Lo scorso di mese marzo 2016, la Confederazione Sindacale Internazionale (CSI o ITUC nell’acronimo inglese) ha pubblicato un Rapporto redatto dall’organizzazione indipendente Womens’ Budget Group e intitolato “Investing in Care Economy”, in cui si sostiene la necessità di promuovere con decisione l’investimento pubblico, non tanto in infrastrutture fisiche, quanto in infrastrutture sociali e, in particolare, in quelle afferenti alla cd. economia della cura1.
Riaffermando l’efficacia degli orientamenti macroeconomici keynesiani, il Rapporto CSI promuove l’investimento pubblico e, dunque, lo stimolo della domanda nei settori dell’educazione, della sanità, dell’assistenza all’infanzia, come incentivo alla crescita economica e alla creazione di nuovi posti di lavoro. Da questo punto di vista, secondo il documento, l’investimento nell’industria della cura dovrebbe anche concorrere a ridurre le ineguaglianze di genere nel mercato del lavoro, dispiegando il potenziale impiego di quelle donne che, in assenza di tali infrastrutture organizzate, diventano le maggiori erogatrici di cure non retribuite, soprattutto in favore di bambini, anziani e pazienti di lunga degenza. D’altra parte, l’impiego di personale femminile nell’industria della cura è solitamente più diffuso e, allineandosi alla letteratura precedente su questo tema, il Rapporto sostiene che le donne siano di solito più disposte ad assumere qualsiasi tipo di lavoro a pagamento, purché possano disporre di servizi di assistenza sostitutiva in casa, di qualità adeguata e finanziariamente accessibili2.
Lo studio, condotto su 7 Paesi OCSE – Australia, Danimarca, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti – mostra che un investimento del 2% del PIL favorirebbe la creazione di 21 milioni di posti di lavoro, consentendo così alle istituzioni locali di affrontare la duplice sfida dell’invecchiamento della popolazione e della stagnazione economica. L’enfasi è posta anche sul fatto che tali investimenti contribuirebbero sostanzialmente a ridurre le discriminazioni di genere sul piano retributivo, contenendo, come detto, le ineguaglianze e l’esclusione per così dire “forzata” delle donne dal mercato del lavoro.
Il Rapporto tocca un aspetto di estrema importanza, che è quello della cura, in un contesto storico profondamente influenzato dai cambiamenti demografici in atto. Oggi, per la prima volta, la maggior parte della popolazione mondiale può aspettarsi di vivere oltre i 60 anni di età. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, si prevede che il numero delle persone over 60 raggiungerà 1,4 mld nel 2030 e 2,1 mld nel 2050, destinati presumibilmente a raggiungere i 3,2 mld nel 2100. Questa tendenza è evidente in tutti i Paesi del mondo3. È in crescita anche l’aspettativa di vita a 65 anni, che in quasi tutti i Paesi sviluppati supera i 18 anni per gli uomini e i 20 anni per le donne. Aumentano, quindi, non solo gli anziani, ma anche i grands âgées, cioè i “molto anziani”, gli ultraottantenni che oggi, almeno in Italia, superano il 6% della popolazione e dovrebbero più che raddoppiare nel 20504. Al livello globale, il numero degli ultraottantenni dovrebbe aumentare passando da 125 milioni nel 2015 a 434 milioni nel 2050, raggiungendo, poi, i 944 milioni nel 21005.
