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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

 

Vorrei condividere con voi qualche riflessione sulla nostra comune fede e speranza.

Un mese prima dell’inizio del Concilio Vaticano II, l’11 settembre 1962, Papa Giovanni pronunciò una frase molto celebre nei riguardi dei paesi sottosviluppati: “La chiesa è, e vuole essere, la chiesa di ognuno, specialmente la chiesa dei poveri”. Dicendo così il Papa prendeva in considerazione un’altra delle sue intuizioni, ossia lo stare attenti ai segni dei tempi i quali vanno letti alla luce della fede cristiana. In questo caso particolare, pdfparlando della povertà nel mondo, il segno del tempo era, e credo continua ad esserlo, la presenza dei poveri nella storia umana che marca i due secoli precedenti e continua a marcare anche i nostri giorni.

Ritengo sia importante parlare del significato della prospettiva dei poveri nella situazione internazionale attuale e nella teologia. L’espressione “la scelta preferenziale per i poveri”, che voi conoscete, bene fu costruita mattone su mattone dall’esperienza dei cristiani impegnati con i poveri in occasione della conferenza episcopale di Medellin del ‘78. Questa prospettiva è presente anche nella conferenza di Puebla 11 anni dopo. E’ presente anche oggi nella chiesa cattolica e anche oltre i suoi confini. Siamo non solo davanti ad una “opzione preferenziale per i poveri”, ma davanti ad una prospettiva ispiratrice di molte attività dei cristiani in America Latina e in altre parti del mondo.

Penso che ci siano differenti livelli in questa opzione. C’è un livello pastorale e sociale che forse è il più visibile. C’è un livello teologico: approfondire culturalmente la propria fede. C’è anche (e credo sia il più profondo) un livello spirituale in questa opzione.

In questo intervento vorrei mettere l’accento sul secondo aspetto, l’aspetto teologico. Bisogna dire, come prima cosa, che la scelta preferenziale per i poveri ha una dimensione teologica, che sarà oggetto del mio intervento questa mattina. Ma non dimentichiamo che è presente anche negli altri due livelli: nell’annuncio del Vangelo e nel campo della spiritualità. Parlerò alla fine di questi livelli e delle relazioni tra di loro.

Analizzare la prospettiva teologica significa analizzare un aspetto centrale del messaggio biblico, significa parlare della gratuità dell’amore di Dio. Senza ciò non possiamo capire il significato dell’opzione preferenziale per i poveri. Vorrei prendere ispirazione per questa presentazione da una bella intuizione di un uomo che appartiene alla storia del mio continente, intuizione nata dalla sua solidarietà con gli indiani nel XVI secolo. Parlo di Bartolomeo de Las Casas, missionario domenicano, che scrive: “Del più piccolo e del più dimenticato Dio ha una memoria molto fresca e viva”. Mi sembra chiaro questo contrasto: il più dimenticato della nostra storia e della nostra società è quello che è presente in modo speciale nella memoria di Dio.

Partendo da quest’intuizione vorrei presentare la mia riflessione in tre punti: al primo posto la memoria di Dio come fondamento della scelta per i poveri. Poi mi porrò la domanda su chi sia il povero e cosa sia la povertà, interrogandomi sulla nostra comprensione attuale di ciò. Infine vorrei presentare alcune considerazioni su alcuni compiti teologici che abbiamo davanti a noi.

