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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdfSolo pochi anni fa le due principali categorie che gli economisti, i sociologi, gli storici, gli antropologi, adottavano in molti frangenti della propria attività intellettuale erano quelle di sviluppo e di mutamento. Si studiavano i fenomeni storici e sociali agitati dall’onda delle profonde trasformazioni sociali e civili che stavano rapidamente sconvolgendo gli scenari planetari, preoccupati per l’emergenza di nuovi problemi globali e di nuove minacciose questioni che potevano coinvolgere lo stesso destino del genere umano. Nacquero nuove teorie del mutamento e i metodi della pianificazione sociale, la sociologia e l’economia dello sviluppo, e altri settori importanti, che hanno costruito un filone importantissimo (e celebrato) delle scienze sociali.

E oggi? Sembrano temi passati di moda, che hanno perso la loro forza propulsiva. Fusi nel grande, e confuso, calderone concettuale del globalismo, stanno lentamente redegrendo a categorie storiche utili per comprendere un certo passato. La loro caratura operativa si è sbiadita, lo spessore disciplinare pure.

Questo contributo vuole mettere in rilievo il carattere ideologico che tali categorie hanno posseduto fin dalla loro origine, e con ciò spiegare la parabola concettuale del mutamento e dello sviluppo ricorrendo all’esaurimento della spinta ideologica iniziale. Come a dire: le categorie di mutamento e di sviluppo, oggi, sopravvivono a stenti, perché il carattere ideologico che ne aveva nutrito gli orizzonti è tramontato. Una ideologia, la loro, che pur innestandosi su quelle sorte nel diciannovesimo secolo, aveva prodotto significati propri, prospettive nuove, che oggi, appunto, sono state soppiantate dalla globalizzazione incipiente e tracimante in ogni aspetto del pensiero contemporaneo.

1. Dalla Rivoluzione proletaria alla Rivoluzione manageriale

Ad avviso di Karl Polanyi, il diciannovesimo secolo fu uno fra i secoli più tranquilli che la storia ricordi. Al di là di qualche insurrezione interna e di qualche conflitto localizzato, generalmente si potè conservare un generale livello di pace1. È noto il ruolo che Polanyi assegna all’alta finanza in questo gioco di equilibri geopolitici e ideologici, ed è altrettanto noto come questa tesi di Polanyi non abbia trovato sempre consenso fra gli storici2. Di sicuro, ogni valutazione sul diciannovesimo secolo risente delle convulse vicende storiche del secolo successivo. Come se il diciannovesimo secolo non si ponga in altro modo se non in un’ottica “introduttiva” a quello che Hobsbawm definisce “secolo breve”, cioè il ventesimo secolo, quello dei “grandi cataclismi”. Le trasformazioni del ventesimo secolo non furono solo di natura politica, non si trattò solo di un’epoca segnata dal crollo dei grandi imperi secolari, da due guerre mondiali, dalle grandi rivoluzioni e dalla conseguente costruzione di imperi geopolitici, da altre rivoluzioni di minore portata ma ugualmente assai significative, dalla travolgente avanzata dei regimi fascisti e dei totalitarismi. Fu anche il secolo dello spostamento del baricentro politico ed economico dall’Europa al nord America e nel quale si portò a compimento quella che spesso viene identificata come seconda rivoluzione industriale.

Di fronte al suo svolgersi, si deve riconoscere che il ventesimo secolo segna un’era nella quale l’uomo si è adoperato per diminuire le incertezze del suo futuro e, all’insegna della progettazione e della pianificazione della sua vita quotidiana, ha fatto dell’avvenire una specifica ragione tecnico-sociale. In modo un po’ provocatorio, si potrebbe dire che i primi futurologi del ventesimo secolo sono stati i vari Taylor, Ford, Beveridge, Keynes. L’avvenire, nel ventesimo secolo, si tecnicizza, diventa materia di progetto e di strategia. Abbandona l’esclusività della sua dimensione ideologica e politica e si trasferisce nel campo dell’azione e dell’organizzazione.

