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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

franchi

 

Introduzione

pdfMigliaia di imprese stanno cercando di trasformare il modo di fare affari orientando la loro strategia verso una maggiore sostenibilità. Le ragioni di questa scelta sono molteplici: dal seguire la moda del momento al mitigare il senso di colpa con qualche buona azione collettiva a compensazione, dal copiare semplicemente i concorrenti al cercare di eliminarli puntando ad impossessarsi delle loro quote di mercato, dal migliorare la loro reputazione sociale alla soddisfazione di bisogni egotici individuali. La natura di queste scelte è contingente1 e si può riferire a delle variabili come la localizzazione dell’impresa, il momento storico di riferimento, il settore di appartenenza e la storia imprenditoriale.

Per una parte delle imprese orientate alla Corporate Social Responsibility, vale quanto scritto da Molteni e Todisco, secondo i quali la CSR «è una modalità con cui viene attuato ciò che è tipico dell’impresa, cioè della missione produttiva…facendosi carico delle attese degli stakeholder anche oltre gli obblighi di legge non come puro moto di liberalità». In tale prospettiva essi richiamano alla gestione caratteristica, alla valorizzazione dei collaboratori, allo sviluppo di un’area geografica e superano una concezione della CSR che si riduce a un’ottica meramente filantropica e ad un’etica utilitarista tipica delle prime due rivoluzioni industriali (Rifkin, 2014). Inoltre, il fatto stesso che nelle aziende l’implementazione della CSR si concretizzi in un progetto specifico, nella logica del project management per la quale sono indicati tempi-costi-obiettivi, comporta l’immediata valutazione del business case all’insegna della razionalità economica.

È evidente che presentarsi nel mercato come “socialmente responsabile” o mostrare una certificazione, spesso come fosse una medaglia, non conferma la qualità delle scelte dell’impresa e soprattutto non mette al riparo da futuri comportamenti opportunistici o dalle conseguenze di certe opzioni strategiche. Il paradosso di una società organizzata in ogni singolo aspetto, nella quale le imprese sono una delle istituzioni più importanti, è che, secondo il filosofo Bauman (1992), «l’organizzazione nel suo complesso è uno strumento per la cancellazione delle responsabilità». Nella prassi quotidiana si assiste, sia nelle organizzazioni pubbliche che in quelle private di medie e grandi dimensioni, ad un continuo scaricare la responsabilità secondo la logica definita da Bauman della «libera fluttuazione della responsabilità».

Per Drucker (2000), una delle componenti fondamentali del management sono i rapporti con la società e la responsabilità sociale. Egli parte dal presupposto che nessuna impresa può esistere in modo autonomo o essere fine a sé stessa. Nella sua visione, ogni impresa «è un organo della società ed esiste in funzione della società». In questa prospettiva Drucker ricorda la nascita dei monasteri benedettini quale novità sorta nel mondo occidentale nel sesto secolo. Rispetto a queste organizzazioni le moderne imprese sono maggiormente orientate verso l’esterno attraverso una rete di rapporti relazionali tesi a soddisfare dei bisogni. Diventa dunque fondamentale comprendere qual è lo scopo dell’impresa attraverso il quale essa viene posta in relazione con persone e comunità, spesso presenti, nel caso delle multinazionali, in ogni continente.

Un’impressione significativa è che sia sempre centrale la dinamica della gestione del potere cui si aggiunge il superamento della dimensione umana con l’avvento dell’industria 4.0.

Vi sono grandi imprese multinazionali che di fatto gestiscono un potere a livello planetario spesso maggiore di quello esercitato da alcuni stati nazione. Un potere che origina ancora oggi dallo “spirito del capitalismo” definito da Weber (2010), per il quale «chi paga puntualmente è il padrone della borsa di tutti», ma anche espresso dal “razionalismo economico” proposto da Sombart6 che pone la capacità umana individuale al servizio di progetti ed organizzazioni. La transizione dal modello fordista alla fabbrica robotizzata che si è verificata in queste grandi aziende, con l’organizzazione scientifica del lavoro e lo sviluppo tecnico senza sosta, ha eliminato i limiti fisiologici legati alla turnazione dei lavoratori e ridotto il peso delle rappresentanze sindacali. Un potere divenuto talmente grande che non trova limiti nella logica perversa del “too big to fail”, o per alcuni “to big to jail”, per la quale i costi dei fallimenti ricadono sui consumatori o sui piccoli investitori. Per Chomsky(2017), la finanziarizzazione dell’economia ha spostato, dagli anni Settanta del secolo scorso in avanti, il focus dalla manifattura ai flussi di capitale per fini speculativi con la conseguente trasformazione del settore finanziario. Anche il linguaggio si è modificato con l’avvento delle trimestrali, dello “shareholder value”, degli MBO1, ecc. A questo fenomeno, dal punto di vista di Chomsky, si è aggiunta la delocalizzazione selvaggia che ha minato una delle variabili citate nell’introduzione, spostando la produzione in località con manodopera a basso costo e svuotando intere città o regioni. Le vittime di tali processi sono state non soli i lavoratori, ma anche le comunità di riferimento e l’ambiente.

