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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdfNegli ultimi quindici anni è aumentata in maniera significativa l’attenzione ai comportamenti aggressivi in età evolutiva e soprattutto in ambito scolastico: a tal proposito, si è parlato di vera e propria ‘emergenza bullismo’, che starebbe attualmente trasferendosi anche nel cyberspazio. Al di là dei dati epidemiologici, che non sempre confermano queste impostazioni allarmistiche, il presente articolo analizza tre importanti cambiamenti di prospettiva nello studio delle condotte aggressive in età evolutiva, con specifica attenzione anche alle ricadute in ambito educativo.
A partire dagli studi pionieristici di Olweus (1979, 1982) sul bullismo ed altre condotte aggressive in contesti scolastici, la ricerca si è posta soprattutto l’interrogativo relativo alla reale incidenza di tali fenomeni e al presunto drastico incremento degli stessi. I frequenti episodi di cronaca, riportati e talvolta amplificati dai media1, hanno indotto spesso a parlare di una vera e propria ‘emergenza bullismo’
I dati epidemiologici hanno mostrato come, a partire dal secondo dopoguerra, vi sia stato un incremento lineare dei comportamenti aggressivi e violenti in preadolescenza e adolescenza, con un picco a metà circa degli anni novanta e poi una sostanziale stabilità del fenomeno (Bohman, 1995; Connor, 2002). In base a queste evidenze, allora, non sembra giustificabile l’enfasi posta nel corso degli ultimi anni relativamente ad una presunta ‘emergenza’ dei fenomeni di bullismo. In realtà, la percezione di un aumento di criticità è riportabile ad un altro aspetto del problema, ossia la sua precocizzazione, in virtù della quale i fenomeni di bullismo tenderebbero ad avere la massima incidenza nel periodo compreso tra l’ultimo biennio della scuola primaria e l’inizio della secondaria di primo grado (Fedeli, 2011).
In realtà, in questi ultimi anni la ricerca in questo campo, particolarmente quella applicata all’età scolare, si è caratterizzata per alcuni importanti cambiamenti di prospettiva, che inevitabilmente hanno inciso anche sulle modalità di prevenzione e di intervento in ambito evolutivo.