La descrizione più suggestiva delle trasformazioni in atto, dal punto di vista ideologico, ci è provenuta probabilmente dal filosofo James Burnham, il quale espresse il cambiamento in atto in termini di passaggio dall’ideologia rivoluzionaria alla rivoluzione manageriale3. Burnham propose la rivoluzione manageriale quale risposta definitiva alle vecchie contrapposizioni fra capitalismo e socialismo. La sua previsione fu la seguente: in mezzo secolo, il regime capitalista, con la sua ideologia liberale, con la divisione della società secondo la contrapposizione fra proprietari e proletari, sarà spazzato via da una pacifica e silenziosa rivoluzione che porterà al potere una «nuova classe sociale», munita di una propria coscienza di classe e di interessi specifici: la classe dei manager, cioè di quei gestori del processo produttivo che, di fatto, già controllano i mezzi di produzione. In effetti, Burnham aveva già di fronte l’esperienza sovietica, nella quale la classe dei burocrati e dei tecnocrati stava rendendo vane le attese del più genuino socialismo, ma rilevante era la sua pretesa di estendere questo meccanismo anche alle società capitalistiche. Le profezie di Burnham si completavano con la suddivisione delle aree del mondo in funzione del predominio delle classe manageriali nei rispettivi luoghi di influenza. L’universo gestito dai manager avrebbe dovuto trovare il seguente ordine: l’area di influenza degli Stati Uniti, l’area della Germania, quella del Giappone (si osservi come l’Unione Sovietica, nell’intenzione di Burnham, avrebbe dovuto seguire una ulteriore divisione fra l’area d’influenza orientale, quella giapponese, e quella invece europea e tedesca).

Questo passaggio da un avvenire “politico” a uno “strategico e manageriale” è meno brusco di quanto possa apparire. O almeno così spera di chiarire l'articolazione dei temi affrontati in questo capitolo.

2. Lo Sviluppo e l’occidentalizzazione del mondo

Preliminarmente, si può cominciare con l’osservare che il concetto di sviluppo non coincide con quello di crescita. Nell’idea di sviluppo è contemplato un arrivo, un fine, una piena maturazione, che nella generale idea di crescita può non essere presente. La presenza di questo elemento teleologico indica la positività connessa al processo di sviluppo. Per esempio, la maturazione personale - cioè lo sviluppo del comportamento - è sempre una cosa giusta e raccomandabile. Un altro carattere dello sviluppo, più o meno generalmente inteso, è quello della continuità. Nello sviluppo c’è una progressione, magari lenta, senza bruschi salti o gravi interruzioni. Il cambiamento avviene con continuità e ogni stato nuovo dipende dal precedente secondo una concatenazione metodica. La progressione può essere descritta da tappe successive. In ultimo, il concetto di sviluppo spesso sottintende una certa irreversibilità generale del mutamento in atto.

In questa sintetica descrizione dei caratteri dello sviluppo, riusciamo in modo visibile ad accertare il facile connubio che si stabilisce con il concetto di sistema. È proprio del sistema procedere verso uno stadio non solo successivo, ma in un certo senso “superiore”, senza che si verifichino brusche trasformazioni, per cui quasi sempre un nuovo stato di equilibrio è stato raggiunto in conformità ad alcuni caratteri rinviabili allo stato d’equilibrio precedente.

Spesso si pensa che il concetto di sviluppo sia sorto nel ventesimo secolo, e in particolar modo nel secondo dopoguerra, quando l'ordine internazionale, le forme di interazione economica e l'estensione dei mercati, crearono condizioni nuove per il cambiamento sociale. In realtà, l'origine delle concezioni sullo sviluppo, tenendo comunque presente la distinzione dai concetti di progresso, crescita, modernizzazione, è ben radicata nel diciannovesimo secolo4. Storicamente, nel diciannovesimo secolo lo sviluppo è pensato unicamente in termini immanentistici, secondo il modello esemplare del caso indiano. Si fa notare che John Stuart Mill scrisse il suo Logic and Principles of Political Economy, una pietra miliare per la formulazione del concetto di sviluppo, mentre era impiegato delle British East India Company. Lo sviluppo del capitalismo indiano fu il risultato dell'abbattimento di una struttura di valori sociali tradizionali e, sulle forme etiche e sociali da riscrivere daccapo, si inserirono i semi del nascente e progrediente capitalismo borghese. Ovviamente, si tratta quindi di un concetto immanente che rivela, però, una precisa dimensione di «tutela» (trusteeship) politica ed economica, assicurata da una realtà politica ed economica (il sistema inglese nel caso specifico indiano) che aveva i mezzi per autodefinirsi sviluppata e per esercitare il potere del proprio sviluppo: «without trusteeship there is no devllopment doctrine»5. È l'origine del significato spesso ideologico che il concetto di sviluppo ha assunto e si è trovato, in alcune circostanze, a mantenere ancora oggi.

