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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

Nel corso della mia vita professionale, sono stato tra l’altro per molti anni giudice di sorveglianza del Tribunale per i minorenni. Cerco di raccontare cosa ho potuto vedere e sperimentare quando abbiamo richiesto ai giovani che avevano commesso reati ed erano stati perciò condannati o sottoposti a misure di sicurezza di diventare responsabili della loro rieducazione perché la società ne aveva bisogno per poter sperare di progredire.

Il primo passo, impostando il lavoro come giudice, è stato di tipo giuridico, ma questa è stata solo la scintilla iniziale.

Molti sanno che l’art. 27 della Costituzione prescrive tra l’altro che “le pene … devono tendere alla rieducazione del condannato”. A quasi tutti sembra una bella prospettiva; ma immaginano che questo impegno riguardi solo il sistema carcerario che deve organizzarsi per puntare alla risocializzazione e alla crescita umana dei detenuti che in questo modo sono visti solo come soggetti che necessitano di assistenza.

Questo è vero, ma rappresenta una verità parziale e, come tutte le verità parziali, rischia di essere controproducente rispetto al risultato finale che si vuole raggiungere.

Il percorso che mi è capitato di sperimentare ha cercato di valorizzare un significato più profondo e completo di quella norma, partendo da quelli che la Costituzione definisce i “principi fondamentali”. Quelli che, nel corso dell’Assemblea Costituente, sono stati definiti “il volto della Repubblica”, perché il volto è quella parte di noi che manifesta in modo significativo la nostra personalità a chi incontriamo. Questi principi servono anche per capire e interpretare al meglio tutta la Costituzione.

Basta ricordarne qui due: “la Repubblica – si dice nell’art. 2 – riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e” – attenzione – “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale”. Si capisce subito che, definendoli inderogabili, si pensa che nessuno, in nessuna situazione possa sottrarsi a questi doveri di solidarietà, che perciò interessano e coinvolgono anche chi sia per avventura, in un certo momento della vita, detenuto. Inoltre “ogni cittadino – si dice nell’art. 4 – ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Ed è evidente che anche questo appello all’impegno, intelligentemente proporzionato alle proprie possibilità, riguarda tutti, nessuno escluso.

Si capisce da queste norme (e se ne potrebbero a questo scopo citare molte altre) che i Costituenti erano convinti che, per poter far progredire la società e garantire una vera democrazia, non fosse sufficiente costruire buone istituzioni, ma fosse necessario coinvolgere tutti in un progetto basato su una responsabilità comune.

Insomma, che non esiste una “parte sana” della nazione che possa fare a meno della parte in difficoltà. In qualche modo una visione analoga a quella immaginata dal poeta-filosofo Khalil Gibran quando, pensando al fatto che il genere umano era formato da uomini e donne, diceva che l’umanità era come un uccello che non poteva volare con una sola ala ma aveva bisogno di entrambe. La società non può volare scartando qualcuno e credendo di poter fare a meno di lui.

Allora, la rieducazione di cui parla l’art. 27 della Costituzione da una parte è un impegno per chi in quel momento si trova ad essere nella parte ritenuta “normale” della nazione, affinché si apra, dia fiducia ed aiuto a chi in quel momento è invece in difficoltà, per esempio per aver commesso dei reati, ma dall’altra rappresenta anche un forte appello a chi è stato condannato, perché capisca che si deve scuotere perché senza il suo impegno, le sue doti ed i suoi sacrifici, rivolti a fini costruttivi, la comunità nazionale non può progredire.

Se ci si pensa bene, la Costituzione propone una rivoluzione (che gli eruditi definirebbero copernicana): non più solo “i buoni cittadini” chiamati ad aprirsi ed aiutare “i cattivi”, sia pure “benignamente” considerati capaci di un positivo reinserimento sociale, ma questi ultimi chiamati a dare una mano agli altri perché quelli da soli non ce la possono fare. Perché la società è di tutti e veramente c’è bisogno di tutti. È proprio quello che pensavano i costituenti. Ognuno può divenire in certi momenti un problema per la società, ma contemporaneamente ognuno può essere una gran risorsa quando serve di rimettere le cose a posto.

Questa impostazione è risultata rapidamente convincente per tutti gli operatori, professionali e volontari, ma soprattutto ha fatto breccia nell’atteggiamento dei giovani detenuti.