Dall’istinto aggressivo alla prosocialità

Un primo radicale cambiamento di prospettiva riguarda la presunta dotazione innata del bambino, rispetto alle dimensioni relazionali e comportamentali. Una lunga tradizione in campo psicologico, risalente fin alla fondazione dell’impianto psicoanalitico da parte di Sigmund Freud, ha individuato un presunto istinto aggressivo quale origine delle condotte devianti, da quelle più lievi fin alle forme di violenza organizzata, quali sono ad esempio i conflitti bellici (Freud, 1929; Thomson, 1992). Tale idea ha ricevuto successivamente ulteriori conferme, più sul piano teorico che su quello strettamente empirico, da altri esponenti delle impostazioni psicodinamiche (Fromm, 1994).
L’idea di un istinto aggressivo, declinato nella sua forma più estrema da Freud come pulsione di morte o Thanatos, oltre ad alcune debolezze empiriche e concettuali2, manifesta però i limiti maggiori sul piano operativo: se assumiamo infatti che il bambino sia portatore di un’innata tendenza a compiere atti aggressivi, in che modo possiamo agire sul piano educativo? Quali strade abbiamo per promuovere gruppi sociali (qual è il gruppo classe) in cui sia basso il tasso di aggressività e violenza? L’unica possibilità resta ovviamente quella di contenere e incanalare queste spinte istintuali: da qui deriva il concetto di sublimazione, che sarebbe all’origine di condotte creative, artistiche, ecc. In realtà, numerosi studi hanno mostrato come approcci puramente reattivi, volti cioè al semplice contenimento di condotte problematiche, si sono rivelati scarsamente efficaci e soprattutto hanno manifestato un ridotto mantenimento nel tempo dei risultati raggiunti (McLean, 1994; Rigby, 1996; Smith, Pepler & Rigby, 2004).
A questo proposito, negli ultimi anni si è verificato un radicale cambiamento di prospettiva, grazie anche ad una serie di studi condotti dal gruppo di ricerca coordinato da Michael Tomasello presso il Max Planck Institute (Warneken & Tomasello, 2006; Warneken, Chen & Tomasello, 2006; Tomasello & Vaish, 2013): per mezzo di disegni sperimentali rigorosi e di analisi comparative, si è evidenziato come i bambini, fin dalla primissima infanzia3, mostrino delle forti ed innate tendenze prosociali, volte cioè a promuovere il benessere altrui, oltre alla semplice sopravvivenza dei membri ‘in-group’. Questa spinta prosociale sarebbe ravvisabile già nei gesti utilizzati dai bambini a 12 mesi (Tomasello, Carpenter & Liszkowski, 2007): accanto ai gesti cosiddetti ‘imperativi, usati cioè dal bambino per richiedere al genitore un oggetto osservato e desiderato, e a quelli ‘dichiarativi’, volti a richiamare l’attenzione dell’adulto su uno stimolo attraente, Tomasello ha rilevato un terzo tipo di gesti, quelli ‘informativi’. Il bambino ricorre ad essi quando vuole aiutare un adulto percepito in difficoltà, ad esempio segnalandogli un oggetto che l’altro non riesce a trovare. L’aspetto di maggior interesse consiste nel fatto che dietro al gesto compiuto dal bambino di 12-18 mesi, vi sarebbe la capacità di rappresentarsi lo stato mentale dell’altro e la volontà di aiutarlo, prima che si verifichino importanti processi educativi o condizionamenti culturali.
Questa tendenza prosociale ha trovato ulteriori conferme, ad esempio in studi neurobiologici, che hanno evidenziato come gli atti prosociali4 attiverebbero una serie di modificazione neurochimiche (legate ad ormoni e neurotrasmettitori) che determinerebbero uno stato di benessere soggettivamente percepito (Churchland, 2012). Anche gli studi sulle primissime forme di intersoggettività evidenziano come l’essere umano, lungi dall’immagine dell’homo homini lupus, mostri una naturale tendenza e necessità di relazionarsi all’altro, oltre ogni prospettiva di egocentrismo (Lavelli, 2007).
Questo cambiamento di prospettiva ha delle profonde implicazioni per la comprensione delle condotte aggressive in età evolutiva e per la progettazione di interventi educativi in ambito scolastico. Per quanto riguarda il primo punto, di fronte ad un atto aggressivo, la domanda non è più: ‘perché quel bambino ha agito in quel modo violento?’. Piuttosto, dovremmo chiederci: ‘perché quel bambino non ha fatto altro? In altre parole, perché non è stato in grado di emettere comportamenti prosociali? Quali processi educativi o esperienze personali hanno ridotto la naturale tendenza prosociale di quel bambino?’. Ad esempio, spesso i bambini in età prescolare manifestano dei comportamenti spontanei di dono, regalando un loro giocattolo o la merendina ad un compagno. Talvolta il genitore interviene privando di valore tale azione, o addirittura rimproverando il figlio e richiamandolo ad un maggior senso di equità: “hai regalato il tuo dinosauro a Marco? E lui cosa ti ha dato in cambio? Hai dato la tua merendina a Laura? Ed a te è rimasto qualcosa da mangiare?”. Interventi di questo tipo, volti a sostituire le spinte altruistiche con un rigido senso dell’equità5, hanno come effetto quello di inibire e svalutare le condotte prosociali, con un maggior rischio di azioni inappropriate sul piano relazionale.
È evidente allora come anche sul piano educativo cambi l’azione in ambito scolastico: piuttosto che limitarsi in modo reattivo a sanzionare i comportamenti aggressivi, diviene prioritario agire a livello preventivo, rinforzando e sostenendo fin all’epoca prescolare le azioni prosociali emesse dai bambini. In tal modo, usciamo dalla logica dell’equità (‘hai compiuto l’atto aggressivo, per equità6 devi subire una punizione’) ed entriamo invece nell’ottica proattiva della prosocialità educativa.