Dal punto di vista socio-sanitario, se l’enfasi è in primis sulla prevenzione e sulla promozione di abitudini positive che aiutino a mantenere il più a lungo possibile il buono status psico-fisico dell’individuo, è pur vero che la fase avanzata dell’esistenza viene fisiologicamente caratterizzata da una condizione di cd. “fragilità”. Questa è provocata da uno stato di salute instabile e dalla presenza di morbilità croniche multiple, con conseguenti problemi di mobilità e difficoltà nello svolgimento delle attività della vita quotidiana. Tale fase, che è causa di maggiore vulnerabilità dell’individuo agli stress, rappresenta una situazione complessa, associata a numerose condizioni, che richiede particolare attenzione in termini di cura. Inoltre, a ciò si associa la crescente diffusione di quelle patologie cronico-degenerative, frutto della “transizione epidemiologica” dell’età moderna, che richiedono una tipologia assistenziale di lunga durata, come nel caso delle demenze e, in particolare, dell’Alzheimer (54% di tutte le demenze). Al riguardo, nei Paesi OCSE si stima che, nel 2015, le persone affette da demenza siano state 18 mln, vale a dire più di una ogni 70. In Italia, il Ministero della Salute conferma che studi epidemiologici internazionali prevedono, nel 2020, un numero di casi di persone con demenza di oltre 48 mln (15 mln nei Paesi EU), che potrebbe raggiungere, nei successivi venti anni, una cifra superiore agli 81 mln di persone.
Alla luce di questi dati, appare ancor più significativo il richiamo del Rapporto CSI a riservare una più alta percentuale della spesa pubblica proprio a sostegno dell’industria della cura, incluse le tipologie assistenziali di lunga degenza e le cure di fine vita. Le cure “palliative”, infatti, non sono ancora accessibili a tutti se si considera che solo nell’8,5% dei Paesi del mondo tali servizi sono pienamente integrati all’interno del sistema sanitario6.
Tuttavia, lo studio della CSI presenta almeno due limiti concettuali. Il primo legato alla prospettiva di genere, che nella nozione di “economia della cura” tende a riorientare l’attenzione sulle ineguaglianze e sulle discriminazioni tra i sessi nel mercato del lavoro, enfatizzando il ruolo prevalente della donna nell’erogazione dei servizi di cura (formali e non), a scapito di una maggiore attenzione alle esigenze di cura che scaturiscono dalla “fragilità” quale condizione propria di ogni essere umano, caratterizzato da una intrinseca dipendenza, che qui potrebbe essere definita “creaturale”. In questo senso, acquista rinnovata rilevanza la prospettiva di E.F. Kittay. La filosofa americana, infatti, rileva che, nella storia di vita di ciascun individuo, esistono precise condizioni in cui è impossibile evitare la dipendenza, e tra queste, evidentemente, l’età avanzata. Ma Kittay va oltre e procede pure a sottolineare che, essendo la dipendenza dell’essere umano inevitabile come la nascita e la morte – pur se condizionata da fattori-socio-culturali – il prendersi cura delle persone dipendenti diventa un segno che distingue e determina la nostra umanità7. Pertanto, l’“economia della cura” dovrebbe considerarsi parte integrante di qualsiasi sistema economico, quale settore rivolto alla soddisfazione dei bisogni primari di assistenza e caring della persona, in condizioni di naturale e condivisa vulnerabilità dovuta a fattori contingenti quali, ad esempio, l’età, la malattia, o la disabilità,
I cambiamenti demografici sopra descritti obbligano le istituzioni di ogni Paese a rivedere le proprie politiche sociali in modo da poter rispondere adeguatamente alle esigenze che nascono ordinariamente da tale condizione, propria della vita di ogni membro della società e, oggi, condivisa contemporaneamente da un numero più esteso di persone. La promozione di investimenti finanziari nell’industria della cura diventa, dunque, esigenza primaria di un sistema sociale che si ponga l’obiettivo di perseguire il bene comune e di garantire il benessere, oltreché il diritto di accesso alle cure dell’individuo in ogni fase della sua esistenza. Sebbene le donne siano tradizionalmente più direttamente coinvolte nel “lavoro di cura”, come riconosce lo stesso Magistero sociale della Chiesa8, le nuove esigenze legate ai cambiamenti demografici implicano in questo senso un più profondo cambiamento attitudinale e culturale nella società civile, che coinvolga uomini e donne, entrambi ugualmente chiamati, in base al principio della reciprocità, al servizio dei più fragili, come sostenuto anche da J. Nedelski9.
