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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdfE il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile” (Genesi, 2:18)

Spesso la famiglia viene ritenuta quanto di più ovvio, di più naturale e di più conosciuto esista; il lessico viene assunto generalmente con il significato di “avere familiarità con qualcosa e con qualcuno”; in realtà invece il termine famiglia è molto più insidioso ed ambiguo di quanto possa apparire ad una prima considerazione.

Le scienze sociali si sono imbattute spesso nella difficoltà di definire che cosa sia una famiglia: prova ne sono le numerose accezioni e teorizzazioni prodotte, che hanno dato origine a spiegazioni e significati anche molto diversi tra loro. Nella stessa definizione possono infatti coesistere elementi etnici, religiosi, legali, ecc. molto differenti fra di loro.

La tradizione sociologico – filosofica (Comte, Spencer, Durkheim, Tonnies) ad esempio rappresenta la famiglia come condizione opposta alla singolarità dell’individuo e paradigmatica della società. In questa ottica la definizione di famiglia proposta da George Murdock punta sulle sue caratteristiche sociali: famiglia, per questo autore, sarebbe un particolare tipo di gruppo sociale, caratterizzato dalla residenza comune, dalla cooperazione economica e dalla riproduzione.

In generale è possibile affermare che la famiglia comprende adulti di entrambi i sessi, due dei quali mantengono una relazione socialmente approvata, e uno o più figli, propri o adottati. La famiglia va distinta dal matrimonio, che è un complesso di costumi, ritualità e valori aventi il loro fulcro nel rapporto di coppia fra due adulti che si legano sessualmente all’interno della famiglia.
Se esaminiamo l’esaustività della definizione, notiamo la presenza di alcuni nodi d’inciampo: innanzi tutto l’affermazione va ad inquadrare unicamente il punto di vista dell’adulto: nelle società occidentali infatti il minore non contribuisce all’economia familiare e nemmeno alla riproduzione; secondariamente dalla definizione emergono ottiche diverse, legate ad elementi culturali (“Adulti di entrambi i sessi”), etico – morali (“Relazione socialmente approvata”) e sociali (“Figli propri o adottati”).

Secondo Murdock la famiglia è un’isti–tuzione universale: seppure in forme diverse, esiste da sempre in ogni società. Studi condotti su duecentocinquanta tipi di società diverse, dai cacciatori–raccoglitori alle società industrializzate, rilevano tutti l’esistenza della famiglia nucleare, che costituisce il tipo fondamentale di organizzazione sociale, essendo formata da un uomo, una donna e la loro prole.

Come gli atomi di una molecola, in quasi tutte le società umane le famiglie nucleari sono combinate in aggregati sociali più ampi; è interessante notare che le ricerche effettuate registrano come il numero delle donne e degli uomini sia proporzionalmente identico in tutte le società (Ember e Ember, 2003)

La famiglia è dunque un fenomeno universale caratterizzato da diversi elementi: è un’istituzione presente in ogni cultura e in ogni epoca; rappresenta l’elemento base della struttura sociale; è un’agenzia di socializzazione; costituisce il primo e privilegiato luogo di apprendimento dei ruoli sociali. Per tutti questi fattori è stata considerata un fenomeno naturale, che se si è evoluto nel tempo mutando di struttura e di dimensioni: dalla famiglia estesa si è passati a quella nucleare, fino a giungere a quella unipersonale.
Emile Durkheim già nel 1888 affermava: “Non esiste un modo di essere e di vivere che sia il migliore di tutti: la famiglia oggi non è né più né meno perfetta di quella di una volta: è diversa, perché le circostanze sono diverse”.

Ritenuta quindi genericamente una entità naturale, la famiglia ha subìto innumerevoli mutamenti di carattere culturale e sociale, che sono stati oggetto di studi antropologici e sociologici e, recentemente, anche di indagini storiche. La famiglia è un evento che ha via via preso forme diverse nel tempo e nello spazio, pur mantenendo delle costanti.

Giunti all’età moderna, si registra il cambiamento della famiglia come unità produttiva, ma con corsi e ricorsi storici differenti.

Nel XIX secolo, con il diffondersi dei principi della rivoluzione francese, la famiglia divenne la cellula base del nuovo Stato borghese e gestiva direttamente gli interessi privati, il cui buon andamento era ritenuto essenziale per la forza degli Stati e il progresso dell’umanità. La famiglia divenne pertanto il luogo in cui si creavano i valori della cittadinanza e della cultura, in modo tale che essa assicurasse il buon funzionamento economico e la corretta trasmissione dei patrimoni.

In quello stesso secolo in Occidente la famiglia poté derogare ad una parte dei tradizionali compiti di istruzione e assistenza, in conseguenza dello sviluppo di scuole e ospedali; ciò favorì la sua trasformazione nella cosiddetta famiglia verticale, cuore della società e riverbero frattale della nazione. Particolarmente determinante per l’evoluzione della famiglia fu il mutamento della sede lavorativa: mentre nella prima età moderna non vi era una netta distinzione tra luogo di lavoro e luogo abitativo, con l’urbanizzazione e l’industrializzazione il lavoro divenne essenzialmente extrafamiliare.

Nei secoli precedenti le donne delle classi sociali meno abbienti avevano partecipato alla produzione lavorando a casa; con la rivoluzione industriale iniziarono a lavorare fuori casa. Per molti studiosi questo fenomeno ha rappresentato la base della successiva emancipazione giuridica femminile.