Si sono sentiti investiti non tanto di progetti assistenziali, ma di responsabilità (parola che viene dalla stessa radice del verbo rispondere: significa quindi dare una risposta ad una richiesta). Credo abbiano capito che si aveva vera fiducia in loro, proprio perché non si manifestavano atteggiamenti permissivi e lassisti nei loro confronti. C’erano progetti da realizzare e cose da fare e si capiva che ci si aspettava da loro un contributo serio, senza il quale quelle imprese non sarebbe comunque riuscite. Il messaggio era di comprensione e benevolenza per le debolezze e le difficoltà, ma di serietà e rigore rispetto agli impegni attuali e futuri. Non era bene cedere ad un buonismo deresponsabilizzante in caso di scarso impegno, perché questo faceva male a tutti e non ce lo si può permettere di fronte ai traguardi da raggiungere. Si organizzavano ad esempio spettacoli, impegnando chi frequentava la scuola media (per recuperare gli anni persi) per la preparazione dei testi e chi frequentava i corsi professionali (elettricisti e falegnami) per la realizzazione di palchi con strutture quasi imprevedibili ed impianti luci innovativi.

Sceglievamo poi per l’inserimento dei giovani per licenze e simili, solo comunità che richiedessero impegni seri e concreti. E così via per tutte le cose che si facevano.

Non è ovviamente possibile dire quali risultati di lungo respiro vi siano effettivamente stati, perché i risultati più profondi in educazione non sono misurabili, ma posso testimoniare che il clima era veramente costruttivo e che si sono tangibilmente verificati almeno due fenomeni: da una parte una forte diminuzione delle tensioni dei detenuti tra loro e con il personale di custodia ed educativo, dall’altra una caduta verticale delle trasgressioni rispetto ai termini di rientro in istituto al termine di permessi, licenze e simili ed agli impegni da affrontare all’esterno.

Anche gli psicologi riferivano come alcuni dei ragazzi con maggiori difficoltà e problemi apprezzassero che “li si prendesse sul serio” e non si guardasse loro come casi clinici e soggetti deboli e perciò non abbastanza affidabili, ma come persone a cui si chiedeva aiuto e che per questo dovevano attrezzarsi e crescere per riuscire ad essere utili e fare la loro parte. L’essenziale credo fosse riuscire a far sentire – che è qualcosa di più rispetto al solo capire – che, almeno per alcuni aspetti e particolari, nelle cose che si facevano non erano sostituibili e il loro contributo era atteso dagli altri come essenziale. E d’altra parte questo era vero anche per tutti quelli che avevano, o per lavoro o per impegno volontario, un ruolo in quel processo di rieducazione. Tutti da questo punto di vista si sentivano alla pari, semplicemente perché lo erano davvero rispetto ad un impegno comune.

Naturalmente non si deve cadere in ottimismi eccessivi e credere che tutto fosse risolto e semplice, perché al contrario nulla è stato mai facile e risolutivo. Si dovrebbe però riflettere sul fatto che l’importante non era la grandiosità del risultato da perseguire, ma l’attenzione posta nel riuscire a far sentire il più possibile ciascuna persona coinvolta come importante rispetto al traguardo da raggiungere. Sottolineando di nuovo che ciò si ottiene semplicemente perché deve essere vero. È inutile – anzi dannoso – credere di raggirare le persone sul piano della verità educativa. L’obiettivo era far comprendere a ciascuno che aveva doni e capacità personali che egli per primo sottovalutava e poi che solo lui poteva fare la sua parte, per piccola che apparisse. Anche oggi, solo seguendo un percorso del genere si può arrivare alla responsabilità verso una cittadinanza attiva di tutti, senza la quale la società non potrà risolvere i suoi problemi. Oggi è difficile comprenderlo, perché viviamo in società vastissime e complesse, ma rimane vero.

Forse si può concludere ricordando la riflessione di un saggio “maestro” ebreo che in punto di morte si racconta abbia detto: nel mondo futuro non mi si chiederà: ‘perché non sei stato Mosè?’; mi si chiederà invece: ‘perché non sei stato te stesso’1? E la nostra Costituzione sottolinea che, per trovare sé stessi, la via è quella di saper assumere le responsabilità che ci spettano verso gli altri. Credo sia di grande stimolo per chiunque cerchi di reinserirsi positivamente nella vita propria e della società sapere che si ha bisogno del suo impegno positivo e totale, perché senza di questo non solo lui, ma anche tutti gli altri non ce la possono fare.

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1 Dal libro “Il cammino dell’uomo” di Martin Buber, importante filosofo, teologo e pedagogista austriaco del ‘900.

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