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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

casale 02

pdfIl mosaico politico sortito dalla dissoluzione dell’URSS è stato attraversato da percorsi riformistici diversificati, compresi quelli attinenti all’azione di rilevanza socioeconomica delle istituzioni pubbliche. Adottando un approccio comparativo, in quest’articolo si intendono selezionare talune variabili dello state-(re)building che appaiono dotate di una certa incidenza sul versante prestazionale dello sviluppo umano, muovendo dal grado di (dis)continuità rispetto al passato sovietico per poi analizzare la state capacity (o, specularmente, la state fragility) e il livello di democraticità dei regimi politici, con le possibili interazioni tra le grandezze osservate durante il periodo della transizione post-sovietica. La disamina intende ricavare elementi utili a decifrare altresì le strategie di legittimazione impiegate in quella peculiare fase di passaggio, includendo le politiche di welfare tra i fattori che concorrono a illustrare le caratteristiche contemporanee di diverse repubbliche dell’area, assumendo infine la Bielorussia come caso precipuo cui applicare le chiavi interpretative proposte nel presente contributo.

 

Continuità e cambiamento: la variabile del passato

Per cogliere talune peculiarità dell’attuale costellazione post-sovietica occorre osservare il modo cui, nella lunga transizione, si è configurata la relazione con le eredità del passato. Tutte le repubbliche post-sovietiche (RPS) hanno dovuto misurarsi con un abbrivio comune, rappresentato dagli assetti sistemici dell’URSS: sufficientemente innervati da non consentire di pensare, a rigore, tutte le specie di state-building attivate nell’area nei termini di una creatio ex nihilo. La sfida immediatamente posta dal collasso del 1991 è coincisa con il vuoto lasciato dal Partito comunista, cabina di regia onnipervasiva del sistema. Ciò ha da subito evidenziato i costi del cambiamento, posto che le incertezze e gli squilibri cui espongono i processi di riconversione comportano non poche volte crisi transizionali non congrue alle aspettative sociali di stabilità e benessere, con il rischio di propiziare deviazioni o ritorni al passato.

In effetti, nella galassia post-sovietica, l’ottimismo per uno state-(re)building immediatamente innestato nello spazio aperto del libero mercato ha dovuto fronteggiare importanti contraccolpi senza le garanzie istituzionali e le protezioni sociali invece disponibili ai sistemi consolidati e già conformi ai canoni del capitalismo liberaldemocratico. Le criticità di esordio, in diversi casi, hanno prodotto brusche inversioni di marcia rispetto ai primi tracciati riformistici, specialmente laddove la società civile, a dispetto dell’euforia “fondativa”, è stata scarsamente coinvolta dalla classe dirigente, attestata su posizioni autoreferenziali e di prona adesione alle formule occidentali, comunque inidonee alla riformulazione del “contratto sociale” autoctono.

Per altro verso, l’assuefazione al dirigismo sovietico assorbito dai gruppi sociali, dagli apparati pubblici e nel sistema economico si è mostrata una componente culturale sufficientemente “dura” da contrastare, con potente forza inerziale (path-dependence), l’efficacia dei modelli importati da Ovest (Magyar, Madlovics, 2020). Ma non ovunque. Il retaggio del passato non ha prodotto effetti inibitori o devianti sulla transizione delle repubbliche baltiche. Similmente a quanto avvenuto negli ex satelliti dell’Europa orientale, in esse il sentimento identitario nazionale, in sinergia con la refrattarietà recondita alla (tardiva) sovietizzazione, si è conservato sino ad agire come propulsore della democratizzazione: colta come opportunità decisiva per valorizzare un’indipendenza voluta, anziché semplicemente occorsa e passivamente “ricevuta” dall’implosione del socialismo reale.

 

Stato, regime politico e sviluppo umano

Stanti tali premesse, per esaminare il quadro delle diversità con cui la transizione si è articolata sul piano dell’incidenza dell’azione istituzionale dello Stato sulla società, riteniamo opportuno distinguere e porre in relazione diverse grandezze strutturali. Tra esse, senza pretese di esaustività, riteniamo proficuo assumere la variabile della state capacity in quanto sinteticamente rappresentativa dell’attitudine delle istituzioni pubbliche ad assolvere alle proprie funzioni. In essa si riverbera anche la ricchezza nazionale, quantunque essa non spieghi tutto, giacché, oltre una certa soglia, la state capacity può non rispondere in maniera elastica alle variazioni del PIL. Ciò mostra quanto rilevino, assieme alle risorse, le strategie della direzione politica, la cultura amministrativa e, in genere, le componenti strutturalfunzionali dell’apparato statuale in ordine alle attività regolative e disciplinari, estrattive e distributive di beni e servizi. Nella gran messe di indici che in proposito continuano a essere elaborati, optiamo per lo State Fragility Index (SFI) del Center for Systemic Peace che, con i suoi 14 indicatori, esplora l’effettività prestazionale (output) delle istituzioni nei campi della sovranità, della stabilità politica, dell’ordine pubblico e della repressione del crimine, della regolarità dell’azione amministrativa, della coerenza delle politiche economiche e sociali, della gestione dei servizi, ecc. (Marshall, Elzinga-Marshall, 2017).