Al momento però nei ceti urbani meno abbienti la diffusione del lavoro extrafamiliare della donna fu vissuto come un ostacolo al compimento del ruolo materno e delle tradizionali funzioni di gestione familiare. Nella famiglia borghese invece la distinzione tra vita familiare e lavoro, ancora assente nella società rurale, comportò una netta divisione dei ruoli, limitando così le responsabilità della donna alla gestione della casa e del tempo libero.

La famiglia divenne dunque un luogo al quale i lavoratori rientravano al termine delle fatiche quotidiane e nel quale trascorrere il tempo libero – concetto assolutamente nuovo – e ciò ne accrebbe il carattere privato.

Parole chiave della nuova formazione furono: matrimonio, il fondamento sul quale si basava la società; marito, il garante e amministratore dell’unione coniugale; moglie, generalmente subordinata e sottomessa al marito. Nonostante la maggiore attività extra–casalinga delle donne, i ruoli domestici non mutarono fino alla metà del secolo successivo, il ventesimo.

Nel XX secolo il marito continuò ad essere dedito al lavoro e al sostentamento familiare, la moglie ad occuparsi della casa e dei figli, in genere numerosi, aiutata in questo dalle altre donne di casa; quanto ai figli, la loro nascita biologica non corrispondeva ancora alla nascita psicologica: Freud parlò di un lattante chiuso al mondo, Watson di bambini tabula rasa, da modellare a piacimento con gli stimoli esterni. Su di una cosa erano tutti d’accordo: l’educazione doveva essere caratterizzata da regole rigide, accettate e trasmesse senza nemmeno che vi fosse la pur vaga idea o la minima possibilità di essere messe in alcun modo in discussione.

Il transito del XX secolo testimoniò il passaggio massivo dalla famiglia patriarcale a quella nucleare. Il processo attraversò fasi alterne: ebbe dimensioni di rilievo fino alla prima guerra mondiale; subì quindi una stasi nel periodo compreso tra i due conflitti bellici; ed infine si impose come modello familiare negli anni ‘50–’60, grazie al determinante sviluppo industriale e, più in generale, di tutto il settore terziario dell’economia occidentale, che condussero i nuovi nuclei familiari dalle campagne alle città.

La famiglia dunque si trasformò nuovamente: dal modello dominante di famiglia patriarcale estesa, tipica della prima metà del XX secolo, con un capofamiglia padrone al quale spettavano tutte le decisioni importanti della famiglia e che con i propri figli aveva rapporti pressoché omologhi a quelli che intratteneva con i propri dipendenti, al nuovo modello nucleare, conseguente all’avvento dell’industrializzazione e al conseguente abbandono delle campagne, eventi questi che mutarono profondamente le relazioni familiari, giungendo così alla formazione della più piccola unità familiare possibile, costituita dalla coppia formata da marito e moglie e dai loro figli minorenni.

Anche le famiglie mononucleari erano piuttosto frequenti, soprattutto a causa di due fattori: la morte precoce di uno dei coniugi – in genere spesso la donna moriva di parto e l’uomo in guerra – e la considerevole emigrazione di massa che stava avendo luogo in quegli anni – il capofamiglia partiva per fare fortuna, ma non sempre il nucleo familiare riusciva a ricongiungersi.

Ecco dunque la comparsa di un altro fenomeno tutt’altro che raro: le famiglie ricostituite. Spesso per necessità i vedovi contra–evano nuovi matrimoni: gli uomini erano spinti dalla necessità di aiuto per allevare la prole, le donne dalle difficoltà economiche nelle quali venivano a trovarsi senza il sostentamento del capofamiglia. L’eco di questo tipo di situazioni si riscontra frequentemente nei racconti popolari e nelle fiabe, come le storie di Cenerentola, Hansel e Gretel, Pollicino e molte altre, che rappresentano dei veri e propri ricatti di tipo affettivo, dai quali si evince come i genitori non solo costituissero una guida indiscussa, ma altresì fossero i veri padroni dei propri figli: i genitori non nutrivano alcun dubbio sul modo in cui era giusto educare i propri figli – ed infatti l’educazione veniva dapprima ricevuta e quindi trasmessa sempre nello stesso identico modo, ma nemmeno attribuivano alcun valore psicologico alla crescita della prole.

La convivenza tra due adulti di sesso opposto non era invece socialmente accettata e tanto meno giuridicamente tutelata. A volte veniva utilizzata solo come estrema ratio per vincere le resistenze della famiglia  – ne costituivano un esempio le cosiddette fuitine, con le quali due giovani mettevano di fronte al fatto compiuto le rispettive famiglie, quando esse contrastavano il loro amore –, ma anche per risparmiare le spese del matrimonio, laddove non era possibile sostenere l’esoso esborso economico richiesto per effettuare la cerimonia e la festa matrimoniale.

Esistevano infine le alleanze: spesso nel corso della storia i matrimoni hanno rappresentato la garanzia migliore per sostenere e garantire gli interessi privati. La tutela giuridica infatti era prevista prioritariamente per la famiglia e per la società e solo in ultima istanza per i singoli.

