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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

UN PROFONDO SENSO DI INSICUREZZA

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Sebbene a una prima lettura queste parole possano essere scambiate per una mera espressione ideale, in realtà esse definiscono il “fine rieducativo della pena” stabilito dall’art. 27 della Costituzione italiana.

Nonostante questo principio sia noto e, soprattutto, discusso, non sempre emerge come quello della rieducazione sia l’unico riferimento diretto che la nostra Carta Fondamentale compie rispetto alla funzione della pena. (Zanirato, 2013)
E’ un principio alto, espresso a partire dai lavori dell’Assemblea Costituente dai suoi relatori, Lelio Basso e Giorgio La Pira,1 personalità di formazione ed appartenenza politica diametralmente opposta ma accomunati da una profonda tensione morale.

Un principio che ci richiama al primato della persona e all’idea per cui il diritto sia uno strumento a servizio dell’uomo, anche quando questo provenga da situazioni di devianza, per superare le quali egli deve certamente assumersi le proprie responsabilità ma nella prospettiva di potersi re-inserire nel sistema sociale.

E’ difficile affermare il senso rieducativo della pena in un’epoca come questa, segnata da una percezione di insicurezza diffusa a livello globale certificata, ad esempio,  dal recente studio “What Worries the World”, nel quale criminalità e violenza risultano la terza problematica maggiormente riscontrata dai cittadini all’interno dei propri Paesi dopo disoccupazione e, a pari merito, corruzione e povertà (IPSOS, 2016).2
L’Italia non è certamente immune da questa percezione e, del resto, la delittuosità nel nostro Paese non è certamente marginale.

Dai dati ufficiali, resi noti dal Viminale lo scorso agosto, si evince ad esempio che, tra il 1 agosto 2015 ed il 31 luglio 2016, sono stati commessi 1.346.501 furti; 32.192 rapine e 398 omicidi.

Tuttavia l’andamento della delittuosità è andato decrescendo e, rispetto alla rilevazione precedente (agosto 2014-luglio 2015), si è ridotta del 7%, mentre gli omicidi si sono ridotti dell’11,3%, le rapine del 10.6% e i furti del 9,2%.3
Eppure, nel 2016, il problema più diffusamente avvertito dalle famiglie (38,9%) con riferimento alla zona in cui vivono è il rischio criminalità (ISTAT, 2016).4
Certamente i dati statistici e le valutazioni su percezioni, per quanto importanti, non possono rappresentare a pieno la complessità della realtà in cui viviamo.

Sarebbe dunque sbagliato utilizzare queste cifre per speculazioni demagogiche o sterili polemiche sulle paure delle persone o sul ruolo dei media (anche se qualche riflessione in più non guasterebbe).

Occorrerebbe invece usare questi dati per infondere coraggio nelle comunità e cogliere l’opportunità per definire in modo più maturo le nostre idee circa la  sicurezza e la giustizia, idee che possono affermarsi davvero solo se si allarga lo sguardo e si comprende come la soluzione ai problemi della devianza non possa essere offerta dalla mera repressione penale, ma richieda l’impegno di tutta la comunità.


LA SITUAZIONE CARCERARIA IN ITALIA

Purtroppo, ad oggi, il reo è spesso percepito come un soggetto estraneo alla comunità, la cui esistenza può essere compresa solo se circoscritta al carcere.
Lo scorso luglio, l’associazione Antigone ha documentato come, alla data del 30 giugno 2016, le persone detenute nel nostro Paese fossero 54.072, rispetto ai 52.754 dello stesso periodo del 2015, con una crescita di 1.318 unità che porta l’Italia ancora più lontana dal rispetto della capienza regolamentare definita dal Ministero della Giustizia, pari a 49.701 posti.
Riprende dunque corpo il tema del sovraffollamento, specie se si considera che, negli ultimi sei anni, gli istituti penitenziari siano passati da 209 a 193 per esigenze di razionalizzazione.
Antigone, inoltre, rileva come cresca il numero dei detenuti in custodia cautelare: al 30 giugno 2016 erano infatti 9.120 i detenuti in attesa di primo giudizio (contro gli 8.878 al 30 giugno 2015); erano 4.566 i detenuti appellanti (contro i 4.618 del 30 giugno 2015); erano 3.841 i ricorrenti in cassazione (contro i 3.107 dell’anno prima); erano 1.381 i detenuti con più posizioni giuridiche contemporanee (contro i 1.227 dell’anno precedente).
Complessivamente si parla di 18.908 detenuti in custodia cautelare, il 34,9% della popolazione detenuta, con una crescita dell’1,2% rispetto alla rilevazione dell’anno precedente.5

