Italia e quanto avviene negli altri paesi europei; i dati, da fonti Eurostat 2000-2010 e Istat 2011-2012, consentono di cogliere alcuni tratti peculiari del nostro paese e di rileggere i cambiamenti in atto da diverse prospettive, mettendo in rilievo i nodi e le criticità del sistema. Il terzo capitolo, dal titolo: “Attori e problemi del mondo del lavoro”, mette a fuoco cinque aree cruciali: il mondo dell’impresa e dell’artigianato nella globalizzazione, il lavoro intellettuale tra ricerca pubblica e privata, il lavoro immigrato e l’integrazione, il lavoro femminile tra mercato e cura familiare, l’occupazione giovanile e la transizione scuola-lavoro. Il quarto capitolo: “Quale lavoro per quale futuro?”, a partire dagli scenari evolutivi e dalle sfide emergenti nel mondo del lavoro e del welfare, evidenzia il ruolo dei mezzi di comunicazione nella diffusione dei modelli di riferimento e nella percezione dei problemi, e porta un contributo originale alla costruzione e diffusione di una nuova cultura del lavoro, non più come mera prestazione funzionale, ma come relazione sociale.
Nel seguito proponiamo una selezione di alcuni tra i temi trattati, come stimolo al confronto e alla riflessione, rimandando alla lettura dell’intero volume – di facile e scorrevole lettura, arricchito da schede e agili bibliografie di riferimento – per approfondire i tanti e diversi elementi che permettono di cogliere e affrontare le sfide del nostro tempo.
La società attuale sperimenta una crisi di senso del lavoro e il contemporaneo impoverirsi della vita civile; si riscontra altresì la scissione dell’agire umano – e di conseguenza della persona e dei suoi valori – tra il lavoro come aspetto puramente strumentale e funzionale alla sussistenza e tutte le altre forme di scambio sociale. Se tuttavia guardiamo al lavoro come a quell’attività del soggetto umano, volta a trasformare la realtà, al fine di realizzare un bene personale, esso si rivela anche come luogo di collaborazione, di riconoscimento sociale, di utilità comune: possiamo definirlo come relazione sociale. In questa dimensione relazionale emerge un carattere disinteressato, non utilitario di ogni attività umana, che reca in sé un aspetto di gratuità, di un valore non calcolabile e quindi extra-economico, centrale per la dignità della persona e per il suo orizzonte di senso (si pensi alle varie forme artistiche, alla festa, ai rapporti di cura). È dalla cultura del dono, ancor più che dall’incentivo monetario, che può scaturire efficienza lavorativa ed efficacia economica, perché è qui che l’uomo ritrova la motivazione al suo agire. Un secondo effetto di una cultura relazionale del lavoro è la sua universalità, perché esso diviene luogo di incontro e di comunicazione pratica, al di là delle differenze e dei patrimoni culturali di ciascuno. Una cultura della «gratuità e universalità del lavoro» reca in sé un ulteriore elemento, quello della continuità nel tempo e dell’apertura ad una dimensione trascendente, che valorizza la produzione di beni e servizi durevoli - che rimangono fruibili per generazioni - e contribuisce alla costruzione e valorizzazione di luoghi e storie comuni: una «ecologia del lavoro». La crisi finanziaria dei paesi avanzati e i suoi esiti sulle economie nazionali ha messo in rilievo la pre-esistente crisi della dimensione soggettiva e transitiva del lavoro: il declino economico può anche essere interpretato come «la conseguenza inevitabile di una società senza speranza, che, avendo paura del futuro, è tutta appiattita sull’effimero».