I connotati distintivi dei cambiamenti nella famiglia contemporanea, avvenuti a partire dal XX secolo nelle società occidentali, possono schematicamente essere così riassunti: il modello borghese di famiglia – nucleare, in ragione della sensibile riduzione del numero dei componenti, causata dalla diminuzione della natalità; con un’evidente asimmetria nei ruoli ricoperti dai coniugi; ed infine prevalentemente chiuso al resto della società – divenne nel corso del ‘900 sempre più dominante ma, al tempo stesso, oggetto di forti contestazioni. A partire dalla ideologia marxista e per finire con la cosiddetta antipsichiatria, infatti, del matrimonio e dei ruoli coniugali vennero messi in discussione i significati simbolici e materiali nonché i caratteri autoritari e tendenzialmente repressivi sul piano sessuale e psicologico in generale, soprattutto per il rispetto dei diritti della donna rivendicato con forza da parte dei movimenti femminili; fino a giungere, nei primi anni della seconda metà del secolo, a teorizzare con D. Cooper la morte della famiglia.
 
Dal matrimonio alla convivenza, dalla centralità dei figli a quella del singolo, da un modello unico di famiglia a una pluralità di forme: i cambiamenti hanno avuto luogo a partire dall’attenuarsi delle disparità sociali, conseguenza del nuovo benessere economico e della diffusione dei mass media – soprattutto della televisione – e dall’estensione del lavoro femminile ai ceti della media borghesia. Tra gli anni ‘60 e i primi anni ‘80 dello scorso secolo si è giunti persino ad ipotizzare un ritorno alla naturalità dei rapporti relazionali e al sano vivere con la terra, realizzando un tipo di convivenza fondata sulle cosiddette comuni familiari, per la maggioranza naufragate dopo pochi anni.

Se nella prima metà del secolo i figli costituivano un valore primario ed un investimento, anche in ragione del contributo lavorativo che essi avrebbero fornito già in tenera età, soprattutto nelle famiglie patriarcali contadine, nella seconda metà del secolo i figli sono stati prioritariamente percepiti in termini di costi, con il conseguente decremento della natalità giunto fino alla crescita zero, mentre i singoli e le coppie si mostravano orientati soprattutto verso se stessi e la personale autorealizzazione.

Le problematiche relative alla ricerca di nuovi equilibri nei rapporti uomo – donna, fondati sull’uguaglianza e sull’interscambiabilità dei ruoli; il lavoro esterno di entrambi i coniugi, con le derivanti difficoltà di occuparsi della crescita dei figli; l’aumento della vita media, con la conseguente necessità di occuparsi delle persone anziane e le relative difficoltà dettate dalla mancanza di un welfare sociale di supporto; nonché le più recenti traversie economiche e la conseguente necessità di mobilità sociale, tutto ha contribuito a mettere in evidenza l’essenza fragile della famiglia contemporanea, sottolineata dalla palese mancanza di schemi di riferimento e dal cambiamento dei valori etico – morali di riferimento, che appesantiscono lo sbando personale e del nucleo familiare nel suo complesso.

Il quadro che ne deriva è quanto mai disorientante. Il sociologo Talcott Parsons ha definito la famiglia come un’entità isolata, nata per soddisfare l’imperante sistema economico e dunque meno vincolata dagli obblighi parentali, più snella e dinamica per consentire la mobilità lavorativa, più ricettiva nei confronti della pubblicità e dei falsi bisogni, più consumista di beni materiali per soddisfare l’alienazione lavorativa e l’isolamento relazionale e affettivo.

La famiglia post–moderna vede un ritorno alla famiglia estesa, sia in senso verticale – famiglia allungata, con i nonni, i figli maggiorenni ed i nipoti, sia in senso orizzontale – parenti della stessa generazione o famiglie allargate. I figli restano generalmente a lungo nella casa dei genitori, sia a causa dei problemi economici, che non consentono loro di vivere da soli, sia a motivo del rinvio delle responsabilità adulte per la paura del futuro, paura che fa rinunciare a sognare e realizzare un progetto di vita a lungo termine, e fa invece preferire una logica consumistica del tipo usa e getta, il carpe diem. Al contempo, gli adulti hanno spesso abdicato al ruolo genitoriale: l’eccessivo maternage, l’incapacità di parlare con i figli, le resistenze psicologiche nel pronunciare dei no fermi nei confronti delle richieste o degli atteggiamenti dei loro figli, per paura di essere disconfermati nel ruolo genitoriale, tutto ciò ha reso questo tipo di genitori non, come il ruolo educativo impone, dei modelli – guida, ma piuttosto dei compagni per i loro figli, così da ricevere quelle gratificazioni che non sono riusciti a procurarsi altrimenti o altrove.

Nella società contemporanea il pensiero video–centrico accomuna la maggioranza di grandi e piccini: si tratta di un’ideazione di tipo superficiale, che arretra di fronte alle sfide della complessità e conduce alla frattura cognitivo – affettiva e all’analfabetismo emotivo, inducendo spesso a legami casuali, non ponderati e, a volte, violenti. Si tratta di una vera rivoluzione digitale, nella quale i processi di socializzazione sono determinati dalla rete di telecomunicazioni. Ne è nato un nuovo paradigma sociologico, fondato sul primato della struttura reticolare dell’interazione più che sul contenuto dello scambio fra attori sociali, che riveste un’importanza fondamentale per il processo di globalizzazione, soprattutto in campo economico (la cosiddetta new economy) e sociale (le comunità virtuali). La globalizzazione non è un fenomeno semplice che coinvolge solo alcuni settori della vita lavorativa, ma un cambiamento radicale e profondo delle relazioni umane: è la trasformazione della percezione dello spazio sociale e degli eventi che influenzano in tempo reale la vita quotidiana.

