Select your language

Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdfL’Europa è storicamente paese d’emigrazione: basti guardare a come gli europei hanno colonizzato interi continenti (le Americhe, l’Oceania), a come si siano impiantati in ampi territori dell’Africa e dell’Asia1. Soltanto verso la fine del XX secolo l’Europa diventa autentico paese d’immigrazione, dopo aver teorizzato, ancora negli anni ’70, la possibilità di restare a “immigrazione zero”2.

Il fenomeno immigratorio diventa strutturale nella seconda metà degli anni ’90, per tre concause. La caduta dei regimi comunisti nei paesi vicini dell’Europa centro-orientale aggiunge un ulteriore flusso di risorse umane alla mano d’opera offerta da decenni dalla fascia meridionale del Mediterraneo. Accordi intergovernativi rendono sempre più facili i passaggi alle frontiere, all’interno del crescere dei fenomeni di globalizzazione dell’economia, e del turismo internazionale. La crisi demografica e l’invecchiamento della popolazione europea rendono irrinunciabile l’acquisizione di lavoro esterno, per il mantenimento dell’espansione economica nel vecchio continente3. Alla metà degli anni 2000, la presenza di lavoratori stranieri nei paesi membri si attesta tra il 4 e il 5% della popolazione totale4, e contribuisce per ¼ alla crescita occupazionale annua.

Per contestare questa progressione storica, non mette conto citare casi anteriori d’immigrazione legati a paesi come Olanda5, Francia, Regno Unito, Belgio. Certamente qui si sperimentarono consistenti fenomeni d’immigrazione già negli anni settanta. Ma si trattava di movimenti strettamente legati al passato coloniale: si caratterizzavano per rappresentare una sorta di circolazione interna al mercato monoculturale e monolinguistico ereditato dall’epoca coloniale e da accordi espliciti o impliciti tra metropoli ed ex territori ultramarini6.

Non c’è da stupirsi se i paesi europei e l’Unione arrivino, allo storico appuntamento con i flussi d’immigrazione, impreparati sia sotto il pro-filo delle politiche dell’accoglienza che delle rego-lamentazioni d’accompagnamento. Le ingenuità, gli errori di fronte all’affluire in Europa di masse d’immigrati regolari e clandestini, trovano spiegazione anche nella totale impreparazione continentale alla novità7.

Impreparazione che nei paesi trovatisi da bacini d’emigrazione netta a ricettori d’immigra-zione netta (Spagna e Italia dapprima, poi Grecia e ora alcune delle nuove democrazie centro-orientali), è risultata anche maggiore8. Si pensi che in Italia il primo provvedimento che affronta specificamente l’immigrazione è del febbraio 1990, la cosiddetta legge Martelli. Si dà il caso che quindici anni dopo il nostro paese conti già due milioni ottocentomila immigrati regolari, contro i tre milioni e mezzo della Francia9, con un’incidenza percentuale che in ambedue i paesi va ad aggirarsi intorno al 5%.

In cerca di una strategia

I problemi sono posti a livello di due ca-tegorie d’emigranti: quelli già ospitati legalmente nei Paesi membri, quelli che vi sono entrati o che vi entreranno illegalmente. Per gli emigrati già presenti legalmente nei Paesi europei, le questioni riguardano essenzialmente la qualificazione del loro inserimento nella società di accoglimento: secondo delle situazioni nazionali, ciò concerne i sistemi d’istruzione e di qualificazione professionale, i livelli salariali, la politica di ricongiungimento dei nuclei familiari, l’atteggiamento verso le naturalizzazioni, la protezione sociale, la partecipazione alla vita sindacale e all’elettorato attivo almeno per le liste locali e amministrative. Obiettivamente più complesso il quadro attinente gli spazi illegali dell’emigrazione…”. Considerazioni davvero attuali: peccato che risalgano a vent’anni fa!10 Sembra che la società europea non sia riuscita, in un ventennio, a spostare significativamente i termini della questione migratoria.

Identificare le ragioni dei nostri insuccessi e comprendere quali azioni strategiche andrebbero assunte, è un modo di contribuire alla ricerca delle soluzioni. D’altronde, ed è l’altro elemento da tener presente per collocare storicamente le attuali politi-che dell’Unione in materia di migranti, le migrazioni di cui l’Europa ha conoscenza e con sapevolezza, tra la fine della seconda guerra mondiale e la caduta del muro di Berlino, sono soprattutto quelle interne al continente, tra un sud italiano, spagnolo, portoghese, greco con eccesso di popolazione rispetto alle capacità produttive, e un centro-nord che preme l’acceleratore dello sviluppo. Dette migrazioni, che sino alla seconda guerra si dirigevano verso i continenti nuovi d’America ed Asia, o trovavano sfogo nelle avventure coloniali, diventano parte degli accordi d’integrazione che i paesi europei vengono a sottoscrivere dagli anni cinquanta in poi.

Sin dall’inizio, le nascenti istituzioni europee si confrontano con la necessità di una politica migratoria comune, che guardi anche al profilo sociale dei movimenti umani che le esigenze della ricostruzione post bellica e l’espansione capitalistica degli anni ’50 stanno mettendo in essere. Il trattato di Roma che, nel 1957, crea la Comunità economica europea, adotta il principio della libera circolazione dei lavoratori11.

Torna sulla materia l’Atto unico europeo, firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986. Il documento realizza il passaggio dal mercato “comune” a quello “interno”, prevedendo il pro-gressivo abbattimento delle frontiere interne sia per i cittadini dei paesi membri che per i familiari del cittadino comunitario originari di paesi terzi. La mi-sura sulla libera circolazione non tocca soltanto chi presta lavoro. Si estende a pensionati, studenti e altre categorie non regolate dal trattato istitutivo della Cee, e diventa effettiva dal 1 gennaio 1993.

Il momento più alto è rappresentato dal trattato dell’Unione europea, sottoscritto a Maastricht il 7 febbraio 1992. Viene introdotto il concetto di cittadinanza dell’Unione12, s’istituisce la figura del Mediatore europeo, si affida al Parlamento europeo il compito di organizzare Commissioni di inchiesta13. Le misure toccano direttamente i soggetti interessati alle migrazioni, sia quelle interne al territorio unionale, sia quelle da e per paesi terzi. Più in particolare, per gli ospiti in arrivo da paesi terzi, il trattato affida alla cooperazione intergovernativa la lotta contro l’immigrazione clandestina e la criminalità collegata, ponendola nelle mani del Consiglio dei ministri dell’Unione14.

L’ulteriore passo in avanti avviene con il completamento di alcuni presupposti del trattato di Maastricht, operato attraverso il trattato di Amsterdam dell’ottobre 199715. L’Ue s’impegna a lavorare nei settori della Giustizia e degli Affari interni. In questo contesto, le disposizioni riguardanti gli immigrati da paesi terzi, la loro circolazione nel territorio unionale, le modalità del soggiorno, sono affidate agli organi dell’Unione e non solo più alla cooperazione intergovernativa. Il trattato, a conferma di quanto le competenze sulle migrazioni appaiano sensibili, fissa che l’entrata in vigore delle nuove competenze unionale in materia d’immigrazione ed asilo, accada cinque anni dopo l’entrata in vigore del trattato.

Le novità, rispetto a Ma-astricht, sono significative. Così l’art. 63 ricerca uno schema legale di riferimento comune sullo status degli immigrati da paesi terzi. Al § 3, ad esempio, Amsterdam fissa in quali situazioni i cittadini di stati terzi possano, per il periodo massimo di mesi tre, circolare liberamente nel territorio unionale. Mentre il paragrafo 4 dello stesso articolo stabilisce le condizioni alle quali detti cittadini, nel caso di regolare situazione, possono soggiornare in altri paesi membri.

