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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

 

Non sono né un produttore né un utilizzatore di teorie sul management. Questo commento sarà pertanto una riflessione che un cultore di economia politica fa attorno alla lettura di un buon libro di economia aziendale, dal quale confesso di aver appreso molte cose nuove e ricche di stimoli intellettuali.

La prima cosa che ho appreso dalla lettura è la differenza di linguaggio e di metodo tra due discipline che dovrebbero essere molto simili, e cioè l’economia politica e l’economia aziendalepdf pdf(l’economics e la business administration). E la mia prima reazione, positiva, è stata proprio constatare che categorie e dimensioni, per me importanti, ma molto marginali, se non del tutto assenti nella letteratura dell’economia politica, sono invece “di casa” nell’economia aziendale: è il caso, ad esempio, del tema delle dimensioni qualitative delle relazioni umane, della spiritualità, della felicità, o delle virtù.

Una seconda riflessione è nata poi dal constatare che alcuni concetti usati dagli autori del libro potessero essere arricchiti, o almeno complicati, da un dialogo con la scienza economica.

Sono queste due reazioni che hanno prodotto le riflessioni contenute in questa nota.

Il libro apre con una dichiarazione d’intenti molto chiara: offrire un contributo per superare la personalità “split” di molti cristiani: cristiani nella vita privata e affettiva, e come tutti gli altri nella vita lavorativa, considerata come un ambito in cui la fede resta fuori dai cancelli perché “non addetta ai lavori”. Una delle cause di questa personalità dicotomica è la mancanza di una formazione culturale adeguata per pensare fino in fondo alle conseguenze che la fede cristiana ha nella vita civile. Il libro vuole fornire un utile strumento a questo scopo. E lo fa con una pars denstruens e con una pars construens: criticando cioè le principali teorie moderne del management (in particolare la teoria classica centrata sugli shareholders e quella, più recente, degli stakeholders), e proponendo una nuova concettualizzazione del management, ipotizzando che la fede conti qualcosa anche nel mondo del lavoro e nelle organizzazioni produttive (come recita il titolo, originale, del libro).

La teoria proposta è quella di organizzazioni concepite come comunità di lavoro, i cui membri lavorano insieme per il conseguimento, diretto e intenzionale, del “bene comune”. Una impostazione quindi in linea con la dottrina sociale della chiesa, ma con una sua originalità di indubbio interesse, perché l’antica categoria del bene comune qui prende le forme di una proposta, ragionata, di uno stile di gestione di organizzazioni produttive moderne e complesse.

Gli autori costruiscono questa loro proposta, o modello, attraverso l’introduzione di diverse teorie, tutte tra loro molto legate. Mi concentrerò su due di esse, che hanno richiamato particolarmente il mio interesse, e che nel libro svolgono una funzione non marginale.

La prima è quella che verte sulla distinzione tra beni di base (“foundational goods”) e beni d’eccellenza (“excellent goods”). I beni di base in un’impresa corrispondono ai bisogni base di un individuo: come l’individuo se non soddisfa i bisogni primari (mangiare, bere, vestire ...) non può fruire di beni superiori quali l’amicizia, la filosofia o le arti, così un’impresa se non realizza profitti e non assicura redditi agli azionisti non può produrre altre forme di ricchezza più alte, i beni d’eccellenza appunto, quali la realizzazione umana, spirituale e relazionale dei vari soggetti dell’impresa. Come nella vita umana esiste una gerarchia di bisogni (il riferimento alla gerarchia di bisogni di Maslow è esplicita e non messa sostanzialmente in discussione), così anche nella vita d’impresa esiste una gerarchia di obiettivi da raggiungere: prima si assicurano le condizioni per l’esistenza dell’impresa (la redditività e l’efficienza), e solo una volta assicurati questi obiettivi di base (foundational), l’impresa può permettersi di puntare all’eccellenza.

Una prima considerazione. Se da una parte è difficile negare la logica e il buon senso di una tale impostazione, dall’altra occorre aggiungere ulteriori precisazioni per non cadere in alcune semplici aporie. Infatti mentre è indubbio che un’impresa che punti all’eccellenza non può non soddisfare requisiti minimali di efficienza, occorre però aggiungere che dal punto di vista etico (che è quello seguito dagli autori) non è accettabile un’impresa che puntasse solo ai primi beni (i foundational) senza curarsi dell’eccellenza, o pensare che i secondi debbano essere necessariamente “secondi”, cioè venire gerarchicamente dopo i primi. Questa non è ovviamente l’intenzione degli autori, che invece, anche se in modo implicito, sembrano suggerire un approccio sincronico e globale ai vari tipi di bisogni: l’impresa deve puntare subito, e allo stesso tempo, ai vari tipi di bisogni, evitando di pensare che i primi abbiano una priorità sui secondi. Se infatti non si elimina questo modo di pensare e di teorizzare (che nella teoria economica ha radici molto profonde: possiamo risalire almeno a J.S. Mill) si arriva alla conclusione che il “come” si assicurano le condizioni minimali di efficienza e redditività non sia importante almeno quanto il raggiungimento degli obiettivi stessi. Non esiste, in altre parole, una neutralità nel conseguire redditività e efficienza, poiché i mezzi impiegati per raggiungerle incorporano già giudizi etici e di valore, che rendono possibile o meno il raggiungimento dei fini, cioè la produzione di beni di eccellenza. Ogni scelta di produzione e di efficienza è già da subito una scelta che incide sui bisogni d’eccellenza, quali la qualità delle relazioni aziendali, la dimensione etica dell’efficienza (si pensi all’ambiente ad esempio) e l’impatto sociale 1.