Il modello italiano della piccola e media impresa è oggi oggetto di critica da parte di molti osservatori: per competere sui mercati internazionali servirebbero dimensioni e volumi ben superiori. Eppure gli ultimi dati sulle esportazioni rivelano che le PMI italiane «rappresentano il 30% del valore delle merci vendute all’estero» e mostrano la capacità di inserirsi con efficacia nelle filiere internazionali «grazie alla declinazione del fattore qualità nella specificità della propria attività», affermando una «nuova dimensione artigianale» del lavoro moderno. Ma perché questo fattore di successo si trasformi in modello, è necessaria una cultura del lavoro - da sostenere e diffondere nei percorsi educativi e formativi - che restituisca dignità al lavoro a tutti i livelli, superando «il pregiudizio costruito attorno alle identità lavoro manuale uguale sfruttamento e lavoro intellettuale uguale prestigio».
Affrontando il tema del lavoro intellettuale, gli autori fanno propria un’osservazione dell’economista Paul Baran, che distingue tra intellectual workers e intellectuals: i primi sono coloro che utilizzano le facoltà intellettuali per guadagnarsi da vivere e ottenere riconoscimenti sociali, mentre i secondi operano mantenendo la connessione tra i diversi aspetti dell’esistenza umana (attività e conoscenze), aperti alla comunicazione e al confronto. La tesi è che gli sviluppi scientifici, tecnologici e culturali possono avere effetti positivi sull’intero corpo sociale a patto che sempre più intellectual workers si trasformino in intellectuals. L’investimento in ricerca «non è una crescita della conoscenza sganciata dalla società e limitata alla soddisfazione di pochi intellettuali», ma il modo in cui un paese realizza la propria crescita culturale e porta benessere a sempre più ampie parti della popolazione. A fronte di un numero esiguo di ricercatori, l’Italia mantiene un’ottima produttività scientifica a livello mondiale, ma è debole per gli esigui investimenti, soprattutto da parte delle imprese, e cresce il fenomeno della fuga dei cervelli. La tutela e valorizzazione del nostro patrimonio artistico, paesaggistico e culturale è un’area che potrebbe giocare un ruolo importante nel ridare nuova dignità al lavoro e alla produzione culturale.
Per ciò che riguarda il lavoro immigrato, un importante contributo del rapporto è la riflessione sul modello di integrazione: «segregazione, discriminazione, dequalificazione, etnicizzazione dei rapporti di impiego» sono un «esito coerente coi processi di costruzione sociale e istituzionale dei migranti», lavoratori destinati a «ricoprire ruoli complementari, disdegnati dagli autoctoni». La legittimazione dell’immigrato attraverso il ruolo lavorativo ha alimentato una concezione parziale e distorta dell’appartenenza sociale, minando alla base il principio delle pari opportunità. Prendere atto della trasformazione multietnica della società italiana significa creare le condizioni per far sì che ciascuno si senta membro a pieno titolo del corpo sociale, nella consapevolezza dei propri diritti e doveri di cittadino. Le politiche migratorie dovrebbero quindi essere affiancate alle politiche della formazione e a quelle occupazionali, al fine di superare le attuali rigidità della domanda e offerta di lavoro.
Il tema del lavoro femminile viene affrontato da diversi punti di vista: identitario, culturale, economico, sociale, ed è supportato da interessanti dati di profilazione costruiti su fonti ISTAT 2009-2011. Tra gli aspetti di rilievo dell’analisi è, a nostro parere, il confronto tra lavoro retribuito e lavoro familiare, in termini di tempi spesi, valore economico e valori sociali coinvolti. Il lavoro familiare non retribuito rappresenta circa un quarto del PIL, eppure nelle attuali politiche è assente ogni «discorso sul significato economico svolto dalla cura familiare». Contestualmente permane una cultura del lavoro «improntata su modelli rigidi, basati sul presenzialismo» e su «una tipologia di leadership prettamente maschile» che penalizza l’apporto lavorativo delle donne e il riconoscimento dei loro talenti.