Dal neolitico alla rivoluzione industriale, ai cambiamenti economici ha sempre fatto seguito uno sviluppo demografico. Fino alla rivoluzione industriale il regime demografico era caratterizzato da alte fecondità e mortalità; dopo di essa è iniziato il processo inverso. Nei paesi più avanzati il tasso di natalità ha continuato a decrescere fino a raggiungere la crescita zero, mentre nei paesi meno sviluppati si continua ad assistere a un’esplosione demografica. Lo squilibrio nelle dinamiche demografiche tra i due gruppi di paesi, strettamente connesso con problematiche di tipo economiche, politiche e sociali, è alla base di un processo migratorio senza precedenti.

Il sociologo Marc Augé definisce l’attuale l’età surmoderna, la società dei campanili e delle ciminiere, lo spazio di reti, nodi, punti di circolazione di persone, merci, veicoli, nel quale i canali comunicativi, da spazi di percorrenza si sono trasformati in spazi di insediamento: è il transito la vera dimora della surmodernità. Quelli che egli definisce non luoghi sono gli spazi spersonalizzati e spersonalizzanti della massificazione: ad esempio i centri commerciali, che paradossalmente si affollano soprattutto durante i giorni festivi e nei quali ci si incontra e ci sfiora senza che ciò dia luogo ad alcun tipo di relazione; sono gli spazi della solitudine e del transito, luoghi disabitati dominati da ripetizione, monotonia e angoscia.

Ma anche in questo panorama sociale così precario, a dispetto delle mutate condizioni storiche e delle quasi azzerate prospettive future, la famiglia continua a rappresentare una struttura e un’agenzia insostituibili per lo sviluppo sano dell’essere umano.

L’alba del terzo millennio si apre con uno spaccato familiare quanto mai variegato: coppie senza figli, famiglie nucleari (con un solo figlio o al massimo due), famiglie mononucleari (con un solo genitore), famiglie allargate (figli di genitori diversi che vivono insieme), famiglie unipersonali (persone separate o vedove che vivono da sole), famiglie doppie (figli che vivono con i nonni o con coppie diverse di genitori, di giorno o durante i fine settimana), famiglie omogenitoriali (con entrambi i genitori dello stesso sesso).

Le opportunità che ne derivano sono le acquisite – reali o presunte – libertà, parità, garanzie, tutele e relazioni sociali; i rischi sono costituiti da conflitti, sofferenze emotive per bambini e adolescenti, impoverimento economico, scarso sostegno sociale.

Così come il matrimonio o la convivenza non trasformano automaticamente due persone in una coppia, altrettanto la nascita di un figlio – biologica o adottiva – non necessariamente crea di per sé stessa dei genitori: l’unione tra due persone e la costituita famiglia non costituiscono semplicemente dei fatti sociali, ma rappresentano soprattutto degli stati emotivi.

La formazione di una coppia stabile è un fenomeno socio–culturale più complesso che il semplice vivere in due: significa condividere l’idea di un progetto e scegliere di realizzarlo insieme. Il ciclo di vita della famiglia va dalla formazione della coppia stabile fino al termine della funzione della coppia, in quanto i figli sono cresciuti e vanno via da casa, oppure perché la coppia muore, fisicamente o psicologicamente.
La relazione familiare dovrebbe consentire di conoscere l’altro, ma anche di conoscere se stesso attraverso l’altro. Ma la famiglia ha un ruolo fondamentale soprattutto nell’educazione dei figli: essa infatti è il primo gruppo sociale nel quale inizia a formarsi il concetto di .

Le ricerche (U. Bronfenbrenner) dimostrano che il ruolo materno e quello paterno non sono prescindibili, pena una serie di eventi negativi, quali ad esempio le difficoltà nello sviluppo della personalità dei figli, dei risultati scolastici scadenti o le esperienze precoci di comportamenti a rischio della salute. Le ricerche indicano però con altrettanta chiarezza che non è importante chi ricopra i ruoli: contrariamente alle aspettative sociali, la madre può anche essere severa e guidare all’esplorazione ambientale, mentre il padre può mostrarsi più incline alle coccole e agli scambi comunicativi. L’importante, dicono ancora i ricercatori, è che i due ruoli vengano espletati e che i figli abbiano modo di sperimentarli entrambi.

Papa Giovanni Paolo II, nel documento Mulieris dignitatem, afferma che l’uomo e la donna hanno pari dignità davanti a Dio, ma ciascuno con i propri compiti. In particolare viene usata l’espressione genio femminile, per sottolineare la naturale disposizione della donna a prendersi cura degli altri. Ci chiediamo: esiste un corrispettivo genio maschile? Nel senso inteso da Giovanni Paolo II sembrerebbe di no, ma non è comunque significativo contrapporre i due ruoli, rivendicandone e rimarcandone solo le differenze. L’intento piuttosto dovrebbe essere quello di legittimare la pari dignità di tutti e di ciascuno e di educare piccoli e grandi all’effettivo rispetto delle differenze.

La formazione dell’identità delle nuove generazioni è innanzi tutto un’operazione culturale. Gli studi condotti da Harlow e Bowlby relativamente a ciò che costituisce la caratteristica più importante dell’essere genitori, ha fornito un risultato straordinario: fattore decisivo per una crescita sana è che i genitori rappresentino quella base sicura dalla quale sia i bambini che gli adolescenti possono partire per andare alla scoperta e alla conquista di sé e del mondo esterno e alla quale siano sempre sicuri di poter tornare, con l’intima certezza che ad ogni loro ritorno saranno accettati e nutriti, sia fisicamente che emotivamente.