LA DIGNITA’ DEL LAVORO

Nelle condizioni qui brevemente ricordate, l’esperienza carceraria rischia di trasformarsi in esperienza alienante, tale da rendere impossibile il reinserimento.
Fortunatamente, anche il nostro ordinamento ha riconosciuto la rilevanza del lavoro e della formazione professionale a beneficio dei detenuti.

L’art. 15 della legge sull’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975 n. 354), individua infatti il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato sia assicurata un’occupazione lavorativa.

L’art. 20 sottolinea l’obbligatorietà delle misure previste per cui, negli istituti penitenziari, deve essere favorita la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi professionali.
Si possono a tal fine stipulare rapporti con aziende pubbliche o private convenzionate così come con l’ente regionale, al fine di organizzare negli istituti lavorazioni o corsi professionalizzanti.

L’organizzazione di tali attività costituisce un “obbligo di fare” in capo all’Amministrazione penitenziaria e non rappresenta un inasprimento della pena; il lavoro deve essere remunerato in base alla sua quantità e qualità (in misura non inferiore ai 2/3 del trattamento economico previsto dal CCNL) e riconoscendo le dovute garanzie assicurative, previdenziali e contributive.

Si specifica che l’organizzazione e i metodi debbano riflettere quelli della società libera, allo scopo di preparare i detenuti alle normali condizioni di lavoro e favorire così il loro reinserimento sociale.

Le opportunità lavorative possono essere definite all’interno del penitenziario, sia alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria che alle dipendenze di terzi, tra cui cooperative sociali, le quali organizzano lavorazioni realizzate in locali concessi in comodato alle direzioni.

In questi casi, il rapporto di lavoro intercorre tra il detenuto e le imprese che gestiscono l’attività lavorativa, le quali sono a loro volta convenzionate con le amministrazioni penitenziarie.

In materia di lavoro penitenziario, una importante evoluzione è stata resa possibile attraverso la Legge n. 193 del 22 giugno 2000 (c.d. “Legge Smuraglia), con la quale è stata modificata la definizione di “persona svantaggiata” contenuta nella normativa sulle cooperative sociali, aggiungendo la categoria delle “persone detenute o internate negli istituti penitenziari”, ed estendendo altresì gli sgravi contributivi già previsti per le cooperative anche a beneficio di aziende pubbliche o private che organizzino attività produttive o di servizio all’interno degli istituti penitenziari impiegando persone detenute o internate.6

Naturalmente sussistono anche opportunità di lavoro ed attività formative esterne al carcere, in contesti nei quali è altresì possibile prestare la propria attività a titolo volontario e gratuito in progetti di pubblica utilità a favore della collettività.7

Nonostante i passi avanti compiuti dalla normativa il lavoro in carcere continua a scarseggiare.

Nel rapporto “Galere d’Italia”, l’Associazione Antigone ricorda che solo il 29,73% dei detenuti è impegnato per attività lavorative e, di questi, solo il 15% è alle dipendenze di un datore di lavoro privato.

Come rilevato recentemente dalla coordinatrice dell’associazione, Susanna Marietti, la stragrande maggioranza dei detenuti <<lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, impiegata in attività domestiche del tutto dequalificate>>.

Si rileva come chi lavori in carcere sia occupato spesso per poche ore al giorno, per pochi giorni a settimana, per poche settimane al mese, guadagnando  in media 200 euro mensili.