Probabilmente, spetta a Walt W. Rostow il titolo di caposcuola dei teorici dello sviluppo. «Tutte le società, per le loro caratteristiche economiche, possono essere classificate in una di queste cinque categorie: la società tradizionale, la fase delle condizioni preliminari per il decollo, il decollo, il passaggio alla maturità e il periodo del grande consumo di massa»6. Il programma teorico di Rostow è ben illustrato da questo suo celebre schema dello sviluppo storico. In pratica, tutti i sistemi socio-economici hanno un divenire segnato dallo sviluppo, pensato stadio per stadio, metaforicamente assimilato alle fasi del decollo di un aeroplano, fino alla conclusione ideale di un benessere scandito dal consumo. L’opera si costruisce su di una ricca e completa documentazione di carattere storico e statistico, la quale gli consente di condurre un’analisi comparata dello sviluppo di società industriali differenti, fra Europa e America del Nord, l’India, la Cina, il Giappone e anche l’America Latina.

La visione di Rostow è quanto mai sociocentrica7. Probabilmente, risente del clima di confronto fra il sistema occidentale e quello sovietico, che Rostow si ostina a chiamare russo. Innanzitutto, le società tradizionali, quelle precedenti a qualsiasi discorso di sviluppo, sembrano rappresentare in Rostow il punto zero di qualsiasi condizione storica. Esse sono dominate dalla scarsità e da una certa immobilità che sembra farne delle società in perenne stato di coma civile. Queste società non hanno che l’aspirazione di trovare quell’impulso organizzativo, scientifico o di chissà che altro tipo, in grado di consentire un aumento della produzione. Eppure, gli studi antropologici hanno da tempo messo in rilievo come questa condizione non sia affatto reale e fra le società tradizionali si riconosce non un impedimento oggettivo alla crescita della produzione ma un rifiuto culturale all’accumulazione8. Proseguendo nello schema dello sviluppo di Rostow, durante il periodo nel quale si realizzano le condizioni preliminari per il decollo «si diffonde […] l’idea che il progresso economico non solo sia possibile, ma che esso sia una condizione necessaria per qualche altro scopo, ritenuto buono, si chiami esso dignità nazionale, profitto privato, benessere generale, o una vita migliore per i figli»9. In pratica, assaporato il profumo della modernità, ogni società politica assume un unico scopo: completare il percorso, prendere il volo, decollare verso lo sviluppo. Il decollo (take off, e tale concetto ebbe subito una grande fortuna nel linguaggio dei teorici dello sviluppo): «è l’intervallo in cui le vecchie remore e resistenze a un deciso sviluppo sono definitivamente superate. Le forze tendenti al progresso economico, che avevano prodotto solo limitate eruzioni e isole di attività moderna, si espandono e giungono a dominare l’intera società. Lo sviluppo ne diviene condizione normale. L’interesse composto viene per così dire incorporato nel costume e nella struttura istituzionale»10. Si osservi come il passaggio al costume e alla struttura istituzionale riproponga nello schema di Rostow la condizione materialistica del pensiero marxista dell’anticipo logico (se non cronologico) fra la struttura economica e le sovrastrutture. Lo sviluppo, cioè, investe tutte le dimensioni dell’agire umano-sociale e, a questo punto, niente potrà più essere come prima e la nuova modernità soppianta, e rinnega, la tradizione. Infine, si ha la maturazione del processo iniziato così da lontano, cioè il periodo del grande consumo di massa, caratterizzato dal fordismo americano, cioè dalla re-distribuzione ai lavoratori degli aumenti di produttività al fine di accrescere il consumo, con annesso sistema previdenziale.