La seconda teoria introdotta dagli autori è la distinzione tra beni di allocazione e beni di partecipazione. I primi sono necessariamente beni privati (beni il cui consumo da parte di un soggetto riduce, o impedisce, il consumo degli altri: si pensi ad un paio di scarpe o ad una torta), i secondi invece, sono beni il cui consumo di un soggetto aggiuntivo non riduce, o addirittura aumenta, il consumo degli altri. Esempi di questo secondo ordine di beni sono una conversazione piacevole, o il clima di fiducia che si costruisce in un dipartimento di un’impresa, o l’intero clima aziendale.

La teoria economica conosce questi beni, anche se li chiama diversamente (i beni di partecipazione sono chiamati “beni relazionali” o “beni networks”), ma – e qui viene la differenza di approccio tra le due discipline, dalla quale sono partito in questa nota – li studia con obiettivi molto diversi. Infatti l’interesse degli economisti per i beni pubblici (che dai nostri autori vengono chiamati “comuni”, mentre in economia politica i “public goods” e i “commons” sono beni sostanzialmente diversi) nasce dal problema del cosiddetto free riding, e cioè dal constatare che quando esistono beni di uso comune, il cui consumo di un soggetto non è in rivalità con quello degli altri, e normalmente non può essere escluso a chi non contribuisce alla sua creazione (si pensi ad un marciapiede pubblico o alla difesa nazionale), il problema che nella realtà subito sorge è quello di voler usufruire del bene senza volerne sopportare gli oneri per la sua produzione; viene cioè la tentazione di non “pagare il biglietto”. E gli economisti studiano questi beni cercando di disegnare dei meccanismi per far sì che i soggetti siano “costretti” o incentivati a contribuire ai beni pubblici di cui godono.

Gli autori del libro in oggetto non accennano al problema del free riding nella loro trattazione. In un certo senso questo è normale, poiché i beni di partecipazione delle aziende descritti sono abbastanza diversi dall’illuminazione pubblica o da un ponte, poiché c’è un elemento che li rende qualcosa di peculiare, e cioè che per usufruire di quei beni occorre “parteciparvi”: non posso non contribuire se voglio godere di una “gradevole conversazione” durante un intervallo di lavoro. Questo fenomeno è descritto dagli economisti con una strana parola che però rende l’idea: i soggetti che hanno a che fare con questo tipo di beni sono “pro-sumatori”, cioè possono consumare solo se contemporaneamente producono.

Questa peculiarità, però, non elimina del tutto il problema del free-riding, che è (a mio parere) una delle conseguenze nella vita economica del peccato originale. Infatti problemi di opportunismo si creano anche nel contribuire a creare un “bel clima aziendale”, o uno spirito di squadra, non fosse altro perché la contribuzione può essere asimmetrica, come si verifica in quelle comunità umane dove pochi danno molto, e molti danno poco: tutti godono del bel clima, partecipano, ma chi si prende la briga di organizzare la riunione di condominio, di portare i pasticcini, di spazzare alla fine della festa ... sono spesso pochi, mentre tutti si divertono e stanno bene.

Hanno dunque sbagliato gli autori a non trattare del problema del free-riding nel loro modello? Non credo: forse è bene che, nella divisione sociale della conoscenza, spetti agli economisti, i cultori della “dismal science”, di occuparsi dei “fallimenti della vita in comune”, e che i cultori delle scienze aziendali indichino strade per buone pratiche di gestione, con l’obiettivo di prospettare sentieri di realizzazione e di felicità nella vita di un’impresa (mi piace molto il riferimento alla felicità ampiamente presente nel libro).

Un’ultima considerazione relativa al tema del “bene comune”, centrale nella proposta nella pars construens del libro. Gli autori, esperti conoscitori del pensiero teologico e filosofico, sono ben coscienti che il tema del “bene comune” è tra i più scivolosi e ricchi di insidie della storia del pensiero. Riconoscono infatti che l’addentrarsi nel rapporto tra la ricerca dell’interesse individuale (o del bene privato) e il bene comune è stata l’operazione più difficile, ma più importante, dell’intero libro. La loro tesi, in linea con il pensiero della chiesa, è che i soggetti nelle loro azioni abbiano direttamente in mente il bene comune, rifiutando quindi il pensiero molto comune che si esprime nel ragionamento “io conosco solo quale sia il mio bene”.