In quanto all’asilo, il paragrafo 1 richiama la convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e il protocollo del 31 gennaio 1967. Inoltre, nel testo aggiornato del 1998, il trattato consente il ricorso presso la Corte16 di giustizia se è violata la Conven-zione europea dei diritti fondamentali del Consiglio d’Europa.
Come si vede, Amsterdam statuisce un legame inscindibile, e che da qui in poi sarà tenuto ben fermo dalle politiche unionali, tra soppressione dei residui ostacoli alla libera circolazione delle persone e il rafforzamento della sicurezza. Amsterdam è possibile, perché esiste Schengen: il che è senz’altro vero per i cittadini dell’Unione, ma ri-guarda immediatamente anche i diritti dei cittadini dei paesi terzi, una volta che abbiano fatto ingresso legale nel territorio dell’Ue. Politiche del sociale (ministeri del lavoro, della pari opportunità, delle politiche sociali), della sicurezza (ministeri dell’interno e della giustizia), della giustizia (ministeri di grazia e giustizia), procedono di conserva, attraverso coordinamenti politici e amministrativi tesi ad allargare le maglie degli ingressi dai paesi esteri, restringendo al più basso livello possibile i rischi collegati in termini di sicurezza, igiene e salute pubblica. Si guardi alla politica dei visti, unionalizzata, quella dell’immigrazione, quella riguardante i diritti dei cittadini regolarizzati provenienti da paesi terzi, le norme attinenti i passaggi alle frontiere, le misure per gestire le concessioni d’asilo e la cooperazione giudiziaria civile.

Sembra appropriato rilevare qui la creazione dell’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli stati membri dell’Ue (Frontex), finalizzata ad adottare ed elevare il grado di gestione integrata dei servizi di vigilanza agli ingressi. L’Agenzia è creata con Regolamento (CE) n. 2007/2004 del Consiglio, del 26 ottobre 2004, in vigore un mese dopo, essendo pubblicato nella G:U L 349 del 25 no-vembre 2004. La responsabilità del controllo alle frontiere esterne (regolate dalle disposizioni del diritto comunitario in quanto ad attraversamento delle frontiere esterne da parte di persone) resta agli stati membri, ma l’Agenzia semplifica l’applicazione delle misure comunitarie in materia, attuali e successive. L’Agenzia fa: ricerca, informazione, formazione, monitoraggio, assistenza tecnica e operativa rafforzata, sostegno per l’organizzazione di rimpatrio congiunto nel caso di residenze illegali di stranieri17. L’Agenzia funziona dal 1 maggio 2005 e, in base alla Decisione 2005/358/CE del Consiglio, del 26 aprile 2005, attinente la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli stati membri, con sede a Varsavia. Si avvale delle decisioni prese dal Consiglio dei ministri degli Interni e della Giustizia dei 15 nel 2003 e trasmesse al Consiglio europeo del 16 e 17 ottobre di quell’anno. Là, oltre alla decisione sull’Agenzia, furono fissati i principi delle “quote d’ingresso europee”, dei “dati biometrici” sul passaporto, dei “paesi sicuri” (ai cui cittadini non viene concesso asilo politico).

L’Unione nella diversità: anche verso gli immigrati

Sul piano giuridico, l’Italia e gli altri “ri-tardatari”, incontrano paradossalmente meno problemi per adeguarsi alle politiche che l’Ue va costruendo intorno agli immigranti. Non disponendo, in materia d’immigrazioni, di un consolidato in quanto a leggi, regole amministrative, giurisprudenza nazionali, frappongono meno rimostranze ed osservazioni di fronte all’iniziativa dell’Unione. Un’iniziativa che, per la natura stessa dell’acquis comunitario, si spinge più avanti delle tradizioni nazionali, in quanto a salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Ciò che è risultato particolarmente evidente in quanto a diritto d’asilo, diritto di ricongiungimento e a vivere in famiglia18, diritto di protezione giuridica contro le procedure d’espulsione.

Italia, Spagna e le altre nazioni followers, non hanno, ad esempio, esperienza della chiusura totale delle frontiere, quando provvedimenti di questo tipo erano stati adottati da altri paesi europei intorno alla metà degli anni ’70, in occasione della crisi economica, seguita al subitaneo innalzamento dei costi petroliferi, che avrebbe contribuito al programma di “immigrazione zero”. Per la stessa ragione, detti paesi non hanno visto sorgere quei movimenti politici sciovinisti e razzisti che nei paesi d’immigrazione storica, ad esempio la Francia, hanno condotto campagne xenofobe e antiimmigrazione, vendendo alle opinioni pubbliche soluzioni comunque fuori dalla portata delle presenti generazioni19.

Sono i retroterra nazionali a spiegare come, al di là dei principi condivisi con la sottoscrizione di convenzioni e trattati, i governi dei paesi membri fatichino a far funzionare un’autentica politica europea globale delle immigrazioni. Tali retroterra vanno esaminati dal punto di vista dei governi e delle culture di accoglienza, e dal punto di vista delle culture allogene che vengono a collocarsi nei contesti europei. Il ritardo, e quindi la sostanziale debolezza di partenza, delle nazioni followers, spiega anche perché il concerto chiesto da paesi come l’Italia20 e la Spagna, di fronte alla pressione demografica dei più disperati, in arrivo attraverso il Mediterraneo, non trovi inizialmente che parziale accoglimento, con conseguenze deleterie per gli immigrati sotto il profilo sociale e sanitario, e sia per gli immigrati che i cittadini comunitari sotto il profilo della sicurezza21.

Ciò detto, va escluso che si stia registrando nel territorio dell’Ue l’accentuazione dei percorsi nazionali all’immigrazione. Al contrario, si va co-struendo un acquis comunitario in materia d’immi-grazione, che alla lunga finirà per prevalere sui per-corsi nazionali sin qui compiuti. Il processo è insie-me causa ed effetto della maturazione, nell’ambito delle opinioni pubbliche dei paesi membri, della convinzione che l’Unione debba assumere maggiore rilievo nelle questioni riguardanti gli immigrati, per gli aspetti di sicurezza e di giustizia sociale che superano le specificità nazionali. Si sono inoltre rilevati, negli ultimi tempi, i forti limiti che soluzioni basate esclusivamente sul vissuto nazionale generano.

Si prenda il modo opposto con cui i due paesi europei più rile-vanti, Germania e Francia, hanno storicamente affrontato la questione della concessione della cittadinanza a stranieri. In Germania il ius sanguinis, da sempre richiamato come fondamento del Volk germanico, ha generato, nei decenni della grande immigrazione dei Gastarbeiter turchi e mediterranei, la cultura della sovrapposizione di prossimità tra comunità etno-culturali destinate a restare comunque separate. In opposizione a questo modello, la Francia ha portato avanti il progetto della “cittadinanza repubblicana”, naturalizzando sulla base del ius soli chi fosse nato in territorio repubblicano. Ambedue le posizioni sono sottoposte a critica. La Germania, alla luce dello scarso risultato dell’operazione d’integrazione veloce dei länder orientali, condotta secondo i canoni sperimentati nei decenni di welfare “pesante”, con formazione professionale e inserimento “economico” degli immigrati, riapre la questione della cittadinanza basata sull’etnia, anche perché nel frattempo il numero degli stranieri è ulteriormente cresciuto22. La Francia, dopo la lezione della rivolta nella vasta banlieu maghrebina, s’interroga sui limiti di una scelta che ha naturalizzato immigrati che si sentono gli “indigeni” della Repubblica23.

Né il revisionismo tocca soltanto la coppia di testa franco tedesca. Il Regno Unito che, mentre ancora si lecca le ferite per le sommosse etniche del 2001, scopre cittadini britannici figli di immigrati tra gli attentatori islamici del 7 luglio24, si chiede se il metodo della lotta alla dischiminazione etnica per via giudiziaria sia sufficiente25. Il Regno Unito ha storicamente sposato il multiculturalismo tollerante, dove i gruppi di minoranza sono persino sostenuti nel mostrare la loro specificità e distinzione, scontato che accettino quella degli altri. L’Olanda, per mesi e mesi in stato di choc per l’assassinio del regista Theo van Gogh commesso da radicali islamici26, inizia a dubitare del complesso sistema di partecipazione istituzionale politica e sociale adottato da decenni per favorire l’integrazione degli immigrati, con il fulcro dell’attribuzione agli emigrati del diritto a partecipare alle elezioni locali27 e scelte non molto dissimili da quella britannica in fatto di esaltazione delle specificità etniche e nazionali. Danimarca e paesi scandinavi, che su uno schema simile avevano costruito il rapporto con le comunità immigrate, accentuano anch’essi la fase del ripensamento. In quanto all’Italia, da sempre favorevole a politiche dell’Unione sull’immigrazione, guarda con attenzione a come le situazioni nazionali vadano convergendo verso medesime conclusioni pragmatiche: affidare all’Unione il compito di ispirare, verso gli immigrati, comportamenti adeguati e per quanto possibile uniformi in tutti i paesi membri.