Approfondendo le ricerche, A. Maslow elenca i bisogni fondamentali di ogni essere umano: lo fa incastonandoli in forma piramidale, a partire dalla base (i bisogni fisiologici, di sopravvivenza) fino al vertice (i bisogni di autorealizzazione), passando per i bisogni intermedi di sicurezza, appartenenza (sociali e di relazione), affetto e stima. Per realizzare se stessi è necessario dare la scalata alla piramide. Ma ciò implica necessariamente che per essere un bravo e capace genitore occorre sapersi prendere cura non solo dei propri figli ma anche di se stessi: un figlio ha bisogno di genitori forti e indipendenti, per non doversi sentire in colpa ogni volta che si allontana da loro.

Le criticità sono inevitabili, fisiologiche diremmo. Come fare allora a sapere se una famiglia è sana? Quali sono i segnali che ci fanno capire che la famiglia funziona? Ebbene questi segnali si basano spesso sul fatto che i genitori si occupano dei figli e che questi intrattengono apparentemente delle buone relazioni con i propri genitori. Ma quando si va ad approfondire questo reciproco scambio, spesso si scopre che il comportamento degli adulti è svolto per imitazione di quello che, nel gruppo d’appartenenza, viene atteso per il ruolo che si ricopre e che spesso gli individui presentano di se stessi solo la maschera dell’incapacità di assumere un vero ruolo genitoriale.

Secondo David Haug, biologo evoluzionista dell’Università di Harvard, già durante la gravidanza si svolge il prototipo di tutti i conflitti futuri, la lotta inconscia tra la madre e il feto per accaparrarsi le sostanze nutritive: il feto non resta passivamente nella pancia della madre in attesa di essere nutrito; la sua placenta infatti genera dei vasi sanguigni che invadono letteralmente i tessuti della madre per estrarne le sostanze nutritive. La madre a sua volta, in virtù delle leggi di selezione naturale, cerca di ostacolare queste invasioni per conservarsi sana per la prole futura. Si verifica insomma una sorte di tiro alla fune; solo se la bandiera resterà al centro, muovendosi impercettibilmente tra i due contendenti, saranno evitati esiti funesti per l’uno o l’altro: se il feto tirasse troppo dalla sua parte certamente se ne avvantaggerebbe dal punto di vista nutrizionale, ma correrebbe il rischio di restare orfano di madre; viceversa, se la madre si opponesse in modo deciso alle richieste del feto, rischierebbe di generare un figlio debole e poco vitale. (Psicologia Contemporanea, 2007)

Purtroppo non tutti i genitori, a causa dei limiti personali, sono in grado di proporre modelli realistici e di certo non possono sperare nell’aiuto dei mass–media, che sembrano sempre di più proporre solo falsi idoli, eroi costruiti su misura per attrarre, falsamente perfetti ed ancora più falsamente felici. Da qui l’importanza dell’intervento di altri educatori, in particolare degli insegnanti e in special modo di quelli deputati ad occuparsi – in virtù della disciplina d’insegnamento a loro affidata – della crescita spirituale e dello sviluppo morale degli alunni. Sempre più spesso infatti accade di imbattersi in adulti non cresciuti i quali, non possedendo un modello reale – che è il risultato di una corretta conoscenza di sé e della realtà circostante e che dà luogo ad una scala di valori reale , persistono nel confrontare il proprio e l’altrui comportamento con un’immagine ideale – proveniente non dalla conoscenza dell’esistente ma di ciò che dovrebbe essere, con il risultato di vivere in uno stato di insoddisfazione costante e con il rischio di giungere al rifiuto di qualsiasi modello, nel vano tentativo di superare tale insoddisfazione. La diretta conseguenza è vivere solo sulla spinta dei propri desideri, perdendo il senso della vita e dell’esistenza. Ne derivano due forme di patologia: quella di chi rifiuta di confrontare il proprio comportamento con un modello e vive schiavo degli avvenimenti, ed i cui umori e percezioni seguiranno le alterne fortune della vita; e quella di chi invece continua testardamente a non voler crescere, a non superare lo stato adolescenziale, e confronta il proprio e l’altrui comportamento con un modello ideale – irraggiungibile, in quanto tale, con il conseguente rifiuto di se stesso e dell’altro. La persona psichicamente sana non sarà quindi quella libera da modelli di comportamento, che vive del soddisfacimento dei propri desideri, ma nemmeno quella che rifiuta continuamente se stessa o l’altro perché inadeguati al modello ideale; sarà invece colei che riconosce ed accetta la propria e l’altrui limitatezza e nello stesso tempo continua ad amare se stessa e gli altri.

Il fine ultimo diventa quindi l’amore: in primo luogo verso se stessi – il soggetto impara a conoscersi, ad accettarsi e ad amarsi non solo per i propri pregi, ma anche con i suoi limiti – e quindi amore verso gli altri – nell’accettazione dei loro limiti, riconosciuti simili ai propri. Si tratterà di un amore che non comprende una conoscenza solo emotiva e idealistica di tipo infantile – come quella che fa rifiutare l’amato nel momento in cui ci si rende conto dei suoi limiti e difetti, che non lo rendono più simile al modello ideale, ma anche una conoscenza e quindi una accettazione razionale dell’altro. Il raggiungimento della maturità morale diventa pertanto un problema di crescita nella dimensione dell’amore: è cioè il momento del passaggio da un amore irrazionale – per me, per un altro e per un mondo ideali – ad un amore razionale  – per me, per un altro e per un mondo reali e quindi, in quanto tali, limitati.