Attorno al pensiero di Rostow si accese una polemica notevole. I limiti della sua impostazione sono evidenti. Egli tratta le civiltà come fossero delle libere e indipendenti organizzazioni che devono trovare al proprio interno la sollecitazione allo sviluppo. Il «ritardo» di una rispetto ad un’altra, in questo senso, sembra essere solo imputabile a motivi interni alla sua struttura sociale. È esclusa, quindi, la spiegazione forse più appropriata alle differenze nel livello di sviluppo, cioè quella che vuole l’arretratezza di alcune civiltà imputabile all’arricchimento senza scrupoli di altre. Fra l’altro, se l’obiettivo di Rostow era quello di costruire una teoria politico-economica alternativa a quella di Marx, di fatto il suo tentativo ha forse solo ribaltato simmetricamente la prospettiva marxista conservandone tuttavia i difetti principali. Vale a dire che nella teoria di Rostow c’è una filosofia della storia di matrice fordista invece che materialista, è contemplata la missione storico mondiale dell’industria invece che del proletariato, il consumo di massa subentra alla lotta di classe, il mercato al partito comunista internazionale, ecc.

È ovvio che la modernizzazione pensata da Rostow non è altro che una sorta di occidentalizzazione del mondo. Senza alcun dubbio, il divenire delle società tradizionali è ancora oggi parecchio sollecitato dai modelli di sviluppo delle realtà occidentali modernizzate. È tuttavia più consono discutere di «ibridazione dello sviluppo»11, nel senso che si constata l’emergere di un sincretismo complesso, nel quale società modernizzate dal punto di vista economico non lo sono dal punto di vita civile o politico, con il gran numero di varianti a questa distonia presentati dai fenomeni storici contemporanei.

Il ritorno a certe forme ideologiche di concezione dell’avvenire ha potuto assumere tratti assai evidenti nelle opere di intellettuali successivi a Rostow. In particolare, piano piano è divenuta chiara la posizione che i “migliori”, i “primi”, esercitano la propria supremazia avanzando la pretesa di dominare il futuro. Per esempio, questa limitante pretesa è espressa bene da Jan Tinbergen, quando afferma che «una popolazione piuttosto povera, come media generale, non saprà prevedere lontano e quindi sarà interessata a profitti immediati. Essa si accontenta di vivere alla giornata e ogni suo componente penserà a se stesso»12. Vale a dire, forzando un po’ il discorso, che l’avvenire è roba per ricchi, gli altri possono solo stare a guardare, aspettando che qualcuno gli dica cosa succederà loro.

Il successo riscosso dalla concezione della modernizzazione del ventesimo secolo deve molto alle teorie dello sviluppo, soprattutto nella prima fase della loro elaborazione. D’altronde, in un certo senso con quelle teorie si mettevano d’accordo tutti. Per i paesi già sviluppati del mondo occidentale si trattava di continuare a credere nel ritmo di crescita interno e nella collaborazione internazionale, in particolare rivolta ad ostacolare il diffondersi del marxismo. Per i paesi in via di sviluppo, invece, si concretizzava un’aspirazione particolarmente visibile nelle nuove classi dirigenti, le quali diffondevano i segnali di un progressivo stile occidentale nelle loro realtà tradizionali. L’avvenire, in pratica, sembrava soddisfare tutti, anche se presto si attuò una decisa reazione a questo ottimismo ideologico. In particolare, furono alcuni studiosi di orientamento marxista nel mondo occidentale e alcuni intellettuali dei paesi in via di sviluppo a mettere in rilievo le contraddizioni implicite nel programma di modernizzazione basato sullo sviluppo. Paul A. Baran e Paul M. Sweezy pubblicarono, nel 1966, Monopoly Capital, illustrando con concetti diversi il rapporto fra i paesi in via di sviluppo e le potenze occidentali. Recuperando alcune teorie che già Lenin e R. Luxemburg avevano avuto modo di esporre, gli intellettuali statunitensi misero in rilievo come il XX secolo sia di fatto caratterizzato dalla progressiva formazione dell’egemonia nordamericana, la quale soppianta, in termini di rapporto di potere e di dominio politico ed economico, il colonialismo europeo. In tale situa-zione, il capitalismo concorrenziale cede il passo al capitalismo monopolistico il quale, confermando con ciò le previsioni di Lenin13, è basato sull’as-sociazione del capitale industriale con quello finan-ziario. Attraverso il gioco delle concentrazioni, queste società controllano il mercato e, di con-seguenza, controllano pure i prezzi. Questi ultimi, nonostante i notevoli aumenti di produttività, non diminuiscono e permettono l’accumulazione di enormi surplus. La questione principale, quindi, è l’assorbimento di questo surplus, poiché il capitalismo monopolistico è incapace di creare una domanda effettiva sufficiente ad assicurare la piena occupazione del lavoro e del capitale14. Un sistema siffatto, in pratica, rischierebbe di cadere in una fase di stagnazione, producendo in modo sempre meno redditizio beni che fruttano un profitto sempre maggiore. La soluzione risiede in un triplice intervento: la propaganda pubblicitaria che deve sollecitare il pubblico a un consumo sempre maggiore, l’intervento dello Stato per creare sempre nuove opportunità di consumo (per esempio la costruzione di migliori vie di comunicazione in grado di accrescere la domanda di mezzi di trasporto) e, infine, lo sviluppo ad opera dello Stato del settore militare-industriale. Nelle parole di Ba-an e Sweezy: «Se si assume la stabilità del capi-alismo monopolistico, con la sua provata incapacità di fare uso razionale per scopi umani e pacifici del suo enorme potenziale produttivo, è necessario de-idere se si preferisce la disoccupazione di massa e l’irreparabilità caratteristiche della grande depres-sione, o la relativa sicurezza di occupazione e di benessere materiale assicurata dagli enormi bilanci militari degli anni quaranta e cinquanta»15. Per tale via, dalla denuncia delle contraddizioni implicite allo sviluppo del sistema capitalistico nordame-ricano i nostri autori passano all’esortazione di una rivoluzione mondiale operata non dal proletariato, ma dai paesi del sud del mondo.pdf