Ciò che è certo, problemi tra comunità immigrate e nazionali sono venuti a manifestarsi sia dove ha prevalso l’integrazionismo (Francia) sia dove è stato premiato il multiculturalismo (Gran Bretagna e Olanda). E’ anche certo che nessun paese europeo abbia scelto politiche di assimilazione, come stanno facendo da qualche tempo molti stati degli Stati Uniti (abbandonando la teoria del melting pot multiculturale), contrastando la formazione di ridotti abitativi etnici, consentendo l’uso anche di lingue d’origine ma non in situazioni ufficiali (è il caso dello spagnolo con i latinos28.

Qualche interessante precedente è già disponibile, ad esempio in materia d’educazione scolastica.

Altrettanto può notarsi, in fatto di regola-rizzazione degli immigrati clandestini. Qui la Spagna ha segnato l’esperienza più profonda, avendo deciso una campagna, il 7 febbraio 2005, particolarmente generosa verso gli immigrati, includendovi la riapertura di termini per la regola-rizzazione di irregolari. La campagna ha riaperto in Europa il dibattito sul meccanismo di early warning, “un sistema reciproco di informazione e allarme preventivo”, portato al Consiglio dei ministri del 24 febbraio 2005. I timori rispetto alle azioni di regolarizzazione partono da una constatazione, fatta propria dalla Commissione europea in un suo documento ufficiale: “l’esperienza dimostra che le iniziative di regolarizzazione funzionano da fattore di traino per l’immigrazione illegale”29.

Alla ricerca di una politica dell’Unione per gli immigrati

Sulla base di quanto dettato dal trattato d’Amsterdam, il Consiglio europeo di Tampere, nell’ottobre 1999, dichiara che “gli aspetti separati, ma strettamente connessi, dell’asilo e della migra-zione richiedono la definizione di una politica comune dell’Ue”, elencando le questioni da includere in detta politica:

· partenariato con i paesi d’origine,
· regime comune nelle politiche sull’asilo,
· equo (fair) trattamento dei cittadini dei paesi terzi,
· gestione (management) dei flussi migratori.

Quel Consiglio riconosce, nel paragrafo 20 delle Conclusioni, “la necessità di un ravvicinamento delle legislazioni nazionali relative alle condizioni di ammissione e soggiorno dei cittadini dei paesi terzi, in base a una valutazione comune sia degli sviluppi economici e demografici all’interno dell’Unione, sia della situazione dei paesi di origine”. Risulta chiaro, ai capi di stato e di governo europei, che le immigrazioni non sono più un aspetto secondario, complementare alla libera circolazione interna dei lavoratori, ma un fenomeno a sé stante, piuttosto ponderoso verso il quale occorre predisporre un quadro giuridico-istituzionale di riferimento ad hoc.

La Commissione europea, riprendendo le conclusioni della Presidenza30, rileverà, in Comuni-cazione successiva31, che le politiche d’immigrazione zero vanno considerate non più adeguate ai bisogni dei paesi membri, alle prese con il flusso d’immigrati illegali alimentato da contrabbando e tratta d’esseri umani. Con le consapevolezze dell’oggi, può risultare curioso leggere in quella Comunicazione del novembre 2000: “vari Stati membri hanno già iniziato ad assumere cittadini di paesi terzi al di fuori dell’Unione. In tale situazione occorre scegliere tra continuare a pensare che l’Unione possa persistere nell’opporsi alle pressioni migratorie, oppure accettare l’immigrazione come fenomeno destinato a proseguire, che va adeguatamente regolato…”. Solo cinque anni fa la Commissione non si sente ancora autorizzata a guardare in faccia quanto sta accadendo con le immigrazioni, perché “sull’ammissione e l’integrazione dei cittadini dei paesi terzi i pareri negli Stati membri sono molto divergenti”.

L’uscita dall’incertezza, l’organo comunitario sembra trovarla in un suggerimento, dal tono sommesso, corrispondente a una banalità: “In tale contesto, la Commissione ritiene che ai lavoratori migranti dovrebbero essere messi a disposizione canali di immigrazione legale”. Più autorevolmente la Commissione rileva anche il bisogno di coor-dinare sotto il segno della trasparenza le politiche tradizionalmente condotte dagli stati membri32, affinché non danneggino altri settori della politica Ue, come i controlli alle frontiere interne, gli impe-gni comunitari internazionali a norma dell’accordo Gats (Accordo generale sugli scambi di servizi), la strategia europea per l’occupazione.

Conseguentemente la Commissione fissa le ma-terie sulle quali gli stati membri sono chiamati a decidere:

· procedura per il controllo dei flussi migratori,
· consultazione tra stati membri sui temi della migrazione,
· condizioni d’ammissione e soggiorno di cittadini di paesi terzi per motivi di lavoro e diversi,
· standard e procedure per il rilascio di visti di lunga durata e permessi di soggiorno,
· definizione di un insieme di diritti uniformi per i cittadini di paesi terzi,
· criteri e condizioni alle quali si consenta lo sta-bilimento e il lavoro negli stati membri,
· una Carta dei diritti fondamentali a garanzia dell’equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nell’Unione, e della promozione della diversità.

L’Unione, tirando le fila di quanto avviato a Tampere, è in grado di far muovere passi istitu-zionali in materia d’asilo e immigrazione. In termini politici, le decisioni sull’immigrazione comprenderanno la lotta all’immigrazione illegale, la costruzione di relazioni specifiche con i paesi d’origine e di transito in particolare sotto il profilo della dimensione umanitaria e dell’asilo33, la fornitura dei mezzi necessari alla rapida integrazione della popolazione migrante nella società europea e per lo sradicamento di razzismo e xenofobia34.

In termini pratici, il programma di lavoro transita attraverso:

· il cosiddetto “Quadro di controllo”35 
· incontri di ministri come quello informale di Marsiglia nel luglio 2000
· conferenze come quelle su cosviluppo e immigrati (6-7 luglio 2000), sulle reti d’immigrazione illegale (20-21 luglio), sull’integrazione degli immigrati (5-6 ottobre 2000), sulla riuscita integrazione del mercato del lavoro (4-5 luglio 2002), sul ruolo della società civile nella promozione dell’integrazione (in collaborazione con il Comitato economico e sociale, settembre 2002), sulla gestione della migrazione a beneficio dell’Europa (Atene 15-16 maggio 2003);
· la proclamazione della “Carta dei diritti fondamentali” nel dicembre 2001
· piani d’azione diretti a specifici paesi o regioni, basati in particolare sulla valorizzazione delle rimesse e sulla gestione degli eccessi di migra-zioni intellettuali e scientifiche36, all’interno di misure di partenariato.

In particolare riguardo all’ultimo aspetto evocato, la Commissione ha operato perché le migrazioni, specie quelle tra paesi vicini, fossero assunte dentro uno schema di mobilità che preve-desse il mantenimento e la rivalutazione dei rapporti con il paese d’origine, ad esempio attraverso l’utilizzo di fattori d’imprenditorialità (risorse finanziarie, rapporti personali, competenze, strumentazioni scientifiche e tecnologiche, etc.) acquisiti nel paese d’accoglienza.

Le politiche della Commissione e dall’Ue in materia d’immigrazione vanno tuttavia giudicate soprattutto in base a come viene evolvendo la questione del trattamento dei cittadini di paesi terzi, all’interno del ribadito bisogno di adottare un’impostazione globale nella gestione o rego-lazione dei flussi migratori.

Dopo Tampere, la Commissione, al fine di pro-muovere l’istituzione di un adeguato quadro giuridico per l’integrazione di cittadini di paesi terzi già in territorio unionale, ha avanzato diverse proposte e misure:

· estendere il coordinamento comunitario dei regimi di sicurezza sociale fissato dal regolamento (CEE) n. 1408/71 ai lavoratori subordinati ed autonomi assicurati in uno stato membro, anche se cittadini di paesi terzi;
· modificare il regolamento 1612/68, per raffor-zare lo stato giuridico dei cittadini di paesi terzi familiari di lavoratori Ue;
· consentire ai lavoratori subordinati e autonomi di paesi terzi, che già soggiornano legalmente in uno stato membro, di fornire servizi in altri stati membri;
· colpire la discriminazione basata sulla razza o sull’origine etnica, nel campo dell’occupazione, della formazione, della protezione sociale (incluse sanità e sicurezza sociale), dell’istruzione e della fornitura di beni e servizi alloggio incluso;
· assegnare quasi 100 milioni d’euro su sei anni, dal 1 gennaio 2001, per azioni di lotta alle di-scriminazioni fondate tra l’altro sulla razza, l’origine etnica, la religione;
· risolvere la questione dei ricongiungimenti a partire dai contenuti della Direttiva pubblicata nel 200037;
· varare la Carta dei diritti fondamentali, con una serie di principi universali validi anche per i cittadini dei paesi terzi, ad esempio in materia sociale come la tutela in caso di licenziamento ingiustificato e le condizioni relative alle condizioni di lavoro;
· fissare limiti chiari ed evidenti tra i diritti all’immigrazione legale e i rischi di quella ille-gale, attraverso controlli e misure di regolazione della mobilità.

