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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdfL’inizio della campagna elettorale non è incoraggiante. O almeno, possono goderne solo coloro che sono avvezzi allo scontro senza quartiere, che mettono la forza al servizio della passione. Si tratta di quelli che considerano la vittoria solo se è anche “schiacciante” (ma perché si deve vincere schiacciando l’avversario?), o pensano che, alla resa dei conti, uno, e uno solo, deve rimanere in piedi.

A noi, questo modo di competere, e di fare politica, fa ribrezzo. Non solo: dal punto di vista storico è un anacronismo. Un anacronismo perdurante, va ammesso, ma ugualmente antistorico. Le campagne elettorali politiche dal 1994 ad oggi sono state le più laceranti che la storia del nostro Paese abbia mai conosciuto. E non si può cadere nella tentazione di individuare responsabili a destra o a sinistra, il clima politico è degenerato e basta. Che si tratti di affibbiare alle forze post-comuniste i crimini staliniani e, con ciò, di delegittimarli dal punto di vista democratico, o che si veda nel capo del governo il Grande fratello di orwelliana memoria, quindi un naturale nemico della democrazia, poco importa. Di fatto, le forze in competizione faticano a riconoscersi come soggetti politici in competizione elettorale per il governo del Paese. L’oggetto del contendere non è il governo, ma il sistema politico. Se vince l’avversario è il totalitarismo, e le scelte democratiche sarebbero in pericolo. Questo, più o meno, è il messaggio. In Europa, siamo molto più vicini alla competizione ukraina fra Yuschenko e Yanukovic che alla competizione tedesca fra la Merkel e Schroeder. Prendiamone atto.

Soprattutto, consideriamo che questo effetto perverso è davvero anacronistico. E questo, sostanzialmente, per due ragioni.

La prima riguarda la caduta della grande contrapposizione ideologica fra mondo sovietico e mondo occidentale. Una volta scongiurato il pericolo comunista, allontanato definitivamente l’esito rivoluzionario dalla storia, avviati verso una normalizzazione politica che possa proporsi al di là delle grandi costruzioni ideologiche, era legittimo aspettarsi un confronto politico maturo, di tipo anglosassone, dove nessuno accusa l’avversario di essere anti-democratico, o di volere un regime, o di fondare una tirannia, ma ci si confronta sui diversi programmi politici, sul modo di organizzare il welfare, sulle scelte di politica interna ed estera, e così via. Come può essere accaduto che il clima politico italiano abbia rafforzato lo scontro? Caduto il muro di Berlino, in Italia si sono rafforzate le palizzate.

Ma, a dire il vero, il fenomeno è ancora più strano, se si ammette la seconda ragione. Neanche in piena guerra fredda, governo e opposizione del Belpaese si scambiavano sberle simili a quelle di oggi. Il conflitto ideologico, alimentato dalla contrapposizione planetaria fra est e ovest, non ha quasi mai valicato certi limiti all’interno della cosiddetta nostra politica parlamentare. Anzi, avvennero delle efficaci e straordinarie azioni di ricucitura delle lacerazioni ideologiche, come la politica morotea e fanfaniana che riuscì a portare Nenni e il Partito socialista al Governo, o come il tanto vituperato (ingiustamente) «consociativismo». Il consociativismo si è sviluppato negli anni ’70 e ’80 ed è stato quella particolare formula secondo la quale i partiti di governo e quelli dell’opposizione, data l’impossibilità storicamente verificate dell’alternanza, si sono messi a promuovere una politica di associazione, di convergenze decisionali (si ricorda quella amena formula delle «convergenze parallele»), di spartizione consensuale delle risorse e delle cariche pubbliche. Spesso si sente dire che il carattere truffaldino della classe politica italiana è la causa principale del consociativismo. Attenzione, il consociativismo iniziò con figure quali Moro e Berlinguer (il compromesso storico) i quali, per rispondere alle tensioni derivate dalla crisi economica, dalle trame antidemocratiche da parte dei servizi segreti, dalle violenze operate dalle opposizioni extraparlamentari di destra e di sinistra, da un tasso di inflazione sopra il 15%, tentarono di dare risposte convergenti su alcune questioni di fondo, in ordine alla stabilità del sistema politico italiano. Vorremmo ricordare che la formula consociativa si attuò, nella sua concretezza, nel governo monocolore di «solidarietà nazionale» presieduto da Andreotti negli anni 76-79 (sono questi gli anni del famoso appello di Montanelli di votare DC «turandosi il naso»). Fu un governo, quello di Andreotti del 1976, spesso individuato come «monocolore delle astensioni». Praticamente, nacque con i voti della DC e con l’astensione di tutti i partiti dell’arco costituzionale, sulla base di un programma concordato e verificato, per via ufficiosa, da tutte le forze dell’astensione. Questa politica delle astensioni permetterà, sempre in quegli anni, a Giulio Carlo Argan, comunista, di essere il primo sindaco di Roma laico, a Pietro Ingrao di essere eletto presidente della Camera dei Deputati, ecc. La politica del consociativismo ufficioso fu pagata dalla DC e dal PCI. Il PCI, nelle elezioni del 1979, perse circa il 4% rispetto alle politiche precedenti, mentre la DC uscì sfilacciata in mille rivoli interni. Dopo la parentesi Spadolini, sarà Craxi che riuscirà a ricomporre, sotto una nuova veste, le componenti di un sistema bloccato, attraverso una dinamica di rapporti di forza fra i partiti governanti che presto condurrà il sistema politico italiano dal consociativismo alla logica spartitoria (il CAF, il patto Craxi, Andreotti, Forlani, giustamente vituperabile). Di fatto, comunque, molte barriere fra il comunismo e le forze liberali erano state abbassate già durante gli anni ’70. Si pensi che Enrico Berlinguer, per esempio, così si espresse nel 1977, a Mosca nel quadro delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre: «La politica e gli obiettivi del Partito Comunista Italiano sono rivolti a realizzare una società nuova, socialista che garantisce tutte le libertà personali e collettive, civili e religiose, il carattere non ideologico dello Stato, la possibilità dell’esistenza di diversi partiti, il pluralismo della vita sociale, culturale e ideale». Soprattutto la svolta in capo di relazioni internazionali è indicativa per capire l’indebolimento della cappa ideologica verificatosi alla fine degli anni settanta. La tematica europea, l’alleanza atlantica, il rapporto con il mondo in via di sviluppo condurrà, nell’ottobre 1977, alla sottoscrizione di una comune mozione di politica estera da parte della DC, del PCI e di tutti i partiti dell’astensione.