Un’ulteriore dimensione di analisi, particolarmente saliente con riguardo all’oggetto di nostro interesse, è rappresentata dalla natura del regime politico. Se con la precedente variabile osserviamo, in riferimento alla statualità, la struttura permanente dell’autorità costituita nel suo effettivo esercizio entro un preciso territorio, valutando il regime ci riferiamo alle forme e ai modi del potere politico (e l’accesso a esso), assieme alla definizione delle possibilità di decisione e di azione da parte degli attori presenti nella sua orbita. Il che implica principi, valori e scopi per mezzo dei quali i rapporti di obbligazione politica tra governanti e governati assumono fattiva connotazione.

In proposito, assumiamo la macrodistinzione tra regimi liberaldemocratici e regimi non democratici, sulla base di criteri relativi al pluralismo concorrenziale e poliarchico, alla contestabilità del potere e all’inclusività basata sulla garanzia e sulla promozione di diritti di libertà e di eguaglianza. In virtù dell’accountability verticale tra classe di governo e cittadini e di quella orizzontale tra le istituzioni collocate in un sistema di checks and balances, la formula liberaldemocratica, nella letteratura politologica occidentale, viene usualmente ritenuta di per sé idonea a procurare un rendimento sistemico teso a soddisfare bisogni collettivi e individuali. Gli impianti liberaldemocratici, infatti, si rendono costitutivamente responsivi rispetto alle domande sociali, aggregate e articolate secondo modalità concorrenziali comunque regolate, grazie alle garanzie giuridiche (rule of law), da criteri di pari opportunità, da cui risulterebbe in esito un equilibrio omeostatico che tende a ostacolare la cristallizzazione di centri di interesse assolutamente predominanti (Dahl, 1971). Più in generale, un regime liberaldemocratico, trasparenza, concorrenzialità e contestabilità responsabilizzano il decisore politico rispetto al rendimento delle prestazioni delle istituzioni, remunerate dal consenso necessario a governare.

Sulla base di tali assunti, al fine di classificare i regimi politici post-sovietici durante la transizione, scegliamo l’indice sintetico della qualità liberaldemocratica (LDI) del V-Dem Institute dell’Università di Göteborg, basato su 71 indicatori attinenti alla dimensione libera e competitiva delle elezioni, ai diritti politici collegati in chiave pluralistica, nonché alle libertà civili, al rule of law e all’accountability (Coppedge et alii, 2020).

Dunque, poste la state capacity (ricavata specularmente dalla state fragility) e la qualità liberaldemocratica dei regimi, possiamo procedere a interpretarne l’incidenza d rispetto al rendimento qualitativo dell’azione pubblica nella sfera del benessere sociale. Segnatamente, assumiamo per quest’ultimo lo Human Development Index (HDI), costruito su valori quanti-qualitativi come la composizione demografica, il reddito nazionale lordo pro capite e gli outcome dei beni e i servizi prodotti nei campi della salute, dell’istruzione, dell’occupazione, della sicurezza sociale, dei flussi commerciali e finanziari, della mobilità e della comunicazione, altresì osservati con riferimento alla sostenibilità socio-economica e a quella ambientale (UNDP, 2020).

Per un confronto sinottico si propone la tabella sottostante, non senza qualche avvertenza. Anzitutto, per ragioni di spazio e semplificazione, assumiamo intervalli biennali nella forbice tra il 1995 (anno di introduzione del SFI) e il 2005. Quanto alla variabile della qualità democratica, si consideri che nella forbice temporale qui selezionata si situano “seconde transizioni” politiche, ossia ulteriori cambiamenti di regime intervenuti dopo l’indipendenza. In termini di democratizzazione, ciò vale per l’Estonia e la Lettonia, per la prima (2003) e la seconda (2004) Rivoluzione delle Rose in Georgia, nonché – quantunque e parziali e provvisorie nei loro effetti – per la Rivoluzione arancione in Ucraina (2004) e la Rivoluzione dei Tulipani in Kirghizistan (2005). Autocratizzazioni si sono invece avute in Bielorussia (1994) e in Russia (1999). Infine, relativamente al HDI di taluni Paesi, si danno lacune dovute alla carenza di dati trasmessi dagli stessi all’organismo (UNDP) incaricato della loro elaborazione.