Sulla base di dette proposte e misure, l’Unione è arrivata a suddividere in tre grandi categorie le azioni in materia di politiche dell’immigrazione, sulla base delle ragioni che motivano l’emigrante:

· motivi umanitari,
· ricongiungimento famigliare,
· cause economiche e di mercato.

Se per la prima categoria fanno testo le già citate Convenzioni internazionali, e per la seconda l’Unione risulta in regola con gli standard di necessità riconosciuti in ambito Ocse38, la terza si presta a miglioramenti e aggiornamenti continui, funzione anche dell’evolvere dei flussi39.

Alla base delle politiche attive europee sull’immigrazione economica, sta, come si è detto, l’acquisizione, dall’inizio degli anni 2000, della cultura dell’immigrazione necessaria e utile. Come scrive la Commissione nel documento del 2000: “… la politica dell’immigrazione dovrebbe basarsi sul riconoscere che le pressioni migratorie continueranno e che un’immigrazione ordinata può arrecare vantaggi all’Ue, agli immigrati stessi e ai loro paesi di origine40. In secondo luogo, riconosce la Commissione, solo il discrimine tra immigrazione legale e illegale può offrire le necessarie garanzie in termini d’ordinato sviluppo e sicurezza dei cittadini dei paesi membri.

La legalizzazione degli immigrati illegali diventa, nella fase di passaggio tra vecchia e nuova percezione del fenomeno migratorio, la saldatura necessaria e indispensabile che, attraverso la regolarizzazione della grande massa umana, spostatasi sul territorio dei paesi membri in assenza di leggi europee adeguate, getta le fondamenta per la successiva fase di regole sui flussi condivisi. Mentre gli europei riconoscono che l’immigrazione è la risposta ad un bisogno delle loro società, gli immigrati riconoscono in genere la convenienza ad entrare nel regime di legalità e interessi condivisi41.

L’ammissione degli immigrati per motivi economici, diventa pratica corrente con il nuovo millennio. Essa risponde ai bisogni della domanda, e tende a mettersi a disposizione della sua flessibilità e mutevolezza. Al tempo stesso la domanda tiene conto delle disposizioni della legislazione comunitaria e degli accordi bilaterali e multilaterali in vigore tra la Comunità, o la Comunità e gli stati membri, da un lato, e i paesi terzi dall’altro. Si attribuiscono agli immigrati i medesimi diritti e doveri dei cittadini Ue, anche se in modo incrementale, attraverso processi acquisitivi funzione della durata del periodo di soggiorno previsto nelle condizioni d’ingresso. Punto d’arrivo è l’integrazione della gente che pianifica di stabilirsi su una base di lungo periodo nell’Ue: il periodo di 5 anni diventa il riferimento fondamentale di ogni ragionamento di questo tipo. L’altro riferimento è che l’immigrato di lungo periodo si vede attribuito un trattamento pari a quello dei cittadini Ue su una serie di questioni che vanno a coprire la maggioranza degli ambiti socio-economici.

Hanno migliorato il clima, e spinto il dossier immigrazione in primo piano tra le questioni dell’occupazione e del sociale, i Rapporti di Primavera 2002 e 2003 della Commissione, con l’annuncio che le politiche dell’immigrazione, dell’occupazione e del sociale andavano interconnesse, alla luce delle scelte compiute dal Consiglio a Lisbona nel marzo 2000 riguardo all’avanzamento tecnologico e sociale europeo, abbisognando di un approccio comune42.

La Commissione punta a stabilire un quadro giuridico coerente, che fissi le condizioni di base e le procedure da applicare: spetta agli stati membri adottare i provvedimenti nazionali d’ammissione dei cittadini dei paesi terzi, fondandosi sui criteri fissati nelle direttive comunitarie. Trasparenza, razionalità e flessibilità devono essere i tre principi guida dell’azione degli stati. Anche al fine di garantire il rispetto dei tre principi, nel 2002 è stata istituita la Rete europea dell’immigrazione, Rem, con l’obiettivo di migliorare la raccolta e lo scambio di informazioni su tutti gli aspetti delle politiche di migrazione e asilo. A fine novembre 2005, la Commissione ha adottato un libro verde sulla Rete, in vista della conclusione della fase preparatoria nel 2006 e l’adozione a fine anno della Rem rivista.

Aspetti critici delle immigrazioni nell’Ue e co-sviluppo

Pur considerando che per la più parte dei paesi membri il flusso di immigrati dagli anni ’90 si sia presentato come fenomeno imprevedibile, può affermarsi che l’Ue e i paesi membri hanno trattato la questione in modo non del tutto adeguato. In detto contesto, alcuni passaggi, come l’attribuzione della cittadinanza civica (civic citizenship) e l’adozione di pac-chetti di misure antidiscriminazione (Consiglio dei ministri nel 2000 con le direttive sulla discriminazione razziale e sulla discriminazione sull’occupazione sommate a un programma d’azione comunitario), si sono mostrati opportuni. Ma i limiti, specie sotto il profilo del coordinamento delle politiche, appaiono evidenti.

Ad esempio, sarebbe stato utile dotare le politiche comunitarie del principio di differenziazione positiva, anche se si comprende il rischio di transitare, nella fase di eventuale applicazione amministrativa, in azioni discriminatorie verso i diversi gruppi di immigrati.

La differenziazione operereibe, in primo luogo per paesi di provenienza o, se si vuole, per culure di provenienza. E’ di corrente evidenza, ad esempio, che l’immigrazione da paese centro europeo con vocazione all’adesione o già membro, presenti in genere caratteristiche diverse da quella proveniente da paese non europeo. Si pensi a cosa finisca per comportare l’emigrazione intellettuale per il continente africano, dove la scolarizzazione e in particolare la culturizzazione superiore e universitària è fenomeno tuttora piuttosto ristretto, in termini di “fuga dei cervelli”. Si è calcolato che complessivamente ogni anno vadano via dall’Africa 23.000 docenti universitari, più di 40.000 dottori di ricerca, oltre 50.000 professionisti di livello medioalto. Più in generale, si parla di 13 milioni di persone con alta formazione migrate da paesi in sviluppo, pvs, verso i paesi Ocse, più della metà negli Stati Uniti. Si tratta dell’uscita dai gironi dello sviluppo, di circa il 30% dei locali con alta formazione43! Non sempre queste risorse intellettuali e umane verranno reindirizzate allo sviluppo dei paesi d’origine.

La Commissione, agli inizi di settembre 2005, ha posto con ufficialità il problema, pubbli-cando una comunicazione per orientare a politiche di co-sviluppo basate sulla valorizzazione delle rimesse, nonché delle capacità imprenditoriali acquisite dagli immigrati nei paesi europei44. Il documento, giustamente, pone al primo posto il bisogno di identificare le competenze e le esperienze esistenti. Cerca, quindi, di identificare le misure che potreb-bero sostenere i ritorni, sull’esempio anche di quanto fatto dall’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni45. Non risolve la questione di un Codice di condotta per i paesi membri e le imprese, che eviti il saccheggio delle risorse dei pvs, anche se la-scia prevedere a breve indicazioni precise in materia. La Commissione stabilisce, invece, il principio della compensazione. Detto in altro modo: il paese che sottrae risorse intellettuali o scientifiche a un paese in sviluppo, dovrebbe “risarcire” detto paese attraverso forme di cooperazione strutturale con la realtà d’origine, miranti a patti di sviluppo che rispettino i bisogni del paese terzo.