Ricordando le parole espresse dal Presidente della Repubblica per la festa del Corpo della Polizia Penitenziaria, Marietti ha rimarcato l’importanza dell’apertura alla società esterna, tenuto conto dei dati che dimostrano come, tra coloro i quali scontano parte della pena in misura alternativa, il tasso di recidiva cada in picchiata.8


UNA FINANZA PER LA RIEDUCAZIONE SOCIALE

Le ristrettezze delle finanze pubbliche e la crisi economica rendono certamente difficile tanto per il pubblico quanto per il privato offrire il proprio contributo alla rieducazione sociale.

Occorre tuttavia riscontrare che, ad oggi, per le misure alternative, l’Amministrazione penitenziaria spenda meno del 5% del bilancio, il quale viene dunque dedicato in larghissima parte alla gestione del sistema carcerario.9
Il cambiamento dei bilanci pubblici, tuttavia, non sono mai una causa ma una conseguenza di scelte politiche che, come tali, possono avvenire solo a seguito di un cambio di visione culturale che investa tutti i soggetti sociali.
Andrebbe probabilmente rubricata come illusoria qualunque visione tesa a delegare al solo legislatore la definizione di soluzioni normative e amministrative adeguate ed effettive.

Occorre invece un rinnovato impegno dei soggetti della comunità, a cominciare dai soggetti del privato sociale, del profit e della finanza, i quali devono collaborare con le istituzioni nella ridefinizione di politiche di welfare, anche per il contrasto della devianza.

In Europa un primo esempio di questo approccio è stato dato realizzato attraverso i Social Impact Bond inglesi.

Questi strumenti finanziari, noti anche come “pay for success bond”, sono obbligazioni attraverso le quali il settore pubblico raccoglie investimenti privati per pagare chi gli fornisce servizi di welfare.

La remunerazione del capitale investito viene agganciata al raggiungimento di un certo risultato sociale; infatti, partendo dal presupposto per cui se si risolve un problema sociale, si evita un costo per la società, tale minor costo diviene risparmio utilizzabile dalla pubblica amministrazione per remunerare gli investitori.

Il primo Social Impact Bond (SIB) è nato proprio con riferimento al tema delle carceri, attraverso un progetto avviato nel 2010 e rivolto al carcere di Peterborough (Cambridgeshire).

Il progetto è stato dedicato al reinserimento di tremila detenuti, condannati a pene inferiori a dodici mesi.

Diciassette investitori, quasi tutti fondazioni ed enti filantropici, acquistarono SIB per un valore di 5 milioni di sterline, investendo nel perseguimento dell’obiettivo di vedere il tasso di recidiva scendere, al 2016, del 7,5%,  misura che avrebbe consentito la remunerazione dell’investimento (fino a un massimo di 8 milioni di sterline), garantito al 37,5% dal Ministero della Giustizia e al 62,5% dal Big Lottery Fund, istituto pubblico che redistribuisce per scopi benefici una parte degli incassi della lotteria nazionale.

Il progetto venne però interrotto prima della conclusione, a seguito della decisione del Ministero della Giustizia di modificare il sistema di inserimento sociale dei detenuti.

Va peraltro detto che gli esperti non mancano di sottolineare anche le criticità del modello dei SIB, pur riconoscendo in esso uno strumento di promozione dell’innovazione sociale.

Quasi tutto il rischio, infatti, è posto in capo ai finanziatori: se l’obiettivo non viene raggiunto, essi non riceveranno i loro rendimenti e, in alcuni casi, non avranno indietro nemmeno il capitale investito (Cavadini, 2016).

Si deve altresì considerare la difficoltà di individuare un modo preciso ed inequivocabile per misurare l’impatto sociale.

Se si pensa poi all’applicazione di questi strumenti in Italia, occorre fare i conti con le rigidità della disciplina dei contratti pubblici e con i precisi obblighi di rendicontazione previsti. 10


LA VIA DIFFICILE MA NECESSARIA DELL’APPROCCIO MULTISTAKEHOLDER

Il 17 maggio 2014 è entrata in vigore la Legge 14 aprile 2014 n. 64 nominata: “Deleghe al Governo in materia di  pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili”.