La memoria è un tema che pervade la Bibbia intera. E’ una nozione centrale in entrambi i testamenti. Ma dobbiamo precisare qual è il senso di questa memoria nella prospettiva biblica. La memoria nella Bibbia non significa la relazione principale e esclusiva con il passato. Il suo primo collegamento è con il presente, con la progettazione del futuro. Certamente il passato è lì, ma solamente per dare densità al momento presente. Mi piace molto citare una piccola frase di S. Agostino che, credo, sia molto espressiva: “La memoria è il presente del passato”. Credo che questo sia esattamente quello che è la memoria nella Bibbia: il presente del passato. Il passato ha una grande importanza ma quello che è interessante nella Bibbia per noi è il significato che esso ha oggi. Nella prospettiva biblica la memoria è sempre orientata alla pratica, alla trasformazione della realtà personale o sociale. Se noi dobbiamo fare memoria di qualcosa è attraverso l’azione che lo facciamo. Altrimenti la memoria rischia di essere convertita in una specie di ginnastica intellettuale. Non è il caso della Bibbia, che è una memoria che diventa una richiesta per il comportamento e per la condotta dei credenti. La memoria nella Bibbia, la memoria di Dio è espressione del suo amore. Occorre non dimenticare l’alleanza stabilita con il suo popolo. Per questa ragione la parola “oggi” è cosi importante e significativa nella Bibbia. Nel libro del Deuteronomio la parola “oggi” è presente parecchie volte. Yahwe ha fatto questa alleanza con noi oggi. Cronologicamente non è vero ma è sempre oggi, al presente. Ricordiamoci la frase che dice Gesù nel Vangelo di Luca dopo la lettura di Isaia: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura”. La memoria è un’azione molto complessa nella Bibbia. E noi siamo invitati dalla Bibbia a fare la nostra la memoria di Dio. È una memoria che trasforma la storia in rapporto alla situazione degli ultimi, dei più poveri. Una componente della memoria di Dio è la priorità degli ultimi, degli insignificanti della storia umana. “Non ci saranno poveri tra voi” è detto nel libro del Deuteronomio ed è sempre una indicazione attuale per noi. Non ci saranno poveri tra noi! Essere povero non è mai una cosa buona nella Bibbia. È male perché è una situazione inumana. E se per caso ci sono dei poveri, lo stesso capitolo 15 del Deuteronomio dice: “Voi dovete aprire la vostra mano e il vostro cuore al fratello bisognoso”. Questa richiesta è l’indicazione del comportamento, di condotta e raison d’être della liberazione dall’Egitto, e “dell’alleanza mai revocata” come il biblista Lofink ha detto parecchie volte. La condotta di Dio nella Bibbia riguardo alla storia umana è il fondamento dell’etica per quelli che credono. Per questo “l’altro” viene prima. Levinas chiama questa etica “asimmetrica”. L’altro viene prima. L’etica asimmetrica è un invito per un comportamento cristiano. Dobbiamo fare la scelta per il povero non perché necessariamente il povero sia sempre buono, eticamente o religiosamente parlando, ma perché Dio è buono. Questa è l’ultima ragione della scelta. Se i poveri sono buoni, meglio. Ma non è necessario per fare la scelta. Il fondamento della scelta è la bontà e l’amore gratuito di Dio. È questa l’ultima o la prima ragione.

Alla fine della difficile riunione a Gerusalemme fra Paolo e i suoi amici, Giacomo, Cefas e Giovanni, l’ultima parola di questi apostoli è stata “Ricordati dei poveri”. Dicendo questo gli apostoli hanno seguito la testimonianza di Gesù. Per Lui, lo sappiamo bene, gli ultimi sono i primi. Dare cibo agli affamati è darlo a Lui stesso. Gesù ha detto ai suoi discepoli “Amatevi l’un l’altro, come io vi ho amati”. Questa è la via. Significa “gratuitamente” perché questa è la qualità dell’amore nella Bibbia. Questo significa che il consiglio dato a Paolo stabilisce un collegamento permanente tra l’annuncio del Regno di Dio e la preoccupazione per i poveri. Non possiamo separare l’annuncio del Vangelo dall’amore, dalla solidarietà, dalla scelta per i poveri. Penso che questo sia così anche se noi interpretiamo questo testo in un modo ristretto, come un’indicazione a raccogliere elemosine per i poveri della Chiesa di Gerusalemme. Questa è un’interpretazione molto frequente, ma oggi diversi biblisti non sono d’accordo con essa e ritengono che lo scopo del “Ricordati i poveri” sia di andare oltre la raccolta per i poveri di Gerusalemme. Se è così, è comunque lo stesso perché in quel tempo l’offerta per i poveri era una maniera privilegiata d’essere dalla loro parte.

L’ultimo argomento di questa prima parte: noi ricordiamo bene la frase di Gesù “Fate questo in memoria di me”. Questo ha un significato cruciale per la vita cristiana. Certamente è un’indicazione per celebrare l’Eucaristia come il ricordo dell’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli. Ma non è soltanto questo. Non si può dimenticare che lo scopo della frase “in memoria di me” comprende anche la vita, i gesti, gli atti di Gesù, l’insegnamento, il Regno che ha proclamato, la sua morte, la resurrezione: tutto questo è “in memoria di me”. Non è soltanto il ricordo dell’ultima cena, che è un riassunto della sua vita e della sua testimonianza. “In memoria di me” vuol dire “ricordatevi di me”. Attraverso tutto questo Gesù ha rivelato l’amore di Dio per tutti gli uomini, specialmente per i poveri e gli oppressi. Tutto questo deve essere ricordato nella celebrazione dell’Eucaristia che è ringraziamento e memoria nello stesso tempo. Si fa in comunità perché la dimensione comunitaria, la fraternità, è essenziale per la fede cristiana. Una persona sola è in cattiva compagnia.