La questione del co-sviluppo va considerata anche da un’altra prospettiva: la diversificazione nelle qualifiche richieste dai diversi gruppi di paesi dell’Ue agli immigrati. Nella sua Comunicazione del 2004 sul tema, la Commissione è molto chiara46: “The Commission’s recent Study on the links between legal and illegal migration47 shows that, al Member States have channels for the admission of labour migrants, notably for third-country nationals with specific skills or workers for designated sectors. It is, however, not only high skilled labour that is in demand as some, in particular Southern European countries or recent immigration countries, have a need for low-skilled workers. Admission of such workers is often regulated through bilateral agreements with neighbouring or selected third countries, the underlying motive being not only to meet the needs of the labour market, but al relationships with third countries, historical links and cultural exchanges, as well as to combat illegal migration”. Importante, in quest’ambito l’accordo raggiunto il 30 marzo 2004 sulla Direttiva riguardante l’ammissione di studenti esteri. Nello stesso ambito le direttive sui ricercatori scientifici e l’ammissione di ricercatori stranieri nelle strutture dell’Ue. Un passo anche più rilevante quello compiuto per attrarre nell’Ue i talenti. Dal 2006 studenti esteri che completino i dottorati in Europa, potrebbero vedersi offerta la cittadinanza, all’interno di uno sforzo mirante ad attirare talenti e dare ulteriori opportinità alle attività economiche europee collegate all’education48: riguardati dalla misura prevista nell’agenda del vertice Ue di primavera, quadri intellettuali universitari, ricercatori e sviluppatori.

Un altro elemento di differenziazione è quello per età e spesso, conseguentemente, per status culturale ed educativo. Si pensi alle differenze, nello stesso nucleo familiare, tra padri e figli, ovvero tra immigrati di prima, seconda e terza generazione. Spesso i discendenti assumono la cittadinanza e studiano nei sistemi scolastici d’accoglienza, parlano correttamente la lingua locale, finiscono per appartenere al paese d’accoglienza molto più che a quello del genitore di cui sono figli. Paradossalmente, lo si è visto nella rivolta francese di fine 2005, questa situazione può ingenerare frustrazioni e difficoltà che si riverberano sul tessuto sociale locale o cittadino. Occorre, in tale contesto, uno sforzo specifico che sinora né le istituzioni comunitarie, né i governi nazionali hanno saputo produrre.

Differenziazione si ritrova anche nell’ap-proccio delle opinioni pubbliche e quindi del voto dei cittadini europei, rispetto alle varie tipologie d’immigrazione. Da una ricerca del 2002 coordinata da Ilvo Diamanti e condotta dalla Fondazione Nord Est49, scaturiva che il 36% (quindi più di uno su tre) degli europei considerava gli immigrati una minaccia all’ordine pubblico, la sicurezza personale, l’occupazione. Si tratta di otto punti in più del 2000, evidentemente influenzati dagli avvenimenti del settembre 2001 e quanto ne è seguito nei mesi successivi. In Spagna il dato era passato, nel periodo, dal 14 al 36%; in Germania dal 30 al 41% (qui la preoccupazione maggiore riguardava il mercato del lavoro, data la forte pressione slava in zona). Si dà più fiducia (quasi l’80%) agli immigrati da Europa e Stati Uniti, e meno fiducia agli altri (il favore agli arabi arriva solo dal 37% degli intervistati, quello verso i balcanici dal 45%, meglio per gli immigrati dal terzo mondo dal 57%, per quelli dell’est europeo dal 56%, per gli immigrati dall’ex Urss dal 49%).

La stessa ricerca, nell’edizione del novem-bre 2005, evidenzia come i nuovi membri dell’Ue manifestino ancora più preoccupazione, se non addirittura ostilità, verso gli immigrati: Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria forniscono i dati più sensibili sul tema, in particolare per ragioni legate al mercato occupazionale. Nell’ambito dei Quindici, più abituati ai flussi immigratori, i timori sono inferiori, e per lo più legati a fatti di sicurezza personale: un aspetto rilevato in particolare in Italia50.

Conclusioni

Nel confronto con paesi di antica tradizione immigratoria, come gli Stati Uniti, l’Europa sembra non aver ancora trovato la capacità di integrare le seconde e terze generazioni d’immigrati. Dipende probabilmente dal fatto che l’Ue non dispone di un pensiero forte riguardo alla propria identità e natura. I paesi membri non dedicano al culto dello stato, della costituzione, della bandiera, le energie e gli investimenti che da sempre gli Stati Uniti adottano per integrare le ondate d’immigrati che da secoli popolano quel paese. La scuola in quest’ambito può molto, ma fa poco.

Scrive Economist: “In America, the education levels, English-language skills and intermarriage rates of immigrant groups rise over time. So do income, home-ownership and political representation. This is the natural course of assimilation. But it does not seem to work in Europe. … There are few North African or Turkish representatives in French or German politics51. E però non mancano neppure negli Stati Uniti proble-mi relativi a come integrare gli stranieri che entrano nel paese. E’ certo che fattori come il lavoro52, l’avvio di attività imprenditoriali atonome, l’acquisto di terreni, laboratori, abitazioni magari con sottoscrizione di mutuo, l’apertura di un conto corrente bancario, sono segnali efficienti di integrazione53. In Italia, ad esempio, questi fattori denunciano valori piuttosto elevati: il che significa che da noi l’integrazione funziona relativamente bene, probabilmente per una certa debolezza del tessuto sociale e istituzionale. La malleabilità e ospitalità del carattere nazionale si somma ad un rapporto piuttosto debole con le istituzioni politiche e simboliche, generando condizioni favorevoli all’ampliamento della sfera di attività e relazioni dell’immigrato.

La questione centrale appare ancora quella del coordinamento delle politiche. Il ministro francese dell’interno Sarkozy, candidato alla Presidenza nel 2007, mentre non sa risolvere la questione dei suoipdf sans-papiers e si confronta con le associazioni di difesa dei clandestini che denunciano metodi arbitrari delle autorità54, si spende per un metodo comunitario rafforzato di fronte ai flussi immigratori55 e al rischio di terrorismo importato via immigrati. Il Consiglio di Tampere, specie con Austria Danimarca e Germania, censura la Spagna che, mentre chiede impegni comunitari, apre unilateralmente la sanatoria per i clandestini56.

La costituzione bocciata dai referendum francese e olandese attribuiva poteri alle istituzioni comuni in materia di immigrazione. Occorrerà probabilmente attendere il rilancio del processo costituzionale, previsto dopo le elezioni in Francia, per offrire credibile soluzione a questo, come ad altri problemi comunitari.