Per Zamagni (2020), dalla finanza internazionale speculativa, sfuggita da ogni controllo, occorre distinguere la “buona finanza” che consente l’aggregazione dei risparmi ed il loro utilizzo efficiente in impieghi più redditizi. Dal punto di vista di Zamagni, gli stessi sistemi di incentivi per i manager dovrebbero essere rivisti e passare dalla logica dell’assumere rischi eccessivi - per la massimizzazione non solo del profitto, ma anche del valore delle azioni - a quella di dichiarare precedentemente per quale fine si intende essere efficienti. Sarà la capacità di contrastare l’aumento delle disuguaglianze e di difendersi dalle forze destabilizzanti che tendono alla finanziarizzazione anche del risparmiatore, che diventa egli stesso un potenziale speculatore, la vera sfida del futuro. A questo, per Zamagni, si somma l’ulteriore pericolo della “Globotica”, che mette insieme globalizzazione e rivoluzione digitale; nella consapevolezza che non tutte le persone nascano imprenditori od abbiano le capacità per cogliere continuamente opportunità, vi sono paesi o aree del globo all’avanguardia nelle nuove tecnologie, come la Silicon Valley ed altre invece sofferenti e colpite dal nuovo malessere della disoccupazione tecnologica.

 

1. Lo scopo dell’impresa

In questa prospettiva, diventa fondamentale ragionare sullo scopo dell’impresa. Per Drucker, «con l’affermarsi della società fondata sulla conoscenza, la società è diventata una società di organizzazioni» (Drucker, 2010) e «un’istituzione esiste per realizzare uno scopo ed una funzione, cioè una specifica funzione sociale. Nell’impresa questo significa, per definizione, realizzare determinati obiettivi di carattere economico». Dal punto di vista di Drucker, mentre per tutte le istituzioni l’aspetto economico rappresenta un vincolo, è solo nell’impresa che esso «rappresenta la missione specifica».

Una diversa prospettiva è proposta dall’organizzazione inglese “A Blue Print for Better Business”2, per la quale i comportamenti derivano dallo scopo che dovrebbe avvantaggiare anche la società e rispettare le persone. Scopo e comportamenti sono legati da un “file rouge” ed essere «guidati da uno scopo» è più importante che avere semplicemente uno scopo. Il punto di partenza di Blueprint è che l’impresa sia per prima cosa una serie di relazioni; se queste relazioni sono buone tutti traggono vantaggi da esse. In tale accezione, lo scopo diventa la ragione per l’esistenza dell’azienda al di là del profitto.

Tale approccio ricorda quanto indicato da Bruni (2012 che vede un sistema composto da quattro diverse economie: il capitalismo, con l’obiettivo del profitto o della rendita, il capitalismo delle imprese familiari, il terzo settore senza scopo di lucro e il quarto capitalismo in cui prevalgono i concetti di cooperazione e mutuo vantaggio all’insegna della sostenibilità ambientale e del recupero dei territori. Per Bruni, il capitalismo è altamente competitivo, con la tendenza ad operare senza confini purché sia garantito il profitto, mentre l’Economia Civile, rappresentata dalle imprese familiari e dal terzo settore senza scopo di lucro, deve cambiare il vocabolario tradizionale passando ad una reale condivisione. In particolare, è il capitalismo delle imprese familiari guidate da un imprenditore o dalla sua famiglia - siano esse industriali, artigianali, agricole o commerciali - a rappresentare un “capitale paziente” non interessato alla massimizzazione dei profitti nel breve, tipico dell’etica utilitarista, ma ad una prospettiva di sopravvivenza nel tempo dell’impresa.