Dal singolo al gruppo

Un secondo mutamento di prospettiva è consistito nello spostare il focus d’indagine dal singolo soggetto al gruppo, ossia dai condizionamenti (biologici, educativi, culturali ecc.) del ragazzo aggressivo alle influenze del contesto in cui agisce. Molti studi hanno approfondito i ruoli implicati nei fenomeni bullismo a scuola: il bullo, la vittima, i complici (Smith, 1999; Olweus, 1993; Orpinas & Horne, 2006). In tal modo, è divenuto evidente come gli atti di bullismo siano spesso attuati da un gruppo di ragazzi, che con il loro comportamento sostengono l’azione del leader. In realtà, però, questo ampliamento del focus d’analisi non muta in modo sostanziale lo schema eziologico unilineare applicato nei casi di bullismo individuale: l’origine sarebbero sempre problematiche (neurobiologiche, familiari, ecc.) del ragazzo aggressivo, che troverebbe nel supporto del gruppo un rinforzo alla sua condotta, ma non un differente meccanismo esplicativo.
In passato, l’influenza del gruppo era concepita soprattutto in termini di ‘effetti disinibitori’, per cui il soggetto era in grado di compiere azioni che altrimenti non avrebbe emesso individualmente (Cairns, Cadwallader, Estell & Neckerman, 1997). In realtà, questo presunto effetto disinibitorio, per quanto invocato frequentemente per spiegare fenomeni tra loro anche molto diversi7, presenta un’intrinseca debolezza concettuale, in quanto per la sua validità presuppone a sua volta l’esistenza di quell’istinto aggressivo, già discusso precedentemente. Infatti, la disinibizione riguarderebbe prevalentemente atti violenti solo se ammettiamo che esista un istinto aggressivo represso e poi disinibito dal gruppo. Ma se, come discusso precedentemente, è oggi ampiamente disconfermata tale idea e se prevale la visione di tendenze prosociali innate, allora dovremmo chiederci: perché il presunto effetto disinibitorio riguarda solo gli atti aggressivi e non quelli prosociali?
Proprio per ovviare a tali debolezze, in questi ultimi anni, anche in base alla rilettura di alcuni studi classici (Milgram, 1975; Zimbardo, 2007), il ruolo del gruppo è stato rivisto maggiormente in termini di ‘depersonalizzazione’ e di ‘normalizzazione’ degli atti devianti (Fedeli, 2011a; 2011b). In altre parole, in assenza di un’identificazione con un insieme di norme morali pienamente interiorizzate, l’individuo tende ad adottare, spesso acriticamente, le norme del contesto relazionale in cui si trova inserito: è quanto dimostrò ad esempio Philip Zimbardo nel famoso esperimento del 1971 presso l’Università di Stanford. In quello studio, condotto con studenti universitari che assumevano il ruolo di carcerieri e di carcerati, si dimostrò come le guardie fittizie tendessero ad assumere rapidamente condotte vessatorie, facilitate in ciò da alcune ‘regole comportamentali’ esistenti presso il finto carcere progettato da Zimbardo8.
Questo processo avverrebbe sostanzialmente in due stadi: nel primo di ‘depersonalizzazione’, il soggetto assume le regole comportamentali del contesto in cui si trova inserito. Nel caso dello studio citati, si trattava delle norme stabilite dal direttore del finto carcere, ossia lo stesso Zimbardo; nel caso di una scuola, potrebbero essere le regole esistenti all’interno del gruppo dei bulli, che richiedono l’esclusione dei compagni avvertiti come deboli o diversi; in una comunità online, potrebbero essere le norme informali che consentono di etichettare in termini negativi alcuni utenti; ecc. Una volta che tali condotte devianti vengono attuate dal soggetto e ripetute nel tempo, si verifica la loro ‘normalizzazione’: ad esempio, in una scuola o in un quartiere ad alto tasso di atti violenti, colpire o denigrare un compagno per il suo colore della pelle potrebbe essere avvertito in qualche modo normale, fisiologico e quindi in fondo accettabile o addirittura auspicabile.
In tal senso, allora, gli atti di bullismo compiuti a scuola non dovrebbe essere interpretati schematicamente come il semplice risultato di problematiche individuali, ma come la manifestazione di sistemi di norme informali che in qualche modo legittimano o addirittura promuovono la violenza. Si tratta di aspetti che spesso vengono sottovalutati dagli adulti con funzioni educative, che da un lato considerano scontate le regole di condotta esistenti a scuola e dall’altro lato non favoriscono la formazione di regole informali prosociali all’interno dei gruppi-classe.