 

Fragilità statale, democraticità e sviluppo umano nelle RPS (1995-2005)

 Fonte: rielaborazione dati ricavati da Center for Systemic Peace, 2018; V-Dem, 2021; UNDP, 2021.

SFI (State Fragility Index): 0 (fragilità nulla) – 25 (fragilità estrema); LDI (Liberal Democracy Index): 0 (min.) – 1 (max.); HDI (Human Development Index): molto basso (0-349), basso (0,350-0,549), medio (0,550-0,699), alto (0,700-0,799), molto alto (0,800-1).​

Stato 1995 1997 1999 2001 2003 2005
ARM SFI: 8 SFI: 8 SFI: 8 SFI: 9 SFI: 7 SFI: 7
LDI: 0,28 LDI: 0,22 LDI: 0,21 LDI: 0,22 LDI: 0,20 LDI: 0,19
HDI: 0,627 HDI: 0,645 HDI: 0,664 HDI: 0,673 HDI: 0,691 HDI: 0,712
AZE SFI: 19 SFI: 18 SFI: 18 SFI: 16 SFI: 17 SFI: 15
LDI: 0,09 LDI: 0,09 LDI: 0,08 LDI: 0,08 LDI: 0,08 LDI: 0,07
HDI: 0,604 HDI: 0,610 HDI: 0,629 HDI: 0,643 HDI: 0,659 HDI: 0,674
BLR   SFI: 4 SFI: 5 SFI: 6 SFI: 5 SFI: 6 SFI: 4
LDI: 0,37 LDI: 0,14 LDI: 0,12 LDI: 0,11 LDI: 0,10 LDI: 0,10
HDI: 0,660 HDI: 0,670 HDI: 0,679 HDI: 0,692 HDI: 0,707 HDI: 0,727
 EST    SFI: 6  SFI: 4  SFI: 4  SFI: 1 SFI: 1  SFI: 1 
 LDI: 0,80  LDI: 0,81  LDI: 0,81 LDI: 0,81  LDI: 0,81  LDI: 0,81 
 HDI: 0,729  HDI: 0,754  HDI: 0,773  HDI: 0,797  HDI: 0,813  HDI: 0,832
 GEO    SFI: 14  SFI: 10  SFI: 11 SFI: 11  SFI: 11   SFI: 8
 LDI: 0,17 LDI: 0,21  LDI: 0,21  LDI: 0,21  LDI: 0,21   LDI: 0,40
 HDI: N.D. HDI: N.D.  HDI: N.D.  HDI: 0,694  HDI: 0,708  HDI: 0,725
 KAZ    SFI: 10  SFI: 9  SFI: 11  SFI: 10  SFI: 8  SFI: 9
 LDI: 0,17  LDI: 0,15  LDI: 0,14 LDI: 0,14   LDI: 0,13 LDI: 0,13 
 HDI: 0,664  HDI: 0,669  HDI: 0,676  HDI: 0,700  HDI: 0,726  HDI: 0,747
 KGZ    SFI: 10  SFI: 11  SFI: 12  SFI: 10  SFI: 11  SFI: 12
 LDI: 0,18  LDI: 0,17  LDI: 0,17  LDI: 0,16  LDI: 0,16  LDI: 0,18
 HDI: 0,589  HDI: 0,601  HDI: 0,613  HDI: 0,628  HDI: 0,637  HDI: 0,642
 LTU    SFI: 3  SFI: 2  SFI: 2  SFI: 1  SFI: 1  SFI: 1
 LDI: 0,78  LDI: 0,71  LDI: 0,77  LDI: 0,77  LDI: 0,77  LDI: 0,78
 HDI: 0,710  HDI: 0,731  HDI: 0,751  HDI: 0,774  HDI: 0,797  HDI: 0,817
 LVA    SFI: 5  SFI: 5  SFI: 4  SFI: 2  SFI: 1  SFI: 1
 LDI: 0,68  LDI: 0,70  LDI: 0,70  LDI: 0,71  LDI: 0,72  LDI: 0,72
 HDI: 0,680  HDI: 0,698  HDI: 0,723  HDI: 0,753  HDI: 0,781  HDI: 0,809
 MDA    SFI: 13  SFI: 13  SFI: 12  SFI: 10  SFI: 10  SFI:8
 LDI: 0,43  LDI: 0,43  LDI: 0,47  LDI: 0,37  LDI: 0,39  LDI: 0,37
 HDI: 0,638  HDI: 0,637  HDI: 0,640  HDI: 0,651  HDI: 0,673  HDI: 0,692
 RUS    SFI: 10  SFI: 10  SFI: 11  SFI: 10  SFI: 10  SFI: 9
 LDI: 0,30  LDI: 0,29  LDI: 0,29  LDI: 0,21  LDI: 0,18  LDI: 0,16
 HDI: 0,702  HDI: 0,705  HDI: 0,711  HDI: 0,728  HDI: 0,742  HDI: 0,753
 TJK    SFI: 16  SFI: 16  SFI: 15  SFI: 16  SFI: 15  SFI: 16
 LDI: 0,06  LDI: 0,06  LDI: 0,07  LDI: 0,09  LDI: 0,09  LDI: 0,07
 HDI: 0,549  HDI: 0,540  HDI: 0,548  HDI: 0,564  HDI: 0,588  HDI: 0,607
 TKM    SFI: 10  SFI: 10  SFI: 9  SFI: 9  SFI: 11  SFI: 12
 LDI: 0,03  LDI: 0,03  LDI: 0,03  LDI: 0,02  LDI: 0,02  LDI: 0,02
 HDI: N.D.  HDI: N.D.  HDI: N.D.  HDI: N.D.  HDI: N.D.  HDI: N.D.
 UKR  SFI: 5 SFI: 5   SFI: 6  SFI: 5  SFI: 5  SFI: 6
   LDI: 0,35  LDI: 0,31  LDI: 0,27  LDI: 0,24  LDI: 0,27  LDI: 0,31
   HDI: 0,686  HDI: 0,686  HDI: 0,690  HDI: 0,708  HDI: 0,725  HDI: 0,738
 UZB  SFI: 14  SFI: 14  SFI: 13  SFI: 13  SFI: 17  SFI: 14
   LDI: 0,04  LDI: 0,04  LDI: 0,04  LDI: 0,03  LDI: 0,04  LDI: 0,03
   HDI: N.D.  HDI: N.D.  HDI: N.D.  HDI: 0,607  HDI: 0,619  HDI: 0,633
Fonte: rielaborazione dati ricavati da Center for Systemic Peace, 2018; V-Dem, 2021; UNDP, 2021.