Note:
1 L’Italia può essere presa come simbolo di quest’affermazione. L’emigrazione storica dal paese fa dire che la presenza italiana fuori dai confini nazionali è oggi pari al 2% degli emigrati mondiali.
2 La successione temporale dei fenomeni d’immigrazione nel territorio dell’Ue, è mostrata da una serie di tabelle e grafici fortemente dettagliati, annessi a Commission of the European Communities, Com-munication from the Commission to the Council, the European Parliament, the European Economic and Social Committee and the Comittee of the Regions on Immigration, Integration and Employment, Brussels 3.6.2003, COM (2003) 336 final.
3 Né si tratta di uno sviluppo esclusivamente europeo. Nel 1970, gli emigranti internazionali costituivano più del 10% della popolazione in 48 paesi. Nel 2000, il numero di paesi era salito a 70. Il dato in Global Commission on International Migration (Gcim), Migration in an interconnected world: New directions for action, Report, Ottobre 2005, pag. 42. Dallo stesso rapporto si apprende che tra il 1990 e il 2000, l’immigrazione ha apportato l’89% della crescita della popolazione censita in Europa.
4 Ci sono situazioni intensive a carattere nazionale (es. il Lussemburgo), locale ad esempio in Italia città come Roma e Milano con il 10% e oltre, di quartieri o zone dove concentrazioni anche alte creano macchie o ghetti d’immigrati. L’esempio delle banlieues francesi e delle rivolte ivi registrate nel novembre 2005 dà visione del fallimento di pre-concetti integrativi. Se in Francia a farsi notare è uno spazio di periferia parigina come Cliché-sous-Bois, a Berlino è Neukőlln a stragrande maggioranza turca. In Italia, 2 milioni e mezzo di im-migrati vivono in aree urbane.
5 I Paesi Bassi registrano, tra il 1995 e il 2002, la cresci-ta del 37% in quanto a numero d’immigrati.
6 Come dire che si trattava di un rapporto di domanda e offerta interno alla dinamica post coloniale, piuttosto che di un rapporto di mercato tra paese d’esportazione e d’importazione di mano d’opera. Il dato risalta evidente dal confronto tra i due paesi più importanti della Comunità europea di quegli anni. La Germania aveva nel 1970 un numero d’africani immigrati pari a 40.000 unità. La Francia già nel 1968, era a quota 652.000. Nel 1975 la Germania si era mossa a 71.000, ma la Francia era prossima a realizzare 1milione e 200.000 africani immigrati. Nel 1982 il distacco strutturale è ancora più evidente perché, benché la Germania abbia superato quota 100.000 africani e sia a 124.000, la Francia è decollata oltre il milione e mezzo. Se non bastasse questo paragone, si guardi al piccolo Belgio che, grazie all’importante passato coloniale, nel citato 1982 è a quasi 144.000 immigrati africani. I dati sono riela-borazione di informazioni fornite da Eurostat, Foreign Population and Foreign Employees in the Community, 8 febbraio 1985.
7 Scrive la Commissione europea nel 2000:
“… (l’immigrazione) era ritenuta prossima allo zero a partire dagli anni ’70, mentre adesso con le opportunità economiche disponibili nell’Ue non sembra più essere tale. Molti migranti per motivi economici hanno tentato l’ingresso attraverso procedure di asilo oppure canali illegali”. Commissione delle Comunità europee, Comu-nicazione della Commissione al Consiglio e al Parla-mento europeo su una Politica comunitaria in materia di immigrazione, 22 novembre 2000, COM(2000) 757 de-finitivo. Il documento può essere considerato base e premessa di ogni decisione successiva delle istituzioni comunitarie in quanto a immigrazione.
8 Le migrazioni nette in Europa registrano annualmente, tra il 1992 e il 2003, il seguente andamento: saldo positivo di 1.200.000 immigrati all’inizio del ciclo, seguito da un saldo che scende di continuo sino al 1997 (quell’anno si è a un positivo di mezzo milione) per risalire poi incessantemente superando il dato del 1992 nel 2001 e schizzare a 2 milioni nel 2003. Notare che dal 2000, gli Stati Uniti hanno un saldo positivo rego-larmente inferiore a quello europeo e che, dopo l’attacco alle Torri gemelle, il distacco appare non colmabile (poco più di 1 milione è il saldo del 2003). Consi-derando i 25, e prendendo in esame il quinquennio 2000-2005, tutti i paesi membri, fatta eccezione di quattro (Baltici e Polonia) hanno realizzato saldi positivi netti. I saldi maggiori, nel quinquennio, sono stati realizzati, nell’ordine, da: Spagna, Rft, Regno Unito, Italia.
9 Caritas-Migrantes, rapporto del novembre 2005. Contando gli irregolari, probabilmente le distanze si accorcerebbero ancora. Secondo la Gcim (v. nota n. 3) almeno 5 dei 56,1 milioni di emigranti presenti in Europa nel 2000 avevano status di irregolari: un rap-porto del 10%. Nel documento Cgcim dell’ottobre 2005, si stima a mezzo milione il numero degli irregolari in arrivo ogni anno nei paesi europei.
10 L. Troiani, L’andamento demografico e l’emigrazione nella prospettiva dell’integrazione economica euro-mediterranea, in Iceps, L’Italia, la Cee e il Medi-terraneo: la politica di cooperazione, Roma, 1986.
11 Prima degli accordi Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) del 18 aprile 1951 e del trattato di Roma, un paese ricco di braccia come l’Italia spediva manovalanza in Belgio perché lavorasse nelle locali miniere, ottenendo in cambio carbone. Un patto in questo senso fu firmato il 28 giugno 1946 tra i due governi interessati, sindacati consenzienti. Sarebbero partiti duemila italiani a settimana, in particolare calabresi e abruzzesi, e in cambio il Belgio ci avrebbe venduto 200 chili di carbone al giorno per emigrato. Furono ottantamila i connazionali che fecero quel viaggio, e non tutti tornarono. Tra questi i 136 che, nell’agosto 1956, perirono a Marcinelle, in una galleria a 1035 metri di profondità.
12 Il trattato sull’Unione europea recita, all’art. 8: “E’ istituita una cittadinanza dell’Unione. E’ cittadino dell’Unione ogni persona che ha la nazionalità di uno Stato membro”. T. H .Marshall definisce il concetto sociologico di cittadinanza, come “forma di uguaglianza umana fondamentale connessa con il concetto di piena appartenenza ad una comunità”, Cittadinanza e classe sociale, 1950.
13 All’art. 138 D il trattato scrive: “Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di petizione davanti al Parlamento europeo”. E all’art. 138 E: “ogni cittadino dell’Unione può rivolgersi al Mediatore comunitario”.
14 I ministri dell’interno dei paesi membri, già prima del trattato di Maastricht, hanno avviato la buona pratica di consultazioni e assunzione di misure comuni nella materia. Passaggi di forte contenuto sono stati, in quest’ambito, la convenzione di Schengen del 1985, e quella di Dublino sul diritto d’asilo.
15 Il trattato, firmato il 2 ottobre 1997, è entrato in vigore nel maggio 1999.
16 Si faranno qui cenni essenziali all’attività della Corte europea di giustizia, benché si abbia consapevolezza che proprio la Corte sia stata motore dell’elaborazione graduale di un efficace sistema di garanzia dei diritti fondamentali nell’Unione, anche in assenza, nei trattati istitutivi, di normativa riguardante i diritti fondamentali. E’ un’attività che, direttamente e indirettamente, ha favorito l’inserimento degli immigrati e la tutela dei loro diritti. Non si sottovaluti che la giurisprudenza comunitaria prevale sempre su quella nazionale.
17 E’ evidente che alcune di queste operazioni costano, e anche abbastanza. Il bilancio dell’Agenzia proviene da sovvenzione comunitaria, contributo dei paesi associati a Schengen, compensi per servizi forniti, contributi volontari degli stati membri.
18 I presupposti programmatici dell’Unione e la Con-venzione europea dei diritti dell’uomo, rendono il diritto di vivere in famiglia tra quelli meglio protetti. Può dirsi che la materia sia ormai armonizzata nelle legislazioni nazionali, benché, come in tutta la vicenda delle mi-grazioni da paesi terzi, continuino a sussistere diffe-renziazioni anche significative tra le legislazioni dei paesi membri. Limitazioni toccano in particolare, è il caso del Belgio, il cosiddetto ricongiungimento “a cascata”: il famigliare ricongiunto non può, a sua volta, essere attore d’ulteriori ricongiungimenti. Altra diffe-renza riguarda il tempo che deve trascorrere prima che maturi il diritto al ricongiungimento.
19 Per ragioni economiche e demografiche, l’Europa non può fare a meno d’immigrati, come si è detto in pre-messa. La demagogia sugli “ingressi zero” è stata rilan-ciata da precisi gruppi e gruppuscoli politici, in occasione degli attentati di radice islamica in Europa, come parte della campagna mediatica condotta contro gli immigrati islamici.
