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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 Eugene Versluysen, 1999, West Hartford, Connecticut, USA, Kumarian Press, 255 pp.

 

Secondo le stime elaborate dalla Banca Mondiale, sulla terra ci sono circa 1.200 milioni di poveri: sono coloro che sopravvivono con un reddito quotidiano inferiore a un dollaro al giorno. La povertà è un fenomeno con molte sfaccettature: non significa solo assenza o scarsità di reddito, ma anche mancanza di una adeguata alimentazione, di istruzione, di salute, di anni di vita. Nel Rapporto sullo Sviluppo Umano pubblicato nel 2000 dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP – United Nations Development Programme) si possono leggere cifre allarmanti: nel mondo contemporaneo 790 milioni di persone hanno un’alimentazione inadeguata o insufficiente e addirittura nei ricchi paesi dell’OCSE gli affamati sono 8 milioni; più di un miliardo di individui vivono in condizioni abitative precarie, i senza casa sono 100 milioni; 507 milioni di individui hanno una speranza di vita inferiore ai 40 anni; circa 90 milioni di bambini che vivono nei paesi in via di sviluppo non stanno frequentando la scuola dell’obbligo, pur avendone l’età. La lista dei problemi potrebbe continuare ancora a lungo.

La drammaticità della povertà contemporanea risiede non solo nella estensione e nella poliedricità delle sue manifestazioni ma anche nel progressivo approfondimento del divario tra ricchi e poveri: un elemento costante sia nel rapporto tra Nord e Sud del mondo sia all’interno di ciascun paese. Secondo l’UNDP il rapporto tra il reddito del 20% più ricco della popolazione mondiale e il reddito del 20% più povero della popolazione mondiale era pari a 35:1 nel 1950; nel corso degli anni è salito costantemente, fino ad arrivare a 72:1 nel 1992.

L’eliminazione della povertà è ormai considerato un obiettivo fondamentale non più solo da organismi umanitari e Organizzazioni Non Governative, ma anche da agenzie intergovernative come l’UNICEF, la FAO e l’UNDP, solo per citarne alcune.

Il dibattito sulle cause, i meccanismi e le responsabilità di chi o cosa generi la povertà è ben lontano dall’essere concluso, semmai è andato ulteriormente inasprendosi, in concomitanza con la discussione sugli effetti della globalizzazione. Parallelamente sono sorte iniziative concrete per agire sotto forma di prevenzione e riduzione della povertà o, più in generale, sullo squilibrio relativo all’accesso delle risorse. Tra queste, solo per citarne alcune, troviamo: la campagna per l’abolizione del debito estero dei paesi in via di sviluppo, il commercio equo e solidale, i marchi di garanzia etica, il microcredito.

Il microcredito consiste nel concedere piccoli prestiti a coloro che non hanno alcun accesso al credito da parte delle banche o da qualsiasi istituto finanziario perché non hanno un reddito adeguato o perché non hanno beni da poter offrire in garanzia. I tassi di interesse applicati sono bassi o comunque non superiori a quelli correnti e l’entità delle somme erogate è modesta: varia da alcune decine di dollari a poche centinaia. Eppure, è quanto basta per avviare una piccola attività commerciale o per ingrandirne una già esistente, consentendo di acquistare, ad esempio, una macchina che permette di cucire più capi di vestiario; oppure una capra, grazie alla quale è possibile sia produrre e vendere formaggio sia integrare l’alimentazione di tutta la famiglia. Diventa così possibile per chi riceve il prestito fare un salto qualitativo, aumentando la sua produttività e di conseguenza anche il reddito.

I beneficiari del microcredito sono persone indigenti, spesso residenti in aree rurali, analfabeti o semi analfabeti, praticamente incapaci di contrattare con un qualsiasi istituto di credito. Per queste persone l’accesso al microcredito significa l’affrancamento dagli usurai, gli unici disponibili a prestare loro denaro in caso di necessità.

Il testo di Eugene Versluysen, intitolato “Defying the Odds. Banking for the Poor” tratta appunto del microcredito. Nella prima parte viene spiegato in modo accessibile ma al tempo stesso approfondito come gli interventi di riaggiustamento strutturale, l’austerità fiscale, i piani di stabilizzazione economica, mirati appunto a rafforzare le economie deboli di paesi in via di sviluppo abbiano prodotto effetti collaterali devastanti, come il taglio delle spese sociali e un approfondimento nel divario della redistribuzione del reddito. In parole povere, un aumento della povertà. Parallelamente, è in aumento anche il settore informale, che costituisce per molti abitanti dei paesi del Sud l’unico ambito in cui possono inserirsi grazie a piccole attività economiche di tipo artigianale, spesso gestite a livello familiare. Il cuore del saggio, però, è la sezione in cui viene presentata un’analisi, svolta su base comparativa, dei programmi più significativi di microcredito attivati in paesi selezionati dell’Asia (più specificamente, in Bangladesh e in Indonesia), in Africa (Guinea), in America Latina (Bolivia, Perù). Delle attività svolte a questo proposito vengono illustrati sia i tratti specifici sia i successi ottenuti sia gli aspetti problematici.