Nonostante queste ragioni storiche e politiche, la febbre ideologica in Italia ha avuto un picco incredibile, e un fattore di catalizzazione è stata la discesa in campo di Berlusconi. Il suo intervento sulla scena politica ha significato, nei modi e negli argomenti presentati, un ritorno ad una guerra ideologica dal sapore antico, ma con delle caratteristiche moderne. Berlusconi è sceso in campo per impedire alle forze illiberali comuniste, post-comuniste, e catto-comuniste di prendere il potere (approfittando del vuoto lasciato dalla DC). Lo spauracchio della sovietizzazione dell’Italia, del regime delle sinistre, gli è servito parecchio per aggregare il consenso e per affermare la propria forza. Da sinistra, dove l’attitudine allo scontro ideologico è ben radicata nella tradizione dell’azione politica, non è stato difficile ribattere all’ideologia berlusconiana con una ideologia uguale e contraria. Prendendo a spunto la collocazione di Berlusconi nel campo del potere delle comunicazioni e della forza economica e finanziaria, è stato facile agitare la bandiera del regista occulto che pone la politica al servizio dei propri interessi.

Non può sfuggire che il clima ideologico è al servizio della propaganda politica in vista della ricerca del consenso. Vale a dire, i toni si esagerano in campagna elettorale per manifesta rincorsa all’elettore indeciso. Ma ciò non elimina il problema di fondo, di natura etica ovviamente, ma anche di natura politica. Si tratta della questione della rappresentanza politica e del rapporto cittadini elettori. Senza dilungarci troppo sull’argomento, delegittimare l’avversario significa delegittimare, schernire, anche coloro che rappresenta. E in caso di vittoria elettorale, questo mina alla base il rapporto di rappresentanza politica. Il Presidente del Consiglio dei Ministri è il capo del governo di tutti i cittadini italiani, non solo di quelli che lo hanno votato. La considerazione è scolastica, eppure va recuperata. Il clima politico non è deteriorato solo ai vertici delle forze politiche, ma via via fino ai livelli inferiori, fino alle amministrazioni locali, fino ai comitati di quartiere.pdf

L’esito delle elezioni non è affatto scontato, la nuova isterica legge elettorale sta producendo, come si era potuto prevedere, un clima di scontro di tutti contro tutti. Di tutto questo, non si sentiva davvero il bisogno. Questo nostro clima ideologico è anacronistico; superiamolo definitivamente e scriviamo un’altra storia. Sarà sufficiente, in cabina elettorale, orientare la propria scelta tenendo ben presente quali sono state le forze che hanno contribuito a buttare benzina sul fuoco ideologico, e preferire, se possibile, quel sano moderatismo politico spesso presente nelle forze in competizione, anche se a volte offuscato dalle urla dei più facinorosi.

 

 

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