Il Capo II della Legge ha introdotto la sospensione del procedimento con “messa alla prova”, istituto che nel nostro Paese esisteva già da tempo per i minori (D.P.R. n. 448/1988) ma che, con la legge del 2014, è stato per la prima volta definito anche a beneficio di imputati maggiorenni.

La misura si applica alle persone accusate di reati minori (ossia reati per i quali è prevista una pena detentiva di massimo quattro anni), le quali potranno chiedere la sospensione del procedimento penale a loro carico al fine di essere affidati all’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (UEPE) per lo svolgimento di una serie di attività di pubblica utilità, l’attuazione di condotte riparative delle conseguenze dannose del reato, il risarcimento del danno cagionato e, laddove possibile, la mediazione con la vittima.

L’applicazione della misura è stata resa possibile dall’approvazione del Decreto del Ministero della Giustizia n. 88 dell’8 giugno 2015, entrato in vigore lo scorso luglio.11

Numerose realtà del mondo non-profit, a seguito delle convenzioni attivate presso i Tribunali, hanno dato la loro disponibilità ad avviare tali attività.

Al 30 giugno 2016, secondo Antigone, questa pratica vedeva coinvolti 8.560 adulti (erano 3.696 al 30 giugno 2015), mentre altre 10.773 erano sotto indagine da parte dei servizi sociali per decidere dell’applicabilità dell’istituto.12
Si tratta di un passo avanti importante nella promozione di una giustizia riparativa, capace di promuovere un concetto di sicurezza che nasce dalla prevenzione della devianza, cercando di evitare a chi è accusato di aver commesso reati minori, di perdersi nei circuiti di devianza che talvolta possono trovare terreno fertile anche nelle carceri, a causa delle difficili e ben note condizioni di insostenibilità del nostro sistema detentivo.

Per la buona riuscita di questi percorsi, specie di quelli che auspicabilmente potrebbero portare alla conciliazione con la vittima, non può rendersi sufficiente l’impegno delle istituzioni e dei bilanci pubblici.

Si tratta di un percorso che occorre sostenere con progettualità innovative, nelle quali un ruolo importante potrebbe essere svolto proprio dal mondo della cooperazione sociale, anche in considerazione delle nuove prospettive aperte alle imprese sociali dalla recente Legge Delega di riforma del Terzo Settore (Legge n. 106/2016, in attesa dei decreti attuativi sull’impresa sociale). In particolare, l’art. 9.1.f ha previsto per le imprese sociali la possibilità di accedere alla raccolta di capitali di rischio tramite portali telematici (equity crowdfunding) ed a misure agevolative volte a favorire gli investimenti di capitale.13

Si aprono dunque prospettive di innovazione sociale nelle quali diviene importante il rapporto tra imprenditoria sociale e pubblica amministrazione, ma diviene altresì possibile sperimentare partenariati con il mondo delle imprese civili e responsabili, sempre più spinte a pratiche di sostenibilità.

La finanza, al di là degli strumenti tecnici con i quali potrà intervenire per il contrasto14 e la prevenzione della devianza, è certamente chiamata a dare il proprio contributo alla sfida difficile ma irrinunciabile (per il bene di tutti) dell’inclusione sociale