20 Il nostro paese ha anche sue ragioni per insistere sull’opportunità di una politica comune delle migrazioni. Come altri stati periferici rispetto al centro Europa (eloquente il caso delle relazioni tra Spagna e immigrati dal Marocco), si trova a funzionare come porta d’ingresso dall’Africa e dall’Asia meridionale vero i mercati ricchi dell’Europa centrale e settenarionale, senza disporre di particolari risorse per adempiere al sovraccarico di costi organizzativi necessari.
21 Gli sbarchi a Lampedusa e in altri punti dell’estremo sud italiano, ad opera di disperati che spesso raccontano di compagni di sventura deceduti e abbandonati in mare, testimoniano quanto sia alto il carico di dispe-razione e morte accumulatosi in Mediterraneo nell’ulti-mo decennio. Come rilevato nella precedente nota, identico vissuto appartiene alla Spagna, in particolare per l’afflusso illegale di africani alle isole Canarie. La Commissione ha avuto nel maggio 2006 l’impegno di dodici stati membri a fornire navi e aerei per il pattugliamento e l’avvistamento, e assistenti per il soccorso. Solo in agosto il meccanismo si è messo in moto, e comunque l’Ue in quanto tale ha confermato di non potersi impegnare sulla materia, in quanto avrebbe bisogno del voto unanime dei 50 ministri dell’interno e della giustizia: i paesi nordici più la Germania sono riluttanti a conferire poteri all’Unione in materia. Nel 2006, le autorità spagnole prevedono sbarchi illegali, via Canarie, superiori ai 20.000 immigrati, contro i 4.700 del 2005. Sempre per il 2006, le morti in mare dei clandestini sono calcolate in numero superiore alle 3.000 unità. Frontex ha avuto a disposizione, per assistere le esigenze manifestate da parte spagnola (e italiana) non più di 3 milioni di euro. Per le ragioni su cui si tornerà più avanti nel testo, alla Spagna, nel corso del Consiglio di Tampere del 21 settembre 2006, sono rimproverate politiche lassiste sull’immigrazione, che avrebbero stimolato l’incremento dei movimenti illegali in entrata.
22 Si calcolano in Germania intorno al milione e mezzo di clandestini. Gli immigrati stranieri in Germania presentano quasi 2 milioni di turchi e più di tre milioni e mezzo di musulmani. Gli stranieri sono presenti soprattutto nei Länder occidentali, e ¼ abita nelle città con più di mezzo milione d’abitanti. Fino al 2000 nessuno poteva divenire cittadino tedesco se non era di estrazione germanica, anche nel caso di genitori nati essi stessi in Germania. Dal 2000 lo ius soli viene ad avere la sua rilevanza in fatto di cittadinanza: ai figli di immigrati è consentito di acquisire la cittadinanza attraverso il ius soli e possono mantenere la cittadinanza doppia. Otto anni di residenza nella Repubblica federale danno accesso alla cittadinanza. Una legge in vigore dal 2003, riguardante la formazione e l’insegnamento, sottolinea l’impegno verso l’integrazione degli immigrati nella società. In Italia si richiedono 10 anni per accedere alla cittadinanza: risultato è che poco più di 10.000 stranieri ottengono ogni anno la cittadinanza italiana, sulla base del jus sanguinis o soli.
23 In un appello all’opinione pubblica, lo scorso settembre, appena qualche mese prima delle sommosse urbane francesi ad opera di francesi con radici maghrebine, intellettuali e militanti dalla pelle scura, spalleggiati da ambienti della sinistra, si definivano “gli indigeni della Repubblica”, “discendenti di schiavi e deportati africani, figlie e figli di colonizzati e immigrati”. Mentre nelle scuole repubblicane, testi di storia interpretano in positivo la vicenda coloniale, gli esponenti delle comunità immigrate denunciano la marginalità sociale e culturale della loro vita nel territorio metropolitano, prendendosela con la “missione antislamica” dei media. Significativo, in quel contesto, la pubblicazione di di Thomas Deltombe, “L’Islam imaginaire, La construction médiatique de l’islamo-phobie en France, 1975-2005”, quattrocento pagine di accuse e scossoni al pensiero dominante.
24 Il 7 luglio 2005, esplodono a Londra 4 bombe a timer, 1 su bus, 3 su treni della metro. Ci sono altre due bombe inesplose con timer. Alla fine risultano c. 700 feriti e più di 50 morti.
25 Da buona società post coloniale, il Regno Unito è organizzato secondo una scala di valori dove i gradini passano attraverso i gruppi etnici. La gerarchizzazione si esprime sul luogo di lavoro, nella ricerca dell’abita-zione, nei locali del divertimento e della ristorazione.
26 Il 1 novembre 2001, a 47 anni, il controverso regista Theo Van Gogh, autore di un film sulla condizione femminile nell’Islam, è assassinato ad Amsterdam da un immigrato marocchino. Il presidente della commis-sione parlamentare olandese incaricata di riferire sull’evento, definisce l’assassino “un tipico immigrante di seconda generazione”.
27 L’Italia ha inserito nella legge del 1998 sugli stranieri residenti, il diritto di voto locale, ma solo la riforma costituzionale ne consente la pratica. Gli stranieri con cittadinanza estera possono votare alle elezioni muni-cipali di Danimarca, Finlandia, Irlanda, Norvegia (non Ue), Olanda, Regno Unito, Svezia. L’Irlanda è stato il primo paese a garantire, fin dal 1963, il diritto di voto a tutti gli immigrati in posizione regolare, indipen-dentemente dalla nazionalità. In Svezia, dal 1975, è consentito votare dopo tre anni di permanenza continua, per elezioni comunali e regionali, e per i referendum. In Gran Bretagna il diritto di voto vale per i cittadini Ue o Commonwealth. In Islanda possono votare i soli scandinavi. In Portogallo: peruviani, brasiliani, argen-tini, uruguaiani, norvegesi, israeliani. In Svizzera il diritto al voto alle amministrative è riconosciuto a tutti gli stranieri in tre cantoni su 26.
28 Si noti che i leader delle comunità ispaniche negli Stati Uniti, hanno sollecitato maggiori dosi di inglese nelle scuole, spaventati dalla possibile discriminazione di fatto che i figli avrebbero sofferto da grandi, per un’eventuale ignoranza della lingua e della cultura anglosassone.
29 Friso Roscam Abbing, portavoce Ue, Conferenza stampa del 12 febbraio 2005, riportata nel verbale pubblicato in Internet, www.stranieriinitalia.it.
30 SN 200/99 (Conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo di Tampere, 15 &16 ottobre 1999).
31 Commissione delle Comunità europee, cit. in nota n. 7.
32Per regolare con successo i flussi migratori e quindi per ridurre l’immigrazione illegale, l’Ue deve adottare una impostazione coordinata, che tenga conto di tutti i vari aspetti interconnessi del sistema migratorio, ed operare attraverso il partenariato con i paesi di origine e transito”. Commissione delle Comunità europee, cit. in nota n. 7, pag 13 dell’edizione italiana.
33 In un’altra comunicazione (“Verso una procedura comune in materia di asilo e uno status uniforme per la concessione dell’asilo valido in tutta l’Unione”) della stessa epoca, la Commissione affronta specificamene la questione dell’asilo. La parola definitiva sull’asilo ar-riverà il 1 dicembre 2005, con l’approvazione, da parte del Consiglio per la Giustizia e gli Interni, della Direttiva sulle Procedure dell’Asilo. Da un lato si vuole garantire il livello minimo di protezione in tutti gli stati membri per le persone che hanno davvero bisogno della protezione internazionale, e prevenire comportamenti fraudolenti. L’Italia, con circolare del ministero degli Interni del 22 ottobre 2005 in applicazione del Decreto Legislativo 30 maggio 2005 n. 140, aveva proceduto ad incorporare la direttiva 2003/9/CE, con le norme minime attinenti l’accoglienza dei richiedenti asilo nell’Ue.
34 Tra le agenzie della Comunità europea, viene a trovare posto l’Eumc, Osservatorio europeo dei feno-meni di razzismo e xenofobia, con sede a Vienna, istituito con regolamento (CE) n. 1035/97 del Consiglio del 2 giugno 1997, che ha iniziato ad operare nel 1998. La sua rete informativa (Rem) raccoglie dati e infor-mazioni, anche attraverso uffici nazionali nei paesi mebri.
35 COM (200) 167, “Quadro di controllo per l’esame dei progressi compiuti nella creazione di uno spazio di ‘libertà, sicurezza e giustizia’ nell’Unione europea”.