Dal bullo alla vittima

L’ultimo cambiamento di prospettiva riguarda il focus dell’indagine e dell’intervento educativo. Per circa vent’anni, l’attenzione degli studi si è concentrata sulle caratteristiche dell’aggressore e sui meccanismi esplicativi della sua azione: ciò ha prodotto una rilevante quantità di dati e di modelli interpretativi (Fedeli, 2007). Sebbene ciò abbia contribuito ad una più approfondita analisi del fenomeno, rimaneva più debole la capacità predittiva di tali conoscenze: in altre parole, è molto complesso riuscire ad individuare tempestivamente il soggetto che agirà condotte violente, soprattutto quando sono il risultato di stati di forte disregolazione emozionale (Sullivan, 2000; Fedeli, 2013).
Maggiormente promettente, invece, si sta rivelando il percorso opposto, che parte dall’individuazione delle potenziali vittime, ossia di tutti quegli elementi di fragilità che espongono i bambini, fin dalla scuola primaria, al rischio di condotte aggressive da parte dei compagni (Arsenio, 2006). La tabella in fondo alla pagina riporta i principali fattori, che aumentano il rischio di vittimizzazione in età evolutiva (Fedeli, 2011):

Questa nuova prospettiva presenta una serie di significative implicazioni educative, che possono essere riassunte in due punti principali: in primo luogo, si aprono importanti prospettive di prevenzione, fin dalla scuola dell’infanzia, consistenti nell’individuazione dei bambini a rischio di isolamento e di vittimizzazione. I percorsi rivelatisi maggiormente efficaci sono quelli consistenti nel trasferimento di abilità socio-affettive e nel rafforzamento di reti amicali flessibili e plurime (Fedeli, 2007; Sullivan, 2000).
In secondo luogo, questa maggiore focalizzazione sul ruolo di vittima è in sé anche un segnale educativo. Spesso, infatti, in presenza di fenomeni di bullismo a scuola, l’attenzione degli adulti (insegnanti, genitori, ecc.) si concentra sull’aggressore, con domande del tipo: perché ha compiuto quell’atto? Potevamo prevederlo e prevenirlo?


Fattori individuali

(comportamento sociale,
reattività emozionale,
cognizione sociale)

1. Isolamento sociale
2. Aggressività esplosiva non provocata
3. Status sociale ridotto
4. Elevata reattività
5. Ridotta autoregolazione emozionale
6. Emozioni di segno negativo (paura, tristezza, ecc.)
7. Ridotta autostima, affermazioni autosvalutanti
8. Distorsioni attributive di tipo interno

Fattori socio-familiari
(vulnerabilità psicosociale,

pratiche genitoriali, cultura dei pari,

contesto scuola)

9. Condizioni socio economiche avverse
10. Iperprotettività
11. Assenza di responsività emozionale
12. Ridotto monitoraggio
13. Reti amicali povere o rigide
14. Valori accettanti l’aggressività
15. Assenza di procedure preventive o di contrasto
16. Ridotta capacità di monitoraggio


Ed adesso come è preferibile intervenire? In che modo dobbiamo punirlo? Qual è la sanzione più efficace? E quella più giusta? In tutto questo dibattito, la figura della vittima svanisce sullo sfondo così come le possibilità per recuperare il suo benessere emotivo. La prospettiva di partire dalla vittima, allora, non si limita ad un differente approccio di ricerca, ma invia anche un diverso messaggio educativo ai bambini ed ai ragazzi: il benessere e la protezione dei soggetti più fragili rappresentano per l’adulto una priorità, rispetto a qualsiasi azione rivolta ad altri protagonisti dell’atto di bullismo, quale l’aggressore, i complici, ecc.