 

2. La responsabilità sociale d’impresa

Oggi, gli approcci alla responsabilità sociale d’impresa sono molteplici. Alcune imprese si certificano, per fare misurare da un organo esterno e terzo il loro impatto sociale ed ambientale, altre realizzano dei documenti di comunicazione integrata, altre ancora cercano di avvalersi di metodi di rilevamento fatti in casa per seguire trend internazionali come l’Agenda 20303.

Ci sono poi imprenditori in difficoltà economica e finanziaria che cercano di certificarsi per “diventare interessanti”, sperando che possano essere visti in modo diverso da clienti, fornitori e banche. Questo accade quando sono presenti forti posizioni debitorie o perdite d’esercizio. Tali imprenditori non considerano che il bilancio di sostenibilità è comunque un rendiconto delle operazioni di gestione caratteristica relative ad un definito periodo amministrativo (Santesso e Sòstero, 2000). Essi dimenticano che secondo gli IAS4 il bilancio dovrebbe offrire una rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria, delle prestazioni e della modificazione della stessa. Lo stesso codice civile italiano, art. 2423, stabilisce che il bilancio deve essere redatto con chiarezza e rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società. Comune errore è inserire nei documenti di sostenibilità informazioni false, andando a svuotare di significato il concetto stesso di Corporate Sociale Responsibility il cui primo contributo rilevante risale al 1953 con Bowen che, riguardo alla responsabilità dei manager, afferma «l’obbligo per gli uomini d’affari di perseguire quelle politiche, di prendere quelle decisioni o di seguire quei corsi d’azione che sono auspicabili in termini di obiettivi e valore per la nostra società» (Molteni e Todisco, 2008).

Nella visione di Franklin5, ci sono imprenditori che ancora oggi dimostrano “piacere ed orgoglio” per avere “dato lavoro”, magari al territorio nel quale sono nati, o per “aver contribuito alla prosperità”. Essi sono mossi da un “ideale” che si rinnova continuamente nel tempo e che viene definito da Einaudi6 come una vera e propria “vocazione naturale…non soltanto la sete di guadagno”. Il premio Nobel Friedman7, negli anni Settanta del secolo scorso, indicava che «l’unica legittimazione etica e sociale del fare impresa è operare per massimizzare il profitto nel rispetto delle regole del gioco». In sostanza, per Friedman esisteva una sola responsabilità di impresa: incrementare il profitto. Ad essa si rifanno “idealmente” ancora oggi molti imprenditori, soprattutto piccoli e medi, che ricordano come, per sopravvivere nell’immediato, sia importante il flusso di cassa col quale pagare i fornitori, le utenze e i dipendenti. In questa prospettiva, la convinzione di base, è rafforzata dall’assunto taylorista e dell’approccio scientifico al lavoro, sviluppatosi nel tempo in nuove metodologie manageriali, per il quale occorre misurare tutto e rifarsi al sistema di comando e controllo tipico delle forze armate.

 

3. Il tema etico

Secondo l’economista Zingales, occorre riscoprire il fondamento morale del capitalismo (Zingales, 2012). La convinzione che la concorrenza possa fare emergere i migliori, assunto base della “teologia del mercato”, ha mostrato nel tempo i propri limiti. Per Zingales, le azioni opportunistiche che danneggiano la società nella sua interezza dovrebbero essere condannate ed i responsabili puniti.

L’introiezione di un’etica, del mercato e nel mondo degli affari, avrebbe come scopo il preservare la sopravvivenza del capitalismo. Però, nel tempo, anche se la legittimazione morale e le norme sociali hanno più o meno funzionato nel sanzionare le imprese scorrette, esse non hanno risolto da sole le distorsioni del sistema capitalistico liberal democratico.

Si tratta di un richiamo all’etica che va oltre all’imparare a “rendere conto” di quanto messo in atto e che non riguarda solo le imprese, ma anche le pubbliche amministrazioni che spesso orientano il denaro verso investimenti opachi e senza un ritorno che vada al di là del mero profitto. Drucker sostiene che «gli effetti non essenziali e non rientranti nel perseguimento dei propri obiettivi e della propria azione specifica dovrebbero essere contenuti al minimo» (Drucker, 2000). Weber, con l’etica delle responsabilità, impone che ogni decisore sia disponibile a rispondere per le conseguenze prevedibili delle proprie azioni, anche se la storia recente ha dimostrato come questo non sia sufficiente o come dalla probabilità occorra spostarsi alla possibilità (Jonas). Sacconi (2004), per superare tali problematiche, ha proposto l’idea del contratto sociale tra tutti gli stakeholder spostando il focus sulla negoziazione tra i portatori di interesse e sul rispetto del dovere contrattuale in un’accezione kantiana.