In conclusione, è stata condotta una rivisitazione strumentale delle teorie dello sviluppo alle origini di questo ricco filone di studi, al fine di porre in rilievo soprattutto il carattere vetero-ideologico delle stesse. Il riciclo della «falsa coscienza», come Marx definiva l’ideologia (pur rimanendone vittima la sua stessa dottrina), è visibile ancora nelle contemporanee tendenze del dibattito sull’ordine internazionale, i rischi e le opportunità globali, gli scenari politici continentali e mondiali. Ancora una volta, se pure ve ne dovesse essere ancora bisogno di ripeterlo, l’ideologia è meglio prevenirla, che curarla.


1 K. Polanyi, The Great Transformation, Holt, Rinehart & Winston, New York, 1944; tr. it., La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974, pp. 7 e ss.
2 Cf. S. Guarracino, Il Novecento e le sue storie, Bruno Mondadori, Milano, 1997.
3 Cf. il cap. XII di J. Burnham, The Managerial Revolution: What is happening in the World, John Day Co., New York, 1941. L’analisi di Burnham ha avuto successivi approfondimenti, fra i più importanti, e recenti, si segnala P. F. Drucker, Managing in a Time of Great Change, Talley Books, New York, 1995; tr.it., Il grande cambiamento, Sperling & Kupfer, Milano, 1996.
4 Si veda il capitolo 1 del fondamentale M.P. Cowen, R.W. Shenton, Doctrines of Development, Routledge, London, New York, 1996.
5 Ibid., p. 57.
6 W.W. Rostow, The Stages of Economic Growth. A Non-Communist Manifesto, Cambridge University Press, Cambridge, 1960; tr. it., Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino, 1962, p. 33.
7 Cf. G. Rist, Le Développement. Histoire d’une croyance occidentale, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, Paris, 1996; tr. it., Sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
8 Cf. M. Sahlins, Stone Age Economics, Aldine Atherton, Chicago and New York, 1972; tr. it., Economia dell’età della pietra, Bompiani, Milano, 1980.
9 W.W. Rostow, Gli stadi dello sviluppo economico, cit., p. 36.
10 Ibid., pp. 37 e ss.
11 G. Rist, Sviluppo. Storia di una credenza occidentale, cit., p. 105.
12 J. Tinbergen, Ontwikkelingsplannen, Kindler, München, 1967; tr. it., Sviluppo e pianificazione, il Saggiatore, Milano, 1967, p. 19.
13 V. Lenin, L’imperialismo come fase suprema del capitalismo, Edizioni in lingue estere, Mosca, 1948.
14 P. A. Baran, P.M. Sweezy, Monopoly Capital. An Essay on the American Economic and Social Order, Monthly Review Press, New York, 1966; tr.it., Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Einaudi, Torino, 1968, pp. 68 e ss.
15 Ibid., p. 174. 

 

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