SFI (State Fragility Index): 0 (fragilità nulla) – 25 (fragilità estrema); LDI (Liberal Democracy Index): 0 (min.) – 1 (max.);

HDI (Human Development Index): molto basso (0-349), basso (0,350-0,549), medio (0,550-0,699), alto (0,700-0,799), molto alto (0,800-1).

 

 

Prendendo atto dell’eterogeneità delle risultanze, possiamo tentare di leggere le correlazioni, procedendo per gruppi regionali.

Nella regione baltica troviamo Estonia, Lettonia e Lituania con uno sviluppo umano alto e in costante crescita dopo la recessione transizionale, con valori collocati in fascia apicale negli anni 2000. I valori parimenti molto elevati della state capacity e del LDI suggeriscono una correlazione positiva, quantomeno sinergica, tra l’efficacia dell’azione pubblica e il consolidamento democratico, concorrendo entrambi al rendimento espresso dal HDI.

Nella regione nord-occidentale, lo sviluppo umano in Russia si posiziona in fascia alta, associato a una state capacity medio-alta e a un LDI declinante a partire dall’autocratizzazione del 1999. Discorso analogo per lo sviluppo umano in Bielorussia, entrato nel 2002 in fascia alta, a fronte di una qualità democratica davvero bassa ma con una significativa capacità statuale. Buona la capacità anche dell’Ucraina, il cui HDI, in fascia alta dal 2001, non pare risentire delle variazioni del LDI. Situazione inversa si presenta in Moldavia, in cui lo sviluppo umano (inferiore ma in crescita) si associa a una statualità meno solida ma a una democraticità migliore (quantunque in flessione rispetto agli avvii) di quella Ucraina.

Spostandoci nella regione transcaucasica, troviamo la Georgia in forte recupero in quanto a state capacity, con un HDI in fascia alta, rendendosi evidente la svolta procurata dalla democratizzazione avviata nel 2003. Diversamente, nel caso dell’Armenia, la flessione democratica non pare incidere sullo sviluppo umano, mentre la solidità statuale si mostra costante e, anzi, in lieve crescita, nonostante la cronicizzazione del conflitto nel Nagorno-Karabakh con l’Azerbaigian. Quest’ultimo invece, dal 2002, mostra la statualità più fragile tra tutte le 15 repubbliche e una qualità democratica alquanto bassa, che si associano a uno sviluppo umano di livello medio.