36 In questo contesto, si noti che l’Unione, con gli anni 2000 inizia ad elaborare e finanziare regolarmente progetti collegati ai flussi di migrazione, destinati a rafforzare lo sviluppo nei paesi di provenienza, scegliendo di “trattare responsabilmente” gli effetti dei flussi migratori sui paesi d’origine. Strumento privilegiato della scelta diverrà, nel corso del tempo, l’attenzione alle rimesse finanziarie, come volano di sviluppo. Il reddito pro capite, nelle situazioni meno gravi rappresentate dalle nazioni dell’Europa centro-orientale e dalla Turchia, appare mediamente inferiore di tre, quattro volte a quello dell’Ue-15. Nelle situazioni estreme, Africa e Asia, s’incontrano dati peggiori. Se si riflette che spesso l’immigrato arriva dalle zone più arretrate del paese di provenienza, la forbice di reddito mostra divaricazioni d’ulteriore grandezza. L’esempio più vicino, Mediterraneo e dintorni, un circondario che da solo esprime oltre il 70% dei movimenti globali d’emigrazione transito e immigrazione, documenta che il prodotto interno lordo (Pil) nella sponda nord (Ue-15) supera di circa dieci volte quello registrato dalla sponda meridionale. Le rimesse di valuta dall’estero, in termini di movimenti finanziari verso i paesi in via di sviluppo (Pvs) hanno raggiunto nel mondo una cifra pari al totale degli investimenti diretti esteri (Ide) nei Pvs. Nel 2005, secondo la Banca mondiale, gli immigrati dai paesi poveri hanno spedito a casa, attraverso i canali di trasferimento istituzionali come banche servizi postali e money transfer, più di 167 miliardi di dollari, superando di due volte l’importo atteso dalle politiche d’aiuto. Lo stesso rapporto informa che una stima di quanto si muove nei canali informali di trasferimento, consiglia di far lievitare la somma delle rimesse di un ulteriore 50 per cento. Altra fonte d’attenzione per le istituzioni Ue, il rischio di fuga dei cervelli derivante da eccessivo assorbimento da parte dei paesi membri di risorse intellettuali e scientifiche dei pvs. Aa. Vv., Banca Mondiale, Rapporto n. 33988, 21 ottobre 2005.
37 GU C 116 del 24 aprile 2000, versione modificata COM (2000) 624.
38 Il diritto alla riunificazione famigliare trova accordo politico tra i membri, nella direttiva del Consiglio del 27 febbraio 2003. Vi si riconosce il diritto alla riuni-ficazione per i cittadini di stati terzi in possesso di permesso di soggiorno di un anno o più, con prospettive ragionevoli di ottenere residenza permanente. Gli stati membri avranno titolo a richiedere, per l’esercizio del diritto, che i paesi terzi siano in regola con le misure di integrazione in accordo con la legge nazionale.
39 Si tenga presente che solo tre paesi già membri dell’Unione, Regno Unito Svezia e Irlanda, hanno dato libero accesso alla forza lavoro proveniente dai Dieci divenuti membri dell’Unione nel maggio 2004. Come risultato 175.000 immigrati dall’est Europa sono entrati nel Regno Unito per lavoro, 85.000 in Irlanda, 22.000 in Svezia. La Francia ha emesso soltanto 1.660 permessi di lavoro per polacchi negli 11 mesi successivi all’ampliamento. Roger Blitz, London’s allure: European Arrivals find hope and glory in a global metropolis, Financial Times, 27 October 2005, pag. 11.
40 Commissione delle Comunità europee, v. nota 7.
41 Philippe de Bruycker (supervisione), Regularisations of illegal immigrants in the European Union, Collection of the Law Faculty, Free University of Brussels, 2000.
42 C’è bisogno di “un approccio fresco all’immigrazione come un mezzo per assicurare che alti livelli di occupazione e produttività possano essere mantenuti nei decenni futuri. Al cuore di ogni approccio, ci deve essere la migliore integrazione dei migranti – che sono spesso in grado di offrire un sostanziale contributo all’imprenditoria – nella società, prendendo al tempo stesso in conto l’impatto dell’immigrazione sui paesi da dove arrivano i migranti”. Commissione europea, Rapporto al Consiglio europeo di primavera del 21 marzo 2003 sulla strategia di rinnovamento economico sociale e ambientale”, COM (2003)5 del 14 gennaio 2003: “Scegliendo la crescita: conoscenza, innovazione e occupazione in una società coesa”.
43 Per l’Africa, la questione è analizzata in M. Casper Operee, La diaspora può aiutare lo sviluppo dell’Africa, Amicizia, 2005, pag. 17-18. Per i pvs in genere, A. Stocchiero, La migrazione delle persone con alte qualificazioni, Amicizia, dicembre 2005, pag. 10-16.
44 In Italia si contano almeno 70mila imprenditori immigrati: in testa slavi e marocchini.
45 Ci sono ritorni “definitivi”, “temporanei”, “virtuali” (attraverso i sistemi di information technology e l’uso delle tecnologie della comunicazione e dell’information society) come quelli previsti dai programmi Return Action Programme e Aeneas.
46 Commission of the European Communities, Communication from the Commission to the Council, the European Parliament, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions, First Annual Report on Migration and Integration, Brussels, 16 July 2004, COM (2004) 508 final, pag. 4.
47 La Commissione si riferisce al documento COM (2004) 412.
48 Nel Regno Unito gli studenti esteri fanno entrare ogni anno €119 milioni. Nel 2002 risultavano presenti nelle Università dei paesi membri quasi 450.000 studenti esteri, la maggioranza asiatici e africani. Altri dettagli sulla misura prevista, Sarah Laitner, Eu could offer citizenship to top students from overseas, Financial Times, 14 dicembre 2005. L’Italia, recettore di flussi di immigati a bassa qualificazione, risulta essere l’unico paese occidentale a non offrire facilitazioni di ingresso e cittadinanza per immigrati di qualità, neppure nelle qualifiche professionali di cui il paese abbisogna.
49 La Fondazione ha avviato, dal 1999, un Osservatorio sull’opinione pubblica in quanto a rapporto tra immi-grazione e cittadinanza in Europa.
50 “In Italia l’immigrazione è vista soprattutto come una fonte di insicurezza personale e di disordine pubblico. In pratica, quattro persone su dieci vedono nella presenza dell’immigrato il rischio di una possibile crescita dei tassi di criminalità. Questo timore calato di oltre 10 punti percentuali dal 1999 al 2004, nell’ultimo anno ha invertito il trend ed è tornato ad aumentare. I timori connessi alla propria sicurezza sono avvertiti maggior-mente al Nord e in particolare nel Nord Est, dove esistono 160 etnie. Gli italiani restano diffidenti soprat-tutto nei confronti degli arabi, dei turchi e dei balcanici”. v. www.ilPassaporto.it, 21 novembre 2005.
51 Charlemagne, Minority reports, Where Europe fails in its treatment of minorities compared with America, The Economist, 12 novembre 2005.
52 E qui sta una delle dolenti note del confronto tra Ue e Usa. Commentando gli eventi francesi del novembre 2005, tutti i commentatori hanno sottolineato che si trattava di un evento sociale non etnico-religioso, benché avesse come protagonisti i figli di immigrati maghrebini di religione islamica. In Francia la disoccupazione è intorno al 10%: tra gli immigrati e i figli d’immigrati è almeno doppio e talvolta sino a quattro volte tanto. Se si va a guardare alla disoccupazione tra gli immigrati negli Stati Uniti, il fenomeno risulta praticamente inesistente, a causa della flessibilità della struttura lavorativa americana. In un dossier pubblicato da Le Monde nei giorni della rivolta delle banlieues, risulta evidente che i giovani di seconda generazione con origine extracomuitaria sono quelli con più scarsa possibilità di lavorare, rispetto ai colleghi comunitari come italiani, spagnoli, portoghesi. I maschi italiani e spagnoli hanno la seguente situazione: occupati 88,6%, disoccupati 10,3%, inattivi 1,1%. Gli algerini per le voci corrispondenti: 74,6%, 23,2%, 2%. Marocchini e tunisini 79%, 19,4%, 1,6%. I turchi 74,4%, 21,2%, 4,4%. La povertà relativa delle famiglie risente di questa situazione occupazionale: è povero il 15% delle famiglie formate da immigrati, mentre è povero solo il 5,6% delle famiglie composte da non immigrati. Tra gli immigrati le percentuali di povertà
delle famiglie, rispetto ai distinti raggruppamenti, risultano come segue: europei 9,5%, maghrebini 22,6%, altri paesi 16%. V. Le Monde del 15 novembre 2005, Economie, Dossier, Les chiffres qui expliquent la rivolte des enfants d’immigrés, pagg. I-IV. La tabella cui si fa riferimento è a pag. III a corredo dell’articolo di Francine Aizicovici, Des conditions de vie difficiles et beaucoup plus précaires.
53 “…a Milano, per esempio, pare che circa un terzo dei mutui erogati dagli istituti di credito venga concesso a immigrati. A livello nazionali, il 21% dei servizi di microfinanza si rivolge oggi a immigrati.” Giuliano da Empoli, Nomadi globali, risorsa trascurata, Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2005.
54 Laetitia Van Eeckhout, Sarkozy peine à refermer la polémique sur les sans-papiers, Le Monde, 20 settembre 2006, pag. 1
55How can we believe, and make people believe, that we can efficiently fight terrorism by gathering together a learned assembly of 50 interior and justice ministers, giving them 2 minutes each to speak and then demanding that they decide unanimously”, in Cooperation Elusive on EU Immigration, International Herald Tribune, 1 settembre 2006.
56 Sarah Laitner e Fidelius Schmid, Madrid under fire for policy on migrants, Financial Times, 22 settembre 2006, pag. 4.

 

 

BORSE DI STUDIO FASS ADJ

B01 cop homo page 0001Progetto senza titolo

 

 PCSTiP FASS

foto Oik 2

Albino Barrera OP  -  Stefano Menghinello  -  Sabina Alkire

Introduction of Piotr Janas OP