Come già sostenuto anche da Nucci (2001), dall’educazione morale tradizionale, basata sull’idea che l’acquisizione della moralità implichi un’accettazione degli standard e delle norme sociali, si è passati via via a un’idea che potremmo definire più aristotelica. In quest’ultima l’uomo non è più considerato un automa governato dalle passioni o dalla cieca adesione alle norme sociali, bensì una persona che può guidare i propri comportamenti con la ragione e quindi con la capacità di giudicare ciò che è bene e ciò che è male. Il raggiungimento di una moralità si caratterizza per la capacità di subordinare le proprie abitudini e virtù alla virtù suprema della giustizia, con la conseguenza che lo sviluppo nel campo della moralità implichi lo sviluppo di modi di riflettere su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è buono e ciò che è cattivo.

Il bisogno di costruire un’identità personale era già chiaro a Piaget che sosteneva, che “… è soltanto attraverso la conoscenza della nostra natura di individui, con i nostri limiti e con le nostre risorse, che possiamo renderci capaci di uscire da noi stessi e di collaborare con altre nature individuali.” (Piaget, 1932, pag. 393). La persona sin dai primi anni anela quindi alla propria libertà, l’individuo considera la libertà un bene necessario che ha il diritto di rivendicare, in quanto necessaria per poter agire in modo finalizzato. Il diritto ad un ambito personale acquista quindi la funzione di dare l’origine e la giustificazione concettuale della rivendicazioni della persona alla libertà, anche se l’ambito di questo diritto alla libertà è di difficile risoluzione, in quanto, come sostenuto da Nucci (2001), condizionato dalle norme culturali e da caratteristiche personali; ma vi sono comunque delle aree fondamentali, relative alla gestione del corpo della persona e alla libertà di espressione, comunicazione e associazione, che, seppur influenzate culturalmente per forma e grado, sono comunque sempre presenti. Lo stesso Autore sottolinea inoltre che il bisogno psicologico di avere una sfera personale e la conseguente formazione dell’ambito personale e le rivendicazioni individuali della libertà sono necessarie perché la persona contribuisca come individuo al processo (sia interpersonale che interiore) che conduce alla reciprocità morale, al rispetto vicendevole e alla cooperazione. Se dall’ambito personale non scaturirebbero rivendicazioni della libertà non esisterebbe, secondo Nucci (2001), alcun concetto morale dei diritti, ma è proprio il discorso morale che trasforma le rivendicazioni individuali alla libertà in obblighi morali condivisi; infatti senza una tale reciprocità, come aveva già evidenziato Piaget (1932), le rivendicazioni personali alla libertà possono dare origine anche a tendenze narcisistiche o di sfruttamento degli altri: è questo il caso di quei soggetti che non passano da una moralità autonoma ad una eteronoma, rimanendo in una fase egocentrica. Ne consegue che la moralità e la libertà personale non solo non sono contrapposti ma risultano aspetti interdipendenti dello sviluppo umano. E’ lo sviluppo, storicamente contestualizzato, di rivendicazioni individuali della libertà – che riflettono bisogni psicologici fondamentali e astorici – che stimola il discorso morale e allo stesso tempo fornisce l’impulso per una possibile critica dello status quo.  In questa prospettiva, lo sviluppo morale deve quindi essere considerato contemporaneamente universale e plurale, individuale e sociale. In definitiva, esso riconosce anche che se da un lato le conoscenze morali individuali rispecchiano caratteristiche intrinseche e ineluttabili dell’interazione umana e dei bisogni psicologici individuali, dall’altro la moralità dei diritti umani sarà, nelle sue forme più mature e fondate sui principi, sempre il prodotto di un impegno collettivo (Nucci, 2002, pagg. 93 e 94).

Afferma Erikson (1963) che è essenziale un equilibrio, frutto di una buona negoziazione, tra le aree di discrezione del bambino e l’applicazione della regolamentazione sociale da parte del genitore, per evitare problemi di adattamento ambientale che porterebbero inevitabilmente, nel corso degli anni, a soffrire di problemi psicologici.

Fin dall’infanzia il bambino impara a dire di no e a sottolineare con fermezza la propria autonomia; negli ambiti della sua discrezionalità, comincia quindi a discutere le regole poste dai genitori, in special modo quelle relative alla sfera personale. Inizialmente ciò riguarda solo gli ambiti relativi al cibo (che cosa e quanto mangiare), ma poi si estende: all’abbigliamento (che cosa indossare per vestirsi), alla cura della propria estetica (la lunghezza e il taglio dei capelli, ad esempio), allo sport (quali praticare), alla gestione dei propri spazi (tenere o meno in ordine la propria camera), allo studio e al tempo libero (quanto tempo dedicarvi), alle amicizie (quali persone e gruppi frequentare), ai tempi e ai luoghi delle uscita da casa.  Lo studio condotto da Nucci e Weber (1995) sulle interazioni madre – bambino (di circa 3 o 4 anni) ha permesso di osservare che le rivendicazioni dei bambini riguardavano per il 98% i comportamenti relativi agli ambiti prevalentemente personali, il 25% di quelli che implicavano questioni convenzionali e solo il 10% per eventi relativi a questioni morali o prudenziali. I colloqui con i bambini confermarono non solo che essi erano perfettamente in grado di distinguere gli ambiti personali da quelli maggiormente soggetti alla regolamentazione sociale, ma anche che essi consideravano i primi di loro competenza – spettava a loro e non alla madre decidere, mentre viceversa erano disponibili a lasciare la decisione alla madre per ciò che riguardava gli ambiti morali e convenzionali. A loro volta le madri sembravano conformarsi a questo pensiero e rispondevano in modo diverso a seconda che la negoziazione riguardasse gli ambiti personali, morali e convenzionali – nel primo caso erano molto più disposte alla negoziazione. In uno studio successivo (Nucci e Smentana, 1996) le madri spiegarono che in alcuni ambiti preferivano lasciare la scelta ai propri figli perché ritenevano che allenarsi a prendere decisioni li avrebbe aiutati a sviluppare l’autostima e la capacità di iniziativa autonoma. In generale emerse un ruolo attivo dei figli nel fornire alle madri dei feedback, sotto forma di richieste e resistenze che veicolano informazioni sulla necessità di avere aree di controllo personale. Si tratta quindi di un insieme specifico di rivendicazioni nelle scelte personali relativamente agli ambiti di questa sfera, piuttosto che di una resistenza generalizzata all’autorità degli adulti (Kuczynski e Kochanska, 1990). Questi studi, condotti inizialmente su famiglie nordamericane, sono stati successivamente generalizzati ad altre culture considerate meno individualiste ed estese a diversi ceti sociali: tutti hanno confermato nella sostanza i medesimi risultati (una rassegna critica di questi studi si trova in Nucci, 2002, pagg. 81 – 87).