Nella regione centroasiatica la bassa – bassissima in Tagikistan e Turkmenistan – qualità democratica è concomitante a uno sviluppo umano medio, analogamente a quanto si può osservare a proposito della state capacity, costituendo un’eccezione il Kazakistan relativamente a SFI e HDI. Rispetto a tali indici, l’Uzbekistan si distingue per un certo miglioramento nell’ultimo scorcio della forbice temporale (probabilmente spiegabile con il supporto ricevuto dal governo russo), mentre lo sviluppo del Kirghizistan aumenta anche in controtendenza rispetto alla fragilità statuale.

 

Lo state-(re)building e le ambivalenze dell’opzione autocratica

Dalla eterogeneità così raffigurata non si evincono correlazioni sicure e costanti. Tuttavia, un certo grado di ricorrenza – non sufficiente a riconoscere un nesso di causalità – si mostra nella concordanza positiva tra state capacity e sviluppo umano. D’altro canto, si può ipotizzare che i casi in cui l’incremento del secondo si accompagna alla flessione della prima siano addebitabili alla natura alquanto composita dell’indice HDI, in cui si ricomprendono variabili economiche particolarmente significative per i Paesi dotati di ingenti risorse naturali, tali da mettere in circolo una ricchezza sufficiente a compensare le carenze degli apparati pubblici, ovvero, della spesa sociale di Paesi che, come nel caso kazako, hanno affrontato la transizione con uno spiccato approccio neoliberale in politica economica1.

Viepiù controversa l’incidenza della democrazia, dal momento che gli effetti delle transizioni post-sovietiche non confermano puntualmente e universalmente le conseguenze deleterie attese dai regimi autocratici. Né, d’altronde, risulta immancabilmente confermata la correlazione tra democratizzazione e potenziamento della state capacity.

Una certa letteratura volgerebbe a suffragare l’ipotesi di risvolti disfunzionali in un regime vincolato a logiche elettoralistiche, costretto dal ricatto del consenso a strategie non lungimiranti, piegate a dinamiche clientelari e alla ricettività rispetto a domande frammentate e incoerenti. In definitiva, si tratterebbe di criticità analoghe a quelle rilevate sin dagli anni ’70 (Crozier et alii, 1973) in merito ai rischi di ingovernabilità e insostenibilità dovuti a una democrazia sovraccarica di richieste e aspettativa sociali. Eppure c’è da rilevare che, in linea con i suggerimenti profusi in quelle analisi, il paradigma democratico occidentale ha fatto fronte alla conclusione del “trenta gloriosi anni” del welfare state keynesiano attraverso una riprogrammazione improntata alla depoliticizzazione o alla sovranazionalizzazione di processi decisionali particolarmente nevralgici, quindi alla proliferazione di vincoli giuridici e di organismi di governance tecnocratica sottratti – giacché non elettivi – agli oneri della responsività (Casale, 2018).

Di contro, resta altamente plausibile l’argomento di un’accountability democratica quale potente incentivo all’azione performante del governo. Ma anche su questo si dà la possibilità di eccepire, sulla scorta delle suggestioni schumpeteriane, le limitate capacità di valutazione in capo al cittadino (elettore) comune nel giudicare con competenza le politiche pubbliche, di monitorarne nel tempo l’efficacia e di discernere gli effettivi responsabili dei loro esiti effettuali (Hanson, 2015).
Nondimeno, in linea teorica, può rilevarsi il vantaggio per i regimi autocratici di essere immuni dalla competizione e di adottare, con ampio margine discrezionale, misure capaci di alimentare il consenso (Acemoglu, Robinson, 2006): condizione che permetterebbe una significativa duttilità nel definire le politiche, con il vantaggio di conculcare il dissenso o di schermare l’operato del governo dalla contestazione dei gruppi sociali insoddisfatti, in assenza di sfidanti autorizzati a competere prospettando indirizzi alternativi.

È certo che il pluralismo democratico, laddove innestato in un quadro bilanciato di garanzie, vivifica la coesione della società civile attorno ai principi e la mobilita nelle forme della cittadinanza attiva, trovando nella competizione il metodo con cui selezionare le risposte prestazionali più adatte ai bisogni reali. D’altra parte, questo non impedisce di cogliere l’ambivalenza che interessa le autocrazie. In esse, l’assenza di accountability regolare ed effettiva sottrae il governante a pressioni e incentivi migliorativi, ma d’altra parte gli consente una prospettiva di lungo termine per condurre piani d’azione lineari non gravati dalle interruzioni dovute agli avvicendamenti elettorali.