Nel tempo le imprese hanno realizzato codici etici, di matrice individualista, mai realmente letti e seguiti dai dipendenti e divenuti solo una modalità per accrescere la reputazione aziendale. Inoltre, il richiamo al codice etico rischia di manifestarsi solo dopo che si annunci pubblicamente un problema ed impiegato per commutare una sanzione al dipendente. In questa dimensione, l’incognita diventa fondamentalmente la mancanza di etica civica e del rapporto che lega la moralità con la motivazione.

In questo ambito, è necessario ricordare la paradossale difficoltà delle organizzazioni, principalmente del primo capitalismo indicato da Bruni, a motivare le persone alle quali viene chiesto molto in termini di obiettivi, impegno temporale ed emotivo, preparazione professionale, ecc. Per Bruni, la motivazione dovrebbe essere collegata al dono, inteso come “dare la parte migliore di sé”. Dal punto di vista di Bruni, frustrazioni e giustificazioni possono essere superate solo se e quando queste organizzazioni decideranno di passare dal “consumo della gioventù” al riconoscimento del dono richiesto che creerebbe nuovi legami di tipo comunitario. Si tratta, nella sostanza, di un cambio proposto all’ideologia manageriale che “usa senza gratuità”, che chiede responsabilità per raggiungere gli obiettivi, ma agisce senza responsabilità per i costi emotivi e relazionali procurati.

Nella prospettiva di Bruni si tratta di ripartire da un “management buono”, comunque presente in molte organizzazioni, che richiede “riconoscimento e riconoscenza”, nella consapevolezza che l’impresa abbia bisogno soprattutto di quanto non possa comprare dal lavoratore: entusiasmo, passione, gioia e voglia di vivere, creatività e cuore. Le persone vogliono infatti “essere viste” dai loro responsabili, che dovrebbero essere presenti nei luoghi di lavoro, in un ambiente solidale e virtuoso. Per Bruni, se il denaro è il primo linguaggio impiegato nelle relazioni aziendali occorre comprendere che vi possono essere altri linguaggi migliori e di tipo esistenziale all’insegna di un management umanistico e di relazioni generative. Questa prospettiva tiene conto dell’essere umano e delle sue vulnerabilità relazionali che possono essere superate, per Bruni, solo dalla “fiducia genuina nei propri confronti”.

Secondo Zamagni, l’indicatore “CEO Pay Ratio” evidenzia, anche per i non addetti ai lavori, le distorsioni del sistema, dimostrando come l’aumento indiscriminato degli stipendi dei top manager sia derivato dalla logica del “shareholder value” ed abbia avuto un impatto negativo anche nella motivazione dei lavoratori. Si assume che queste posizioni lavorative derivino dal merito della persona e dalla ideologia sottostante per la quale ogni forma di promozione o affidamento di incarico dipende esclusivamente dallo stesso, quale risultante di talento e impegno. Per Zamagni però, il talento dipende anche dalle condizioni del contesto e l’impegno dipende dallo stato d’animo della persona e da cosa la società considera meritorio.

 

Conclusioni

Sono spesso le grandi organizzazioni multinazionali internazionali a rappresentare la contraddizione in termini del sistema. Top management milionari, focalizzati sugli interessi individuali mascherati da una generica reputazione, impongono alle aziende codici etici e programmi per la responsabilità sociale d’impresa. Essi non sono interessati agli obiettivi di sopravvivenza nel tempo dell’azienda, ma si focalizzano su complesse e costose operazioni di fusioni ed acquisizioni per sostenere il valore del titolo o pagare dividendi ad azionisti poco appassionati delle sorti reali della loro organizzazione ed all’impatto sociale ed ambientale. Ad esempio, tale incoerenza si manifesta sempre più frequentemente con l'incetta globale di terreni agricoli8 che penalizza e depaupera intere comunità locali, nonostante bilanci di sostenibilità composti da centinaia di pagine siano spediti agli investitori istituzionali per essere poi cestinati in tempi brevi.