Personalmente non posso non essere d’accordo con questa tesi di fondo, e condivido pienamente il loro atteggiamento metodologico. La domanda però rimane: come facciamo a sapere quale sia il bene comune in una determinata scelta individuale? E’ infatti nota la diffidenza degli economisti nei confronti di questo tema, almeno da quando Adam Smith nel 1776 affermava: “non ho mai visto che molto bene sia stato fatto da coloro i quali ammettono di commerciare per il bene pubblico” (La ricchezza delle nazioni, libro quarto, cap. 2). Da qui la ricetta proposta dalla grande maggioranza degli economisti di puntare all’interesse personale, e lasciare al mercato svolgere, come una “mano invisibile”, il convogliare quegli interessi particolari verso il bene comune, che arriverebbe come un bene non intenzionale.

Oggi sono molti gli studiosi che si riconoscono nella tradizione inaugurata da Smith, in particolare i sostenitori dell’approccio cosiddetto “austriaco” alle scienze sociali, i quali alla vecchia argomentazione smithiana aggiungono la tesi che la conoscenza è limitata e quindi frazionata in infiniti brani, e ogni persona può solo controllare un piccolissimo brandello di quella conoscenza, e operare in conformità con quella. Non potendo quindi conoscere, per limiti cognitivi, quale sia il bene comune, la cosa più intelligente e utile che possiamo fare sarebbe quindi cercare di raggiungere il nostro bene privato, che possiamo conoscere con maggiore facilità. Una tesi che seppure estremista non è priva di un certo interesse, anche in considerazione del fatto che una posizione molto simile la ritroviamo anche in autori cristiani contemporanei di Smith, come Vico, Galiani o Genovesi.

Questi pensatori, economisti e filosofi, sulla scia della tradizione soprattutto italiana della vita civile, pur negando che i vizi possano diventare di per sé pubbliche virtù, riconoscevano una eterogenesi dei fini, e cioè la presenza di un’intelligenza divina, provvidenziale (l’economista Ferdinando Galiani parlava di una “Suprema Mano”), che a dispetto delle intenzioni individuali, ordina al bene del tutto le passioni private.

Scrive al riguardo il cristianissimo Vico nella sua Scienza Nuova: “Come dalla ferocia, dell’avarizia, dell’ambizione, che sono gli tre vizi che portano a travverso tutto il genere umano, ne fa la milizia, la mercanzia e la corte, e sì la fortezza, l’opulenza e la sapienza delle repubbliche; e di questi tre grandi vizi, i quali certamente distruggerebbero l’umana generazione sopra la terra, ne fa la civile felicità. Questa degnità pruova esservi provvidenza divina e che ella sia una divina mente legislatrice, la quale delle passioni degli uomini, tutti attenuti alle loro private utilità, per le quali viverebbero da fiere bestie dentro le solitudini, ne ha fatto gli ordini civili per li quali viviamo in umana società (1744, §§ 132-133).

In questo brano troviamo però qualcosa di più rispetto alla teoria smithiana della mano invisibile: c’è qui l’idea della “civile felicità”, vale a dire la tesi che non sempre e non automaticamente gli interessi privati tendono al bene comune, ma solo dentro istituzioni civili e giuste. Questa mi pare una tesi interessante anche nel discorso più specifico di un’impresa: un imprenditore, un manager o un lavoratore può avere una buona guida all’azione quando persegue i suoi interessi privati all’interno di istituzioni civili e giuste, quando paga le tasse, non inquina, dà il salario pattuito ai lavorati, esegue con diligenza le prestazioni previste dai contratti.

Basta quindi cercare con correttezza e onestà il proprio interesse per operare verso il bene comune? Non credo, queste condizioni sono però condizioni minimali che in una società civile giusta ci danno buone garanzie per pensare che un imprenditore nel fare il suo lavoro particolare sta, di fatto, edificando anche il bene comune.

Quando le istituzioni civili e giuste non esistono (pensiamo a chi opera in contesti istituzionali non civili e non democratici), e soprattutto in tutte quelle scelte quotidiane che non potranno mai essere regolate daipdf contratti (la scienza economica ci dice che le organizzazioni umane nascano proprio perché i contratti non sono sufficienti, falliscono) la ricerca del bene comune può richiedere qualcosa di più o di diverso rispetto all’interesse particolare: e qui entrano in gioco le dinamiche del dono, della gratuità, in una parola, dell’amore, una categoria quasi del tutto aliena alla scienza economica, che invece, almeno nella ricca impostazione che ho trovato nel libro di Alford e Naughton, sembrano trovare il loro spazio nelle scienze dell’organizzazione aziendale.

Allora ben venga una contaminazione e una fertilizzazione reciproche, una esigenza che avverto come urgente, e di cui questa mia nota vorrebbe essere un’espressione.

 

1 Si potrebbe anche discutere se sia davvero così necessaria la gerarchia di bisogni di Maslow: l’antropologia, e importanti momenti della vita di ciascuno di noi (penso ad esempio all’infanzia, alla malattia o ad altri momenti “forti”) ci dicono che mentre si può anche sopravvivere a lungo vestiti male e denutriti, non si vive senza significati e rapporti con gli altri. 

 

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