Ciò riconduce al tema della stabilità e della longevità del potere approfondita da Mancur Olson (1993) in relazione al tipo di regime. In effetti, l’anomia delle fasi di travaglio transizionale risulta essere un terreno alquanto propizio per un governo irresponsabile e predatorio, esercitato da roving bandits intenti a trarre il massimo profitto per sé e a danno della società e delle istituzioni, per via dell’incertezza cui sono esposti. Diversamente, presumendo che i governanti restino pur sempre attori autointeressati, la prospettiva di maggior durata e solidità del potere contribuisce al profilo comportamentale degli stationary bandits, che finiscono per articolare i propri fini secondo strategie di lungo termine in grado di consolidare i pilastri strutturalfunzionali su cui il regime fa affidamento. Includendo l’investimento su una legittimazione alimentata dai meriti di una leadership socialmente benemerita, simile ipotesi può descrivere il caso di un’autocrazia concentrata sia sul “bastone” repressivo sia sulla “carota” consensualistica, così da infondere nell’opinione maggioritaria il senso dell’opportunità di scambiare le incertezze della libertà e della competizione con le sicurezze di un sufficiente e disciplinato benessere. Il ragionamento risulterebbe pertanto avvalorato dagli scenari in cui le turbolenze (effettive o temute) della transizione si risolvono con l’instaurazione di una leadership illiberale e decisionista, che si consolida in ragione del timore di precipitare, senza di essa, nell’anomia pregressa.

La democrazia liberale rimane l’opzione di rango più elevato, giacché, pur non consentendo una progettualità di così lungo termine, concentra l’azione del governante in un lasso di tempo in cui si rende necessario coalizzare forze e interessi eterogenei, pervenendo a compromessi estesi e inclusivi, aperti a un perenne confronto correttivo tra gli attori coinvolti. Il tutto in una cornice esente dall’aggressività difensiva che invece induce l’autocrate, nelle congiunture critiche, ad accentuare le strette dispotiche contro potenziali sfidanti, sottoponendo così a particolare stress gli apparati pubblici, sbilanciati, in quanto a risorse e attività, sul versante della repressione e del controllo.

Eppure, in assenza dei presupposti fattuali per una democratizzazione diffusa e profonda, la stabilità di un regime autocratico può rappresentare – specie in un frangente di transizione – un’alternativa utile a fronteggiare l’anomia rafforzando le infrastrutture dell’autorità (Mann, 1984) e razionalizzando il rendimento dell’azione pubblica sotto la guida di un “dittatore benevolo” (Olson, 1993). Tuttavia resta ferma la disfunzionalità costituita dall’esposizione all’arbitrio dispotico (Mann, 1984), anche laddove esso risulti in certa misura inibito dall’esigenza di costruire narrazioni legittimanti credibili (esigenza pur sempre insopprimibile per qualsiasi tipo di regime). Nel panorama della transizione post-sovietica, ciò si è sostanziato nel ricorso a un novero assai diversificato di strategie (Grauvogel, von Soest, 2016): dallo sfruttamento modernizzato delle risorse naturali più strategiche per la ricchezza nazionale (in Russia, Kazakistan, Ucraina, Uzbekistan, Turkmenistan, Azerbaigian) all’elargizione di provvidenze paternalistiche (emblematica nel caso dell’eccentrico sultanismo del Turkmenibashi Niyazov), alle politiche securitarie e di pacificazione interetnica (nell’Uzbekistan di Karimov e in Tagikistan). Al che occorre aggiungere la spiccata concentrazione sulla crescita economica (in Kazakistan e Azerbaigian), sul prestigio internazionale (in Russia), sui miti distintivi dell’identità nazionale (ancora nella Russia putiniana, in Armenia e in Ucraina), sul riassetto dell’apparato amministrativo (in Russia e Kazakistan), ovvero su un welfare universalistico impostato sulla conservazione delle architetture istituzionali del passato (Bielorussia), investendo sulla continuità in luogo di una discontinuità foriera di incertezze e contraccolpi recessivi.

 

Un “museo sovietico”: la transizione in Bielorussia

Gli elementi sin qui presentati possono trovare un significativo campo di riscontro nello state-(re)building condotto in Bielorussia dal regime di Aljaksandr Lukashenka. A capo di una commissione d’inchiesta sulla corruzione politica, egli seppe approfittare della debolezza dei partiti di governo alle prese, all’indomani dell’indipendenza, con progetti di riforma contrastati da un’opinione pubblica inquietata dalla prospettiva di una lunga spirale recessiva. Emergendo come il castigatore delle collusioni tra l’élite politica e la speculazione predatoria di gruppi imprenditoriali collegati all’Occidente, Lukashenka guidò la campagna che, nel 1994, condusse alla sfiducia del soviet supremo. Nel medesimo anno uscì vittorioso dalle elezioni presidenziali: tale l’avvio della “seconda transizione”, sostanziato da un percorso di autocratizzazione che, di riforma in riforma, avrebbe condotto le istituzioni sotto il controllo centralizzato della sua leadership (Wilson, 2012). Il tutto facendo perno sulle strutture del sistema sovietico, aggiornato seguendo una progressiva traslazione del potere d’apparato del partito comunista nelle prerogative monocratiche del presidente. In questo senso, la definizione di “museo sovietico” a proposito dell’attuale sistema bielorusso trova un’adeguata giustificazione.