In merito al difficile inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, dopo aver prodotto diversi dati a supporto dell’analisi, lo studio evidenzia che «in una prospettiva antropologica e relazionale» esistono ambiti di intervento prioritario che non si esauriscono nella riforma del mercato del lavoro in termini di assunzioni e licenziamenti. Anche l’auspicata adozione «di un efficiente sistema duale di apprendistato, quale percorso di integrazione tra scuola e lavoro», diventa efficace solo se capace di interagire con altri fattori, ponendo al centro «il giovane come persona in fase di formazione e crescita umana e non solo professionale». La qualità del sistema educativo e formativo, così come del sistema delle relazioni industriali, delle istituzioni del mercato del lavoro e delle reti di relazioni (formali e informali) può essere ricostruito solo nella cooperazione e nella sussidiarietà.
Una delle sfide per superare la «posizione di ritardo e grave difficoltà rispetto al resto d’Europa» è quella di riuscire a «progettare e portare a definitivo compimento un welfare positivo», «capace di intervenire in anticipo sui bisogni», «stimolando, al tempo stesso, comportamenti e stili di vita orientati al bene comune». In questo orizzonte si pone il contributo della Dottrina Sociale della Chiesa, ricordando che «i paradigmi dello sviluppo economico e quelli dello sviluppo sociale non solo non risultano necessariamente in conflitto, ma anzi possono positivamente evolversi e convergere nella piena valorizzazione della persona». Ciò è possibile superando una concezione puramente economicistica e ricostruendo una nuova stabilità del lavoro, basata su meccanismi di reciprocità, piuttosto che su «formalistiche imposizioni di legge che alimentano un imponente contenzioso (individuale e collettivo) e che nulla valgono quando un posto di lavoro si consuma».
Come guardano i mezzi di comunicazione al mondo del lavoro e quale ruolo essi giocano nella crisi in atto? Emerge dall’analisi che «la cornice prevalente entro cui i media si occupano del lavoro è quella della negatività, del conflitto e del dramma personale». Il lavoro è: «assente», «rifiutato» (e quindi lasciato ai lavoratori immigrati), «inutile» (inefficiente e scarsamente produttivo), «sprecato» (capacità e risorse giovanili inespresse e frustrate), «alienato» (con il peggioramento delle condizioni di lavoro, l’acuirsi della concorrenza e l’indebolirsi della solidarietà). Le rare notizie positive sono spesso accompagnate dalle retoriche del «talento», dell’«innovazione tecnologica» o della «riscoperta delle origini»: appaiono così un «espediente consolatorio o, ancor peggio, ideologico, per nascondere i problemi e le contraddizioni». L’invito rivolto agli operatori dei media è quello di riprendere con responsabilità la propria funzione di informatori e mediatori sociali: «in quanto costruttori primari dell’ambiente simbolico», essi possono svolgere un ruolo decisivo nel sostenere e diffondere i valori della solidarietà e della cooperazione, piuttosto che riprodurre e legittimare quelli dominanti del successo e della riuscita sociale ad ogni costo.
«In quanto riferimento simbolico, il lavoro è ricerca di senso», in quanto legame sociale, è «il vincolo e la risorsa strutturale che costituisce la trama che connette i soggetti agenti in un sistema di aspettative e regole comuni», è «base essenziale della coesione sociale». Una nuova cultura del lavoro è più che mai necessaria per affrontare le trasformazioni in atto e passare dalla concezione del lavoro come rapporto di sfruttamento delle risorse a «relazione di scambio complesso tra persone», «in vista della produzione di un bene da cui dipendono insieme, per la loro vita, produttori e consumatori». Un lavoro a dimensione umana è quello che «si assume le responsabilità sociali verso la comunità locale in cui opera», che «crea legami e solidarietà, capitale sociale e capitale civile, diciamo pure bene comune».
Al termine del volume troviamo dieci pagine di “Osservazioni conclusive”, che riassumono efficacemente gli obiettivi, il metodo e i contenuti dello studio. Sono uno strumento prezioso per fare sintesi tra le tante sollecitazioni proposte e un ottimo punto di partenza per l’azione personale.