Fortunatamente, accanto a questo fenomeno occorre registrare anche un altro tipo di responsabilità sociale alla quale si stanno indirizzando migliaia di imprese che, superando logiche di marketing, si attivano per cambiare le cose. Si tratta di organizzazioni che, partendo dal linguaggio impiegato, hanno iniziato a parlare non solo di sostenibilità, ma anche di cittadinanza di impresa, di massimizzazione del benessere di tutti gli stakeholder, di “codice di interdipendenza” per collaborare con i propri fornitori, di gender equality committee, di obiettivi di neutralità carbonica, di valore condiviso, di codici di condotta, di diritti umani, ecc. La differenza tra queste imprese e quelle sopra menzionate, per le quali la responsabilità sociale rimane una moda del momento, risiede non solo nel significato dato alle parole, ma anche nelle risorse investite per formare i propri collaboratori e nelle opere poste in essere.

Infatti, dal punto di vista del linguaggio non basta parlare genericamente di valore e di triple bottom line, ma occorre estendere la riflessione sul significato di dono e di bene comune per divenire consapevoli di come essi possano entrare e cambiare anche il mondo economico. Secondo la Dottrina Sociale della Chiesa (2004, 110), «l’oggetto dell’economia resta la formazione della ricchezza e il suo incremento progressivo, in termini non soltanto quantitativi, ma anche qualitativi. Questo è corretto se finalizzato allo sviluppo globale e solidale dell’uomo e della società in cui vive ed opera». In questa prospettiva il fine dell’impresa, da realizzarsi con termini e criteri economici, dunque considerando i costi ed i ricavi, diventa «servire il bene comune della società mediante la produzione di beni e servizi utili». Se «il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale» (PCGP, 2004, 60), diventa facile comprendere come la responsabilità sociale d’impresa possa essere implementata solo fondandola su una base etica che faccia riferimento alle virtù ed al senso autentico e finale, in termini di destinazione universale dei beni (Francesco, 2020,123), per il quale i progetti dovrebbero essere realizzati.

 

Massimo Franchi

 Fonti e riferimenti bibliografici
BAUMAN, ZYGMUNT (1992), Modernità ed olocausto, Bologna, Il Mulino.
BRUNI, LUIGINO (2015) Il mercato e il dono, gli spiriti del capitalismo. Milano, Università Bocconi Editore.
CHOMSKY, NOAM (2017) Le Dieci Leggi del Potere. Milano, Ponte alle Grazie.
DRUCKER, PETER (2010), Lezioni Inedite. Milano, ETAS.
DRUCKER, PETER (2000), Manuale di Management, Milano, ETAS.
FRANCESCO (2020), Lettera Enciclica Fratelli Tutti.
MOLTENI, MARIO e ALESSANDRA TODISCO (2008) Responsabilità Sociale d’Impresa. Milano, IlSole24Ore.
PCGP = PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE (2004) Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana.
RIFKIN, JEREMY (2014), La terza rivoluzione industriale, Milano, Mondadori.
SACCONI, LORENZO (2004) “Responsabilità Sociale come governance allargata d’impresa: un’interpretazione basata sulla teoria del contratto sociale della reputazione”. Liuc Papers n. 143, Serie Etica, Diritto ed Economia 11, suppl. febbraio.
SANTESSO, ERASMO e UGO SÒSTERO (2000), Principi contabili per il bilancio d’esercizio, Milano, IlSole24Ore.
SOMBART, WERNER (1978), Il borghese. Lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico, Milano, Longanesi.
WEBER, MAX (2010) L’Etica Protestante e Lo Spirito del Capitalismo. Milano, RCS Libri.
ZAMAGNI, STEFANO (2020) Disuguali. Sansepolcro, Aboca Edizioni.
ZINGALES, LUIGI (2012) Manifesto capitalista. Milano, Rizzoli.

NOTE:

1 MBO è l’acronimo di “Management By Objectives”, la gestione per obiettivi.
2 https://www.blueprintforbusiness.org
3 L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Essa ingloba 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile.
4 Principi contabili internazionali, IAS/ IFRS.
5 Benjamin Franklin (1706-1790), statista e scienzato è considerato uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti. Nel 1776 fu uno dei redattori della Dichiarazione di indipendenza e in seguito ebbe importanti funzioni federali. Dal 1785 al 1788 fu presidente della Pennsylvania e nel 1787 deputato alla Convenzione Italiana.
6 Luigi Einaudi (1874–1961). Economista di fama mondiale, uomo politico e secondo presidente della Repubblica Italiana.
7 Milton Friedman (1912-2006), economista statunitense e Premio Nobel per l’economia nel 1976, è stato uno dei principali esponenti della scuola di Chicago.
8 Fenomeno conosciuto come land grabbing.

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