Sotto il profilo economico, la continuità si è espressa nella conservazione dell’assetto industriale assegnato dall’URSS al Paese sui versanti della metallurgia, della chimica e del settore automobilistico. Nonostante le aperture alla privatizzazione, il dirigismo statalistico ha saputo perpetuarsi di fatto in ambiti nevralgici, cominciando dalla rinazionalizzazione del sistema bancario e la riconduzione al controllo governativo della banca centrale: scelta altamente funzionale a una gestione elastica del debito pubblico, in grado di consentire politiche di spesa intese ad alimentare il consenso presso gruppi sociali e comparti economici di volta in volta ritenuti più remunerativi, mediante sussidi, esenzioni fiscali e regimi tributari privilegiati (Fritz, 2007).

Altamente strategica è risultata l’integrazione nella sfera egemonica russa, dalla quale la Bielorussia ha potuto ricavare, oltre al sostegno politico e militare, prestiti, crediti commerciali e forniture energetiche a tariffe agevolate. Da ciò il sistema bielorusso ha ottenuto la possibilità di conservarsi refrattario alle innovazioni neoliberali poste dal Fondo monetario internazionale come condizione per i prestiti offerti. Inoltre, il supporto di Mosca ha permesso di accantonare disponibilità di bilancio da utilizzare in chiave redistributiva, con interventi volti a comprimere le diseguaglianze e la stratificazione sociale, procurando un livello medio stipendiale tra i più elevati della regione. Il sodalizio con la Russia, se per un verso ha spinto la pur debole opposizione politica a esaltare una certa vena identitaria e distintivamente nazionalistica, d’altra parte ha agevolato una significativa impermeabilità culturale (ancorché non commerciale) all’Occidente, sostenuta da una narrazione ideologica tesa a valorizzare i miti del passato innestandoli in un “patriottismo civico-presidenziale” centrato sulla fedeltà alle istituzioni e sull’affidamento alla tutela paterna del presidente, garante della concordia e del progresso sociali (Burckhardt, 2016).

Su questi presupposti, le riforme della “seconda transizione” hanno concentrato nella carica presidenziale cospicui poteri di iniziativa e di controllo utilizzati per consolidare un apparato amministrativo capillare e centralizzato, in grado di vigilare sull’economia, sull’attuazione dei programmi governativi e sull’impiego della proprietà pubblica, il tutto accompagnato da un costante accento sulla legalità tributaria e contabile. Particolare rilievo ha assunto, nel 1996, la previsione costituzionale della Commissione per il Controllo dello Stato, i cui membri, di nomina presidenziale, esercitano poteri inquirenti e sanzionatori nei confronti delle istituzioni politiche, del sistema amministrativo e delle imprese pubbliche. Di tale strumento si è avvalso lo state-(re)building per efficientare l’estrazione fiscale e per contrastare l’economia sommersa, erodendo il confine tra pubblico e privato ripristinato nel 1991. Ciò ha permesso di gestire le logiche di mercato aggiornando sotto nuove forme il dirigismo di epoca sovietica, abilitando il governo a impiegare la finanza pubblica con ampia duttilità, riducendo a più riprese le aliquote di imposta sui redditi di talune categorie, adottando regimi fiscali differenziati, introducendo moratorie per attrarre capitali nell’industria automobilistica, ecc. (IMF, 2004).

Di sicura rilevanza la stessa riforma della contabilità di Stato, con la previsione del Fondo di Protezione sociale e di altri fondi speciali fuori bilancio dedicati ai trasporti, all’agricoltura e alla cura delle patologie provocate dal disastro di Chernobyl. Al che si è aggiunta la possibilità in capo al presidente di adottare decreti di aggiustamento di bilancio a seguito degli scostamenti straordinari per la spesa sociale. In definitiva, si tratta di dispositivi usati per aggirare i vincoli delle leggi finanziarie e consentire provvedimenti estemporanei funzionali ad alimentare il consenso, premiando i bacini elettorali più fedeli. Il tutto perpetuando il formato di copertura e di eleggibilità alla protezione sociale vigente nell’URSS, per conferire al regime di welfare bielorusso il carattere più universalistico tra quelli istituiti nelle repubbliche post-sovietiche, seguito da quello lituano e quello estone – per i quali, invece, la discontinuità con il passato si è materializzata in un cambio di paradigma per molti versi ispirato al modello scandinavo.

