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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

 

 

Il denaro costituisce una tecnica, un mezzo inventato dall’uomo per facilitare il dominio sulla natura e s’impone oggi come condizione sine qua non all’economia. Indispensabile al funzionamento dell’economia, il denaro può contribuire alla promozione dell’uomo come al suo degrado. Il suo potere è così grande, che è fatto oggetto dei più vigorosi interrogativi etici. Per conseguenza, ha suscitato nella tradizione cristiana le reticenze e i sospetti più consistenti.

Si conosce l’affermazione magistrale d’Aristotele: "Il denaro non genera il denaro". San Tommaso lo riprende testualmente e nell’economia statica del Medioevo l’interesse fu considerato come in sé condannabile. Infatti, nel contesto di un’economia di sussistenza, sia agricola sia artigianale, l’usuraio presta all’indigente che conosce un periodo difficile e si trasforma quasi sempre in uno sfruttamento. In questa prospettiva, le tradizionali proibizioni canoniche del prestito ad interesse furono un meccanismo etico per proteggere i poveri.

Quando il commercio si sviluppò attraverso le fiere, le crociate e soprattutto in seguito alla scoperta dell'America, il prestito diventò più prestito di produzione e non soltanto di consumo. Il ragionamento di Aristotele è ormai smentito dall’esperienza, poiché denaro genera chiaramente denaro. D’altro lato, Tommaso stesso trova del tutto normale che le merci scambiate non siano di pari valori. Le cose sono diverse nel commercio: qui il profitto non ha niente a che far con la necessità della vita. Quindi nulla impedisce che il profitto venga ordinato a qualche fine necessario, o anche onesto. E così il commercio viene reso lecito, quando procura un profitto moderato, ricercato tramite il commercio; quando è per il sostentamento della famiglia o per l’aiuto degli indigenti, o anche per l’utilità pubblica o quando il profitto non è un fine, ma una ricompensa per il lavoro (cf. S.Theol., II-II,q.77,a.4).

Malgrado questa valutazione tommasiana del profitto, la Chiesa continuò a proibire il principio del prestito a interesse, per molto tempo ancora. A causa di una mancanza di analisi della realtà, si identifica sovente il prestito di produzione con quello di consumo, interpretato sempre in termini di usura. Ancora nella Rerum Novarum, Leone XIII affermò: "un’usura divoratrice, condannata tante volte dalla Chiesa, continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori" (RN.2).

Arthur F. Utz si ubica nell’economia dinamica che implica essenzialmente la ricerca della crescita e del guadagno. Il rischio e la perdita del denaro per le decisioni errate sono anche alti. "Considerando che la stabilità del valore del denaro non è garantita, l’imprenditore prudente cerca infatti di finanziarsi il più possibile da sé. Inoltre egli ha bisogno di un ritorno di profitto per correggere eventuali decisioni errate (riserve segrete)" (Utz, Etica economica, p.302).

In quest’economia dinamica in cui la proprietà privata domina come principio ordinatore, il profitto appartiene quindi di sua natura al proprietario dell’impresa. Nel caso di un prestito concesso per investire, il denaro diventa fonte di ricchezza. Il potere del denaro è così grande che non può essere abbandonato a se stesso. Occorre una regolazione etica, per cui l’interesse deve essere moderato come un farmacista fa quando utilizza un veleno: una moderata quantità può guarire, ma quando si va oltre una certa misura risulterà mortale.

Naturalmente l’imprenditore ha la preoccupazione per il futuro della sua impresa e cerca il profitto per poter raggiungere questo fine. A. Utz nota: "In che misura il fisco possa tassare i profitti, è una questione spinosa. La tassa sul profitto può facilmente paralizzare l’attività dell’impresa, soprattutto oggi che lo Stato, contraddicendo lo spirito dell’economia di mercato, accolla all’impresa tutti i possibili compiti sociali, anziché, come l’economia di mercato esige propriamente per funzionare bene, lasciare per quanto possibile ai singoli la previdenza individuale, cosicché ognuno paghi da sé ciò che desidera avere per sé nel futuro. Ciò presuppone comunque che lo Stato prenda sul serio la propria responsabilità per la stabilità del valore del denaro" (Etica economica, p. 306).

Ma che cosa possono fare degli Stati dispersi di fronte alla globalizzazione del mercato? L’etica economica dovrebbe sottolineare la necessità di superare la sovranità degli Stati per sviluppare delle strutture politiche sovranazionali, capaci di controllare i flussi monetari e finanziari. E’ proprio per questa sfida che il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo propone una governance globale per stabilire un nucleo comune di valori, criteri, standard e attitudini, un senso di responsabilità e di obbligo largamente condivisi non soltanto da parte dei singoli individui, ma anche da parte di governi, imprese e organizzazioni di società civile (cf. UNDP, Rapporto sullo sviluppo umano 10: la globalizzazione, 1999).

 

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