Conclusioni

La presenza di condotte aggressive in età evolutiva non è una novità di questi ultimi anni: la diffusione di studi sul bullismo ha piuttosto evidenziato una modificazione qualitativa in alcune dimensioni, come ad esempio l’abbassamento pdfdella soglia d’età, l’aumento degli episodi di gruppo, il trasferimento di molte azioni prevaricatrici nel mondo virtuale della rete, ecc. Di fronte a tali evoluzioni non è più possibile adottare schemi interpretativi e modelli d’intervento schematici ed unilineari, in virtù dei quali ad esempio l’atto violento sarebbe il risultato diretto di un qualche problema individuale o di altri fattori isolati dal contesto (l’esposizione ai messaggi dei mass media, le caratteristiche familiari, le problematiche a livello sociale, ecc.). Pertanto, è fondamentale adottare schemi d’analisi multifattoriali e interattivi, sperimentando e testando nuove prospettive di ricerca e di intervento educativo, con particolare attenzione agli approcci preventivi fin dalla primissima infanzia.


Bibliografia

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 NOTE

1. L’attenzione dei media ai casi di bullismo agisce secondo l’effetto ‘spotlight’, ossia una sorta di focalizzazione attentiva differenziale, per cui ciò che è al centro del focus attentivo (in questo caso i singoli fenomeni di bullismo) viene scansionato in modo dettagliato e in qualche modo amplificato, mentre quanto cade fuori del focus (la normale vita scolastica, costituita anche da comportamenti prosociali) rimane sfocato e non viene ulteriormente elaborato (Posner, Snyder & Davidson, 1980).

2. Le principali debolezze concettuali e metodologiche sono riferibili al concetto psicodinamico di ‘pulsione’ (Dettore, 1989): in primo luogo, viene utilizzato in maniera così generalizzata da spiegare qualsiasi fenomeno psicologico (dagli atti aggressivi del bambino alle guerre fino alle opere d’arte e dell’ingegno), perdendo così un reale e verificabile potere esplicativo. In secondo luogo, la rigidità del meccanismo pulsionale (derivato dal concetto etologico di istinto) non consentirebbe di spiegare la flessibilità comportamentale e soprattutto le capacità autoregolative proprie dell’essere umano.

3. Gli studi di Tomasello si concentrano soprattutto sui bambini di età inferiore a 24 mesi.

4. L’aspetto di maggior rilievo e che differenzierebbe in modo netto e stabile l’essere umano dagli altri mammiferi consiste nel fatto che tali azioni prosociali avverrebbero non solo verso membri del proprio gruppo (in-group) ma anche verso individui esterni (out-group), evidenziando quindi come le condotte altruistiche non sarebbero legate solamente al vantaggio evolutivo di sopravvivenza del proprio gruppo di appartenenza.

5. Un modo di ragionare rigidamente ancorato al principio di ‘equità’ è ravvisabile in molti adolescenti violenti, che agiscono in base alla versione ‘occhio per occhio’.

6. Spesso gli adulti, al fine di conferire un maggiore spessore valoriale alle proprie parole, utilizzano il termine ‘giustizia’ invece di ‘equità’.

7. L’effetto disinibitorio del gruppo e della massa è stato invocato per spiegare i fenomeni di violenza negli stadi, durante le manifestazioni pubbliche, negli atti di bullismo scolastico, ecc.

8. È interessante ricordare che Zimbardo ha deciso di raccontare integralmente il suo esperimento, a seguito dell’esperienza come consulente nel corso del processo per i crimini al carcere iracheno di Abu Ghraib, laddove ha ritrovato i processi di depersonalizzazione studiati oltre trent’anni prima a Stanford.

 

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