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1 Arianna Zanirato, La funzione rieducativa della pena e le alternative al carcere. Tesi di Laurea, Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza, Anno Accademico 2012/2013, testo disponibile sul portale “Ristretti.it” al seguente link http://www.ristretti.it/
2 Ipsos, What worries the world, September 2016 http://www.ipsos.it/ slide 2
3 Ministero dell’Interno, Dal Viminale. Un anno di attività del Ministero dell’Interno, 15 agosto 2016, http://www.interno.gov.it/
4 ISTAT, La soddisfazione dei cittadini per le condizioni di vita (anno 2016), http://www.istat.it/ pag. 15
5 Secondo il dossier di “Ristretti Orizzonti” intitolato “Morire di carcere”, nel 2016 vi sono stati 23 suicidi nelle carceri italiane. Su questi e altri importanti dati si rimanda a Antigone, Antigone nelle carceri italiane. Pre-rapporto 2016 sulle condizioni di detenzione, Roma 28 luglio 2016 http://www.associazioneantigone.it
6 Provvedimenti più recenti (Decreto Ministero della Giustizia n. 148/2014) ha ulteriormente definito le forme di incentivazione (credito di imposta) a beneficio delle imprese che assumono e di quelle che si impegnano in attività formative a condizione che questa comporti l’immediata assunzione dei detenuti o internati, anche semiliberi o lavoranti all’esterno per un periodo minimo corrispondente al triplo del periodo di formazione oppure per le imprese che svolgono attività di formazione a detenuti o internati da impiegare in attività lavorative gestite in proprio dall’amministrazione penitenziaria.  Ministero della Giustizia, Lavorare con i detenuti, 7 dicembre 2016 https://www.giustizia.it/
7 La normativa prevede dei limiti all’ammissione al lavoro all’esterno applicati ai condannati per reati associativi o altri reati di grave allarme sociale, i quali possono essere assegnati al lavoro all’esterno solo dopo aver espiato almeno un terzo della pena o comunque non più di cinque anni; gli ergastolani possono essere ammessi dopo almeno dieci anni di pena. Non possono essere assegnati al lavoro all’esterno per svolgere lavori a titolo di volontariato i detenuti e gli internati per il delitto di associazione di stampo mafioso e per reati commessi per favorire le attività di tipo mafioso. Ministero della Giustizia, Lavoro in carcere, novembre 2014 https://www.giustizia.it/
8 Susanna Marietti, Carceri, Mattarella ha ragione: più lavoro ai detenuti fa calare la recidiva, Il Fatto Quotidiano  - Blog, 8 giugno 2016 http://www.ilfattoquotidiano.it/
9 Antigone, assieme ad altre associazioni, ha proposto di portare la dotazione del bilancio dedicata alle misure alternative al 20% del totale. Antigone, Antigone nelle carceri italiane. Pre-rapporto 2016, op. cit.
10 Per queste ed altre considerazioni, incluse le valutazioni di Aldo Cavadini (Sodalitas), si veda Valentina Neri, Social Impact Bond, quando risolvere un problema sociale significa guadagnare, Lifegate, 25 novembre 2016 http://www.lifegate.it/ Rispetto alle sperimentazioni in atto si possono segnalare tanto quelle del mondo privato (es. UBI Banca), quanto quelle del pubblico (la recente istituzione di un Fondo di Social Impact Investing in Sardegna)
11 Per maggiori informazioni si veda Ministero della Giustizia, Scheda Pratica – messa alla prova, 20 maggio 2015 https://www.giustizia.it/
12 Antigone, Antigone nelle carceri italiane. Pre-rapporto 2016, op. cit.
13 Il testo della legge è disponibile al seguente link http://www.gazzettaufficiale.it/
14 Banca Popolare Etica ha recentemente promosso, nell’ambito del proprio progetto di promozione del crowdfunding “IMPACT+”, l’iniziativa “CampoAperto: lavoro e agricoltura biologica nel carcere di secondigliano”. Il progetto, inizialmente selezionato, pur non essendo rientrato tra quelli che, avendo raggiunto il 75% di raccolta autonoma via crowdfunding, hanno beneficiato del contributo del restante 25% ad opera del Fondo per il microcredito e il crowdfunding, creato volontariamente dai clienti di Etica SGR (i quali hanno deciso di donare lo 0,1% del capitale sottoscritto), ha potuto comunque realizzare la propria raccolta di donazioni. Per maggiori informazioni sul progetto si veda la pagina dedicata su Produzioni dal Basso (portale di crowdfunding reward e donation basata su donazioni libere), https://www.produzionidalbasso.com/

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