Il microcredito, infatti, come sottolinea con forza l’autore, non corrisponde ad una formula unica di intervento, o a una serie di schemi attuativi riproponibili senza alcun cambiamento. Viceversa, occorre tenere in considerazione l’ambiente geografico, economico, sociale e culturale su cui si innesta, per poter ottenere risultati apprezzabili.

Un esempio di quanto appena detto riguarda il gruppo o la comunità di appartenenza, che svolgono un ruolo determinante per il buon esito della restituzione del debito contratto. Ad esempio, la Grameen Bank, fondata nel 1976 in Bangladesh da Muhammad Yunus, il più antico e più famoso organismo dedicato al microcredito, non concede un nuovo prestito se quanti hanno già avuto accesso al credito e appartengono allo stesso gruppo o comunità o villaggio del nuovo richiedente dove non sono in regola con le rate della restituzione del debito contratto. In questo modo la Grameen Bank e, più in generale, le istituzioni che forniscono il microcredito, usano come punto di forza il senso di solidarietà e l’aiuto reciproco. Infatti, se uno dei progetti finanziati dalla Grameen Bank entra in crisi perché il beneficiario si trova a sormontare delle difficoltà impreviste, tutto il gruppo di appartenenza viene necessariamente coinvolto nel superamento del problema. D’altra parte, anche chi ha ricevuto prima degli altri il credito vive con maggiore responsabilità la restituzione del debito, perché sa che dalla puntualità dei suoi pagamenti dipende l’accesso al credito di altre persone a lui vicine.

I poveri – commenta l’autore – non ripagano con più puntualità perché sono persone migliori, ma perché hanno molto più da perdere; sono incentivati a ripagare puntualmente il loro debito se sanno che facendo questo potranno avere la possibilità di ottenere un nuovo prestito. In questo senso, è importante da una parte agire con fermezza quando qualcuno rimane indietro con le rate della restituzione del prestito e dall’altra fare affidamento alla pressione esercitata dal gruppo di appartenenza.

E’ vero, però, che il gruppo di appartenenza, sottolinea ancora l’autore, può avere connotazioni e identità differenti a seconda del luogo; e costituisce una entità definita socialmente e culturalmente. I progetti di microcredito, dunque, debbono essere in grado di identificare correttamente coloro che saranno corresponsabili della riuscita del progetto finanziato.

Si tratta di un aspetto importante, alla luce di un dato: mediamente, nei finanziamenti di microcredito viene restituito il 97% dei debiti contratti, un indice di solvenza che di norma non viene raggiunta dalle banche o dagli istituti di credito che operano secondo i criteri di mercato.

Nel testo si sottolinea come sia importante collegare il credito con il risparmio, così da avviare un circolo virtuoso, oltre che spezzare quello vizioso della povertà. Mettere soldi da parte serve per accumulare un piccolo capitale da utilizzare in caso di emergenza o per sviluppare ulteriormente l’attività avviata con il microcredito. Gli organismi che finanziano il microcredito spesso operano mettendo in atto qualche forma di incentivazione al risparmio forzato. In particolare, chiedono che una parte dei soldi presi in prestito siano versati in un fondo apposito, ad un equo tasso di interesse, a parziale garanzia del prestito. Queste risorse economiche, in aggiunta ai risparmi effettivi di quanti sono stati raggiunti dal programma, consentono di raggiungere, almeno in parte, la sostenibilità economica del microcredito, rimettendo a disposizione questi fondi per dare ulteriori prestiti. Dalle analisi svolte sui progetti finanziati con il microcredito, emerge che chi ha avuto un primo prestito tende gradualmente ad accumulare soldi e a chiedere altri finanziamenti. Questi ulteriori prestiti consentono via via di sviluppare ulteriormente la propria attività economica e, più in generale, di innalzare il livello di vita della propria famiglia, ad esempio acquistando i materiali per costruire una abitazione decente.

Un ulteriore elemento significativo del microcredito riguarda il genere dei destinatari: in massima parte, infatti, i beneficiari del prestito sono donne. Questo non accade per caso: secondo i dati dell’UNDP, circa il 75% dei poveri che vivono con un reddito inferiore ad un dollaro al giorno appartengono al sesso femminile; le donne, inoltre, ricevono credito dalle istituzioni bancarie in misura molto bassa. In America Latina e nei Caraibi, ad esempio, le donne costituiscono solo una percentuale oscillante tra il 7% e l’11% dei beneficiari dei vari programmi di credito.

Non stupisce, quindi, che le unità familiari dove il capofamiglia è una donna abbiano molte più probabilità di cadere di sotto alla linea della povertà; tra l’altro, questo andamento è marcato e costantemente in crescita sia nei paesi in via di sviluppo sia nei paesi sviluppati economicamente.