A mano a mano che i bambini crescono, la tendenza alla lotta per l’autonomia decisionale aumenta e si allargano gli ambiti di negoziazione, sino ad arrivare alla fase del-l’adolescenza, quando la negoziazione può riguardare tutti gli ambiti e il confronto con gli adulti raggiunge il suo picco. J. Smetana e i suoi collaboratori dell’Università di Rochester hanno condotto una serie di studi che hanno permesso di comprendere meglio le origine dei conflitti fra adolescenti e genitori e come l’autorità genitoriale influenzi questi conflitti. Si è così scoperto che il conflitto non riguarda allo stesso modo tutti gli ambiti; in particolare riguarda solo raramente le questioni morali, nelle quali gli adolescenti riconoscono l’autorità dei genitori, obbedendo pertanto alle regole che guidano i comportamenti morali proposte dai genitori. Gli adolescenti riconoscono ai genitori anche il diritto di proporre regole convenzionali e relative alla sicurezza e alla salute dei figli, ma crescendo, soprattutto dai 15 anni in poi, tendono a considerare anche queste di propria competenza. Negli Stati Uniti i conflitti tra genitori e figli adolescenti relativi a chi dovesse detenere l’autorità si verificavano preferibilmente nei confronti di questioni relative all’aspetto (abbigliamento e cura del corpo), alle diverse attività e al tempo loro dedicato (studio, uscite con gli amici, uso del telefono, scelte televisive), luoghi in cui potersi recare (discoteche, birrerie, pub) e utilizzo del denaro (quanto e come spenderlo). In generale gli adolescenti, pur comprendendo le motivazioni dei genitori – responsabilità verso la famiglia, importanza dell’uso delle buone maniere, imbarazzo e preoccupazione dei genitori su come il figlio potesse essere percepito dagli altri, ne rifiutano il contenuto sociale e convenzionale e si appellano al loro diritto di autodeterminazione e di esercitare su questi ambiti la propria personale giurisdizione. Le regole relative a questioni di prudenza – rischi per la salute e sicurezza dell’adolescente – sono meno foriere di conflitti, anche perché la maggior parte degli adolescenti compie azioni contrarie alle regole di tipo innocuo e non particolarmente rischioso, come non lavarsi le mani e i denti, o vestirsi in modo inadeguato alla temperatura e alle condizioni meteorologiche. Purtroppo però talvolta sono presenti comportamenti in grado di provocare gravi danni nel tempo, come ad esempio assumere di alcool o droghe: in questi casi il conflitto diventa inevitabile. Nella gestione del conflitto il gruppo di Smetana ha identificato tre diversi stili genitoriali, che corrispondono al diverso grado di conflitto familiare:

 

 Famiglie tranquille: i conflitti sono rari e quando avvengono risultano di bassa o media intensità; i genitori, percepiti dai figli come più affettivi, tendono ad essere meno restrittivi e a prendere decisioni condivise con l’adolescente; spesso entrambi i genitori lavorano e in genere il loro tenore socioeconomico è alto.

 

 Famiglie turbolenti: hanno conflitti frequenti e di alta intensità; i genitori sono spesso divorziati, appartengono ad un ceto socioeconomico più basso, sono poco propensi alla negoziazione e al compromesso, tendono a limitare le aree di autonomia dei figli adolescenti e a proporre più regole nelle questioni personali; dai figli sono percepiti come meno affettivi; le ricerche (in particolare di Nucci e coll) mostrano come l’eccessiva interferenza nelle aree personali provochi frequentemente una sintomatologia depressiva e atteggiamenti di ostilità da parte dei figli adolescenti.

 

 Famiglie molto litigiose: si tratta del numero più diffuso: i conflitti con i figli sono molto frequenti ma di bassa intensità; i genitori sono simili a quelli delle famiglie tranquille per disponibilità al compromesso e alla negoziazione, ma usano più spesso argomentazioni di tipo sociale e convenzionale; anch’essi vengono percepiti dai figli come affettuosi.

 

A conferma della loro diffusione, risultano ben centosessanta le culture nelle quali sono stati osservati questi tipi di conflitto (Smetana 1995).