Il grafico, qui elaborato sulla base dei valori qualitativi assegnati dall’Istituto V-Dem, attiene ai regimi di welfare post-sovietici mostratisi mediamente più universalistici durante la transizione 2.

Regimi di welfare maggiormente universalistici nelle RPS (1992-2005)

casale 01Fonte: rielaborazione dati V-Dem, 2021.

Dal grafico si possono confrontare i cambiamenti intervenuti nell’arco temporale considerato. In quanto a costanza, in ordine decrescente di grado, spiccano Bielorussia, Estonia e Armenia. La spezzata turkmena suggerisce le provvidenze del paternalismo di Niyazov, conservatesi immodificate per quanto assoggettate a misure di razionamento. Nell’universalismo lituano si osserva, a partire dal 2002, una flessione indicativa della maggiore conformità ai requisiti di bilancio di ispirazione neoliberale adottati ai fini dell’ingresso nella UE (2004). Segue la Moldavia, la cui incostanza riflette la competizione polarizzata tra partiti filo-occidentali e forze ancorate all’egualitarismo del passato, ma con una contrazione comunque importante dell’universalismo imposta dalle criticità economiche del Paese. Più incerto l’andamento nel caso ucraino, spiegabile con i provvedimenti antirecessivi sulla spesa pubblica ispirati dall’esigenza di alleggerire la pressione fiscale per favorire i capitali di investimento. L’incremento mostrato dal Tagikistan può rispecchiare le risposte dell’“ideologia karimovista” alle ondate di protesta contro diseguaglianza e povertà, come pure le misure intese a contenere le adesioni al jihadismo da parte della popolazione meno abbiente, con iniezioni di spesa sociale varate anche grazie ai sostegni finanziari russi e statunitensi.

In conclusione, è soprattutto la fattispecie bielorussa a segnalare un investimento sulla continuità ai fini di uno state-(re)building diretto da un regime politico illiberale e perseguito attraverso un rendimento sistemico egualitario e demercificante, tale cioè da sortire prestazioni svincolate dalle dinamiche di mercato e sufficientemente performative da giustificare l’indice di sviluppo umano del Paese durante la transizione. Da parte sua, l’indice di democraticità del regime suggerisce la divaricazione tra diritti sociali da un lato e diritti civili e politici dall’altro, che nella celebre tesi di Thomas Marshall (1964) si collocano invece in un processo di linearità evolutiva culminante in una compiuta “cittadinanza sociale”. Schema di certo non applicabile alla transizione di molte repubbliche post-sovietiche. Tra queste, appunto, la Bielorussia rileva come caso esemplare, ove il rendimento istituzionale in ordine allo sviluppo umano – con particolare riguardo alla sicurezza, all’assistenza e alla protezione sociali – è stato implicato in uno state-(re)building che ha presto sacrificato le iniziali aspettative di democratizzazione, per impostare il rapporto tra Stato e società secondo un’opzione politica di tutt’altro tenore.

 

 

Fonti e riferimenti bibliografici

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Wilson Andrew (2012), Belarus: The Last European Dictatorship, New Haven, Yale University Press.

NOTE:
1 Può giovare la consultazione della classifica mondiale dei petrolstati del 1992, in cui la Russia si posizionava al 2° posto, il Kazakistan al 12°, l’Azerbaigian al 23°. Nel medesimo anno, tra i produttori di carbone, la Russia si collocava al 3° posto, il Kazakistan al 9°, l’Ucraina al 10°, mentre la classifica dei produttori di gas naturale vedeva la Russia al 1 posto, il Turkmenistan al 6°, l’Uzbekistan al 9°, l’Ucraina al 18°, il Kazakistan al 29° e l’Azerbaigian al 30° (U.S. Energy Information Administration, 2021).
2 Per ragioni di semplificazione escludiamo dalla rappresentazione Paesi come Kirghizistan e Lettonia, i cui sistemi di welfare risultano comunque superiori, in quanto a universalismo, al valore di soglia minimo individuato nel nostro grafico. Una menzione merita il welfare georgiano, giacché esso, mantenutosi costantemente sotto il valore di 2.75, in concomitanza con la Rivoluzione delle Rose (2003-2004) ha conosciuto un’improvvisa impennata toccando 3.75, tuttavia riportandosi ai valori precedenti immediatamente dopo l’esordio del processo di democratizzazione, sviluppato con una certa congruenza ai canoni neoliberali.

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