La scelta di privilegiare le donne nell’assegnazione dei prestiti ha dunque da una parte il senso di partire dai segmenti più bisognosi della popolazione, dall’altra corrisponde a una valutazione oggettiva dei risultati: le donne sanno essere solventi molto più affidabili degli uomini. Inoltre, quando le donne hanno la possibilità di ricevere formazione e di avviare piccole attività commerciali, tutta la famiglia ne beneficia; i guadagni vanno a favore dell’intero nucleo familiare, molto più frequentemente di quando accade quando è un uomo a gestire le entrate.

Tra i miti da sfatare sul microcredito, primo fra tutti, c’è la presunzione che questo intervento, da solo, possa eliminare la povertà. In realtà il microcredito costituisce senza dubbio un’efficace forma di prevenzione e di riduzione dell’indigenza, ma da solo non potrà mai avere un effetto definitivo. Ad esempio, se è vero che un piccolo prestito può determinare incremento significativo nella capacità produttiva di un piccolo artigiano, tuttavia questa produzione difficilmente potrà competere con quella industriale, realizzata su larga scala. Inoltre, anche gli effetti positivi del microcredito sono sottoposti a rischi esterni, non governabili e a volte non prevedibili. Ad esempio, le inondazioni che si sono verificate nel 1998 in Bangladesh hanno mandato in rovina oltre la metà dei membri della Grameen Bank. L’acqua ha spazzato via i raccolti e i capi di bestiame, compromettendo drammaticamente sia la capacità di ripagare i debiti contratti sia mettendo a rischio la sostenibilità dei progetti.

Un ulteriore mito che circola attorno al microcredito è quello che considera l’attuazione di questi interventi come un atto di carità, di stampo prevalentemente amatoriale.

L’autore spiega che il successo dei finanziamenti dipende anche dalla qualità organizzativa, dalla trasparenza delle procedure interne e dai sistemi di verifica esterna; ciò è necessario per minimizzare i costi e i rischi di frode o di insolvenza: infatti, se un congruo numero di quanti hanno avuto accesso al microcredito non ripagano i loro debiti, l’intero progetto può andare in bancarotta.

L’attenzione alla professionalità delle operazioni relative al microcredito è necessaria per valutare la qualità del progetto presentato, la capacità di metterlo in atto da parte del responsabile e la disponibilità di sostenerlo da parte del gruppo che ne è corresponsabile. I funzionari dei progetti devono anche mantenere rapporti costanti con i clienti; devono visitarli prima dell’esborso del prestito e subito dopo che questo è stato erogato, per accertarsi che i soldi sono stati utilizzati per lo scopo convenuto; devono monitorare il progetto e intervenire in caso di difficoltà. Questo è il motivo per cui la Grameen Bank e la BRI hanno puntato sulla qualità del personale retribuito: assumono solo laureati o post laureati con il massimo dei voti che sottopongono a corsi di formazione interna sia iniziale sia in itinere.

Molti dei progetti di microcredito legano l’erogazione del prestito alla formazione dei clienti. La formazione di quanti ricevono il prestito è un elemento cruciale perché molti sono analfabeti e mancano di informazioni finanziarie necessarie per svolgere attività economiche, anche se limitate. La formazione genera maggiore produttività e redditività, aggiunge ulteriori possibilità di successo per il progetto finanziato. La formazione può riguardare sia aspetti pratici come le modalità con cui tenere un libro contabile sia aspetti più generali, come nozioni sugli aspetti organizzativi, fiscali e finanziari dell’attività sovvenzionata. Alcuni programmi svolgono anche corsi che abbiano una ricaduta sul nucleo familiare e sulla comunità, dirette soprattutto alle donne: lezioni sulla alimentazione, sulla pianificazione familiare, sulla cura dei bambini.

Secondo il testo di Versluysen c’è ancora tanto spazio per la diffusione del microcredito. Dei circa 7000 programmi di microcredito attivi nel 1996, meno di 750 raggiungevano più di 1.000 clienti. La Grameen Bank, ad esempio, a metà del 1998 aveva aperto 12 uffici regionali, oltre 1.100 filiali e 65.960 centri locali; operava in oltre 38.500 villaggi e contava oltre 2,3 milioni di soci; il 95% dei suoi membri è composto da donne nullatenenti, analfabete, residenti nelle aree rurali più povere del Bangladesh. Ciò nonostante, solo la Grameen Bank e il BRI, operativo a Giava, raggiungono più del 25% di tutti i potenziali clienti; più spesso la percentuale è decisamente inferiore, come per il Bancosol in Bolivia, che ne raggiunge il 10%.

Un ulteriore sviluppo interessante del microcredito riguarda l’attuazione di progetti in paesi con economie in transizione, come l’Albania, la Russia, la Polonia, la Bosnia e diversi paesi dell’ex URSS. Progetti analoghi sono sorti anche negli Stati Uniti e in Canada. In Italia ancora non sono stati avviati programmi di microcredito; eppure, forse ci sarebbe molto da imparare da questa esperienza, alla luce della gravità che costituisce il fenomeno dell’usura, in cui rimangono intrappolati tanti uomini e donne che non hanno avuto accesso al credito.

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