La diffusione dei conflitti in epoca moderna ha guidato più voci a sostenere la diffusione della visione individualistica della vita, conseguente al declino degli standard morali. In realtà le ricerche non hanno confermato un rapporto correlativo tra declino morale e ricerca dell’autonomia decisionale dei giovani, quanto piuttosto che la lotta per l’autode-terminazione sembra essere insita nella natura dell’uomo, necessaria nella sua evoluzione verso l’età matura, come mostra altresì l’analisi storica dei conflitti generazionali, praticamente presenti sin dall’antichità.

L’importanza dei bisogni immateriali risulta evidente dagli studi sulle aree cerebrali del piacere: gli animali utilizzati nelle sperimentazioni sulla stimolazione diretta di queste aree (Olds, Campbell) non smettono di premere la leva che fornisce loro la stimolazione endocranica fino a quando non sono stremati dalla fatica, per ricominciare non appena le forze lo consentano nuovamente e ciò all’infinito, senza provare alcun interesse per il cibo o per il sesso, col risultato che gli esperimenti devono interrotti per evitare la morte per fame degli stessi animali.

Il punto chiave è rappresentato dalla stimolazione dei centri del piacere, la cui scoperta costituisce uno dei progressi più stimolanti nel campo delle ricerche sul cervello. Si è constatato che inserendo un elettrodo in questa specifica area del cervello di un ratto, gli impulsi elettrici risultano talmente ricompensanti che l’animale arriva a premere la leva che comanda l’impulso elettrico anche diecimila volte l’ora e per ventisei ore consecutive (Argyle, 1988) . Ripetute su numerose altre specie animali (pesci, ratti, conigli, gatti, cani, delfini, scimmie), nonché sull’uomo, queste ricerche hanno fornito sempre i medesimi risultati. Il piacere endocranico non solo sembra essere più importante di qualsiasi altro stimolo, ma non risulta sottostare neanche ai limiti tipici dei bisogni materiali, quali quelli posti dai principi di sazietà e di deprivazione: mentre i bisogni materiali tendono ad estinguersi quando vengono soddisfatti, per aumentare di nuovo solo quando di nuovo insoddisfatti, il piacere endocranico sembra non esaurirsi mai, nemmeno quando potrebbe apparire saturo; qualche ricercatore, come Campbell (1974), riprendendo l’importanza attribuita da Freud al principio del piacere, è giunto a sostenere che tanto l’uomo quanto tutti gli altri esseri viventi sembrano vivere solo in funzione del piacere.

Campbell suddivide il piacere in due forme: subumano (tipico degli animali, dell’uomo ancora bambino, ma anche della maggior parte degli esseri umani adulti non sufficientemente sviluppati) ed umano (tipico della restante parte degli esseri umani adulti). Nelle aree endocraniche del piacere convergono gli impulsi nervosi provenienti dai recettori periferici; così gli animali e gli uomini non ancora evoluti (biologicamente, perché infanti, o psicologicamente, perché immaturi) hanno modo di stimolare queste aree attraverso i piaceri sensoriali (cibo, bevande, tatto, ecc.). Ma le aree del piacere sono raggiunte anche da impulsi nervosi provenienti dalle regioni più evolute del cervello, le cosiddette regioni pensanti, così che gli individui hanno la possibilità di stimolare tali aree – e quindi ottenere il piacere – anche senza ricorrere agli organi di senso e, a differenza degli animali, trarre piacere da attività mentali quali la logica, la religione, la filosofia, ecc.

Esisterebbero pertanto almeno due modi per stimolare le aree del piacere:


1. Con fare poco evoluto e quindi subumano – per dirla con alcuni autori, anche se noi preferiamo definirlo infantile, tramite la sola stimolazione sensoriale o, in altri termini, mediante la sollecitazione di beni materiali.
2. In modo più evoluto, più maturo, tipicamente umano, utilizzando anche l’attività pensante tipica delle regioni neoencefaliche del nostro cervello e cercando, oltre che sensazioni, anche informazioni.

 

Tutti gli esseri umani possiederebbero in potenza la capacità di utilizzare entrambi i modi per raggiungere il piacere. In realtà molti bambini non hanno la possibilità di sviluppare una modalità più adulta nella ricerca del piacere, sostanzialmente per due ordini di motivi:


 perché i genitori sono troppo occupati, a causa del loro stato di indigenza, nella lotta per l’acquisizione di quel minimo di beni materiali necessario alla sopravvivenza, così da non avere tempo per altro che non siano i piaceri sensoriali;
 perché i genitori, pur disponendo di beni a sufficienza, convinti che la soddisfazione dei bisogni materiali sia prioritaria, si preoccupano costantemente di procurarsene dei nuovi, da consumare attraverso i sensi o da accumulare. Tali genitori, con le parole ma soprattutto attraverso l’esempio dato dal loro comportamento – offrendosi cioè come modelli – indirizzano quasi esclusivamente i propri figli verso la ricerca di beni materiali atti a soddisfare la stimolazione sensoriale. Di conseguenza l’etologo K. Lorenz è giunto a sostenere che l’anello mancante tra le grandi scimmie e l’homo sapiens sia proprio l’uomo, che sembra proprio comportarsi come homo sensoriens.pdf

 

Concludendo possiamo affermare che la famiglia è costituita da un variegato complesso di modalità relazionali e di funzioni, il cui attivarsi, persistere ed evolvere garantisce il formarsi di una personalità equilibrata, capace di condurre una vita serena e di contribuire al benessere della collettività. Ogni persona deve poter essere libera di scegliere il tipo di famiglia che corrisponde al proprio sistema di valori, purché vengano rispettate le condizioni che consentono lo svolgimento ottimale dei ruoli e delle funzioni specifiche.

 

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