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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

"Mi volevo scusare con voi per quello che ho fatto, parlo del giorno in cui mi sono allontanato dalla Comunità, credetemi non volevo prendervi in giro ma ho deciso di andare avanti come meglio credevo, anche se ho sbagliato…”
Con queste parole inizia la lettera che, qualche tempo fa, un ragazzo di cui mi ero occupato nel mio lavoro educativo mi ha inviato dall’ Istituto Penale Minorenni, dove era definitivamente tornato, dopo il fallimento del programma di rieducazione avviato in comunità.

Arrivato in comunità dopo un primo periodo già trascorso in carcere, il ragazzo, imputato di tentato omicidio (reato che aveva commesso con particolare efferatezza e che solo fortuitamente non aveva avuto conseguenze peggiori), aveva incontrato non poche difficoltà nell’adeguarsi alle regole della vita comunitaria manifestando spesso intemperanza, ribellione e aggressività.

Nonostante i numerosi richiami si rifiutava di partecipare alle attività, di assumere qualsivoglia impegno personale e di assolvere ai normali doveri della vita in comune.

Per questi motivi, per ben due volte, avevo chiesto al Giudice un aggravamento temporaneo della misura (30 giorni di carcere ogni volta) nel tentativo di indurlo ad un atteggiamento più disponibile e collaborativo.

Perciò, sebbene i miei numerosi interventi fossero stati sempre improntati a sincero interesse, attenzione e disponibilità nei suoi confronti, tuttavia è innegabile che essi si fossero, in ultima analisi, caratterizzati prevalentemente come punizioni, proprio in ragione delle misure restrittive cui avevo chiesto che fosse sottoposto.

Rientrando in comunità dal secondo periodo di aggravamento lui stesso, però, mi aveva comunicato di voler cambiare atteggiamento e aveva assunto l’impegno di una maggiore adesione al piano trattamentale.

In effetti nei mesi che seguirono il suo atteggiamento mutò radicalmente e, sebbene non senza difficoltà, il suo comportamento fu molto diverso, mutato al punto che alcuni colleghi del carcere, incontrandolo durante un campo scuola, mi confidarono di aver stentato a riconoscerlo nel giovane educato e disponibile che si erano trovati di fronte.

Tuttavia, dopo circa otto mesi da questo positivo mutamento, il ragazzo metteva in atto un improbabile tentativo di allontanamento dalla comunità che,  prontamente sventato senza alcuna difficoltà dal personale di sorveglianza, gli costava il definitivo rientro in carcere.

Non avevo ancora smesso di interrogarmi sulla vicenda analizzando gli eventi che si erano susseguiti nel periodo trascorso in comunità e cercando di capire fino a che punto la mia azione educativa fosse stata utile, efficace e perché  avesse dato solo risultati parziali, quando ricevetti la lettera che, in qualche modo mi offrì una chiave di lettura della situazione e, per certi aspetti, mi confermò l’impressione che avevo avuto subito dopo il tentato allontanamento.

E cioè che il ragazzo non fosse riuscito a portare avanti fino in fondo il cambiamento che pure aveva iniziato, che non avesse sopportato lo stress dell’assunzione di una identità nuova, molto diversa da quella cui era avvezzo da sempre.
Povero di affetti e di cure, si era sempre dovuto far carico di se stesso e si era costruito un immagine da duro; per sostenere l’indifferenza che lo aveva circondato, aveva sviluppato una sorta di cinismo e di disillusione che spesso aveva chiaramente manifestato nel corso dei colloqui che avevamo avuto.

Adesso che era tornato nel carcere, che lui riteneva il luogo più adatto per sè, come una specie di “rifugio” da un lato e di giusta punizione dall’altro,  “…per dirvi la sincera ed onesta  verità mi trovo meglio in carcere…” il suo unico rammarico era per aver, in qualche modo, tradito la mia fiducia, quello che più lo aveva colpito era la mia ostinazione nell’indicargli una possibilità di vita diversa perché (e questo è, a mio avviso, l’aspetto più dolente) in tanti anni (ne aveva 20 quando ha scritto la lettera) era la prima volta che poteva confrontarsi con qualcuno in modo franco “..credetemi io prima d’ora non avevo mai parlato così con nessuno, cioè scrivere una lettera…”.

Ho avuto sue notizie in epoca piuttosto recente da un suo fratello che mi portava i suoi saluti comunicandomi che stava bene, si era sposato, aveva avuto un figlio.

Mi è sembra che questa vicenda possa considerarsi, in qualche misura, paradigmatica delle situazioni che solitamente incontro nell’ambito del mio lavoro con i ragazzi che delinquono, sia per ciò che riguarda la loro condizione di partenza, sia per quanto concerne la difficoltà di intraprendere una relazione pedagogicamente valida.

Inoltre è rivelatrice delle incertezze che accompagnano e appesantiscono il compito da svolgere.

Tuttavia mi sembra di poter affermare che l’investimento relazionale non è mai inutile, che la qualità della relazione è fondamentale e che sempre si può contare sulle risorse che, anche nelle situazioni più difficili, la natura umana dimostra di possedere.

Per questo motivo ritengo che il principale alleato su cui si può contare nel lavoro educativo sia proprio il ragazzo con i suoi limiti, certo, ma anche con un tesoro, spesso consistente, di qualità e  talenti da scoprire e valorizzare.

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