Il secondo limite del Rapporto CSI sta, invece, nel proporre quale soluzione preferenziale un incremento dell’investimento pubblico a favore dell’erogazione di servizi di cura (“collectivised care services”), che rischia di penalizzare uno dei principi cardine dei moderni ordinamenti istituzionali, ovvero quello della sussidiarietà. Proprio nell’ambito della cura, infatti, già di grande rilevanza è l’apporto di molteplici comunità intermedie – di tipo familiare, di vicinato, cooperative, religiose, fondazioni – che hanno una valenza pubblica e operano proprio in base al principio della sussidiarietà.
In questo ambito, contraddistinto anche da attività caratterizzate dalla solidarietà sociale fondata sulla carità cristiana e sulla filantropia laica, dovrebbe piuttosto concentrarsi l’attività di garanzia e supervisione dello Stato, affinché venga accresciuta la capacità di tali soggetti di diventare partner attivi, sia nel processo di programmazione degli interventi che nelle scelte strategiche, come avallato anche dai fautori di un modello civile di welfare. In tal modo rimane pure intatta la libertà di scelta dei soggetti portatori di bisogni, tra una pluralità di soggetti erogatori di cura, profit e non profit, in una sorta di “competizione” non più ancorata al prezzo del servizio, ma alla tipologia dell’offerta e alla sua qualità10.
Il Rapporto CSI, quindi, ha certamente il merito di richiamare l’attenzione sulla crescente importanza dell’economia della cura nelle società moderne. Questa, tuttavia, dovrebbe potersi liberare dal focus sulle discriminazioni di gender che l’ha caratterizzata finora, per spostarsi progressivamente verso un’attenzione più marcata sul servizio alla persona, negli inevitabili stadi di fragilità e dipendenza – temporanei o permanenti – che si succedono nel continuum dell’esistenza di ogni individuo, uomo o donna che sia. Questa diversa enfasi, unita ad una più decisa promozione dell’investimento pubblico a sostegno dei corpi intermedi che già offrono un contributo essenziale nell’industria della cura, potrà meglio favorire la diffusione di elementi quali la reciprocità non strumentale, il dono e la cooperazione, che si rivelano necessari a sostegno della solidarietà intragenerazionale e contro la “cultura dello scarto”.
NOTE
1. ITUC, Investing in the Care Economy. A gender analysis of employment stimulus in seven OECD countries, p.12.
2. Ibidem. Cfr. anche Razavi S., The Political and Social Economy of Care in a Development Context, United Nations Research Institute for Social Development (UNRISD), 2007; Naldini M., Le politiche sociali in Europa. 4° ed., Carocci, Roma 2010, pp. 91-120. Come sottolinea Naldini, il tema della cura in ambito familiare è stato inizialmente oggetto di studi socio-economici di matrice femminista, che hanno messo in luce come il lavoro di cura non remunerato sia fondamentale per il benessere individuale e collettivo della società. D’altra parte, i medesimi studi hanno anche affermato che esso, pur essendo un elemento cruciale del welfare, contribuirebbe in maniera negativa alla subordinazione e alla dipendenza delle donne.
3. World Health Organization (WHO), Draft 0: Global Strategy and Action Plan on Ageing and Health: www.who.int.
4. OECD, Health at a Glance 2015, p. 193; Pugliese E., La terza età. Anziani e società in Italia, Il Mulino, Bologna 2011, p. 22.
5. United Nations Department of Economics and Social Affairs/Population Division, World Population Prospects: the 2015, Revision, Key findings and Advance Tables, p. 9.
6. Lynch T. et al., Mapping Levels of Palliative Care Development: a Global Update, “Journal of Pain and Symptom Management” 45/6 (2013), pp. 1094-1106.
7. Cfr. Kittay E.F., La cura dell’amore, Vita e Pensiero, Milano 2010, pp. 51-52.
8. Cfr. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, #251.
9. Cfr. Bruni L., I care. Il segreto del successo (intervista a Jennifer Nedelski), in “Avvenire”, 4 ottobre 2015.
10. Cfr. Bruni L. e Zamagni S., Economia civile, Il Mulino, Bologna 2004, pp. 224-231.