Ricordare l’insegnamento di Gesù è la missione, il compito dello Spirito Santo. Noi lo sappiamo bene e ricordiamo i capitoli di Giovanni su questo. Vorrei citare un testo conosciuto del vangelo di Matteo: “Se, dunque, presenti la tua offerta all’altare e lì ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare e va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono”. Non possiamo separare la presentazione dell’offerta (che nel linguaggio cristiano sarebbe l’Eucaristia) dalla celebrazione dell’Eucaristia che è la nostra intenzione di stare in comunione con altre persone.

Paolo, nella lettera a Timoteo, ha riportato questo parlando del ‘ricordare Gesù Cristo’. ‘Fare questo in memoria di me’ è ricordare Gesù Cristo. Non soltanto un punto della sua vita, l’ultima cena per esempio, ma tutta la vita di Gesù.

Vorrei finire questa prima parte citando una piccola frase di un teologo che non appartiene ai paesi poveri ma che mi sembra abbia percepito veramente il senso del messaggio biblico sui poveri. Parlo di Karl Barth. Ha scritto nella sua Dogmatica tanti anni fa, certamente prima della teologia della liberazione: “Dio sta sempre e solamente dal lato dei più poveri, sempre in favore degli ultimi”. E’ sufficiente leggere la Bibbia per capire che i poveri sono i primi, non unici ma primi, nel nostro impegno e amore.

Come sappiamo bene, l’unico soggetto e tema della teologia è Dio. Ma non possiamo separare il Dio di Gesù dai poveri. La preferenza per i poveri è un’espressione (certo ce ne sono altre) essenziale dell’amore di Dio. Noi dobbiamo fare nostra la memoria amorosa e gratuita di Dio.

Vorrei ora cominciare con la seconda parte della mia presentazione sui poveri e la povertà.

Oggi abbiamo una nuova percezione della povertà. Per lungo tempo l’umanità ha considerato la povertà come una realtà inesorabile, un fatto. Questa visione è stata presente anche in documenti ufficiali della Chiesa. Fino alla metà del secolo scorso si parlava dei doveri per coloro che sono nati ricchi e per coloro che sono nati poveri. Questo concetto della povertà è ancora presente tra molti cristiani e soprattutto tra i poveri stessi. Parlo della mia realtà latino-americana dove molti poveri pensano proprio così: se sei povero è un fatto, sei nato così. Ma dobbiamo essere più chiari su ciò. La povertà non è un destino, è una condizione. Non è sfortuna, è ingiustizia. Oggi siamo consapevoli che la povertà è una creazione umana: l’abbiamo creata noi e noi stessi possiamo cambiarla. La povertà ha delle cause sociali e culturali. Cambia così il modo di vedere la povertà.

La conferenza episcopale di Medellin del ‘78 ha parlato delle cause della povertà e credo che in quel momento fosse molto importante. Sulle cause della povertà ha parlato parecchie volte papa Giovanni Paolo II.

Forse possiamo citare ancora S. Agostino: “Dare pane all’affamato è buono - lui pensa commentando Matteo 25 - ma sarebbe meglio non avere affamati. Tu vesti il nudo, ma sarebbe meglio non avere persone nude”. Credo che proprio questa sia la richiesta per noi. Non soltanto aiutare gli altri, ma superare la realtà culturale, economica, sociale, storica perché per noi e per la Bibbia la povertà non è soltanto questione economica. Per la società di oggi il povero è insignificante; si può essere insignificanti per ragioni economiche, culturali, sociali o razziali. La povertà è una questione molto complessa. Oggi molti economisti parlano della multidimensionalità della povertà. Questa idea viene dalla Bibbia. Questa complessità si esprime oggi nelle diverse chiese cristiane, certamente nella chiesa cattolica ma non solo, anche in molte linee teologiche. Si fanno sforzi creativi da parte di teologi che partono da situazioni particolari e da esperienze di persone che vengono da condizioni sociali, etiche e culturali diverse. Per questo si parla di teologia contestuale.

Vorrei dire che, in ultima analisi, la povertà è come la morte. Certamente la povertà riguarda gli aspetti economici e sociali. Ma, in ultima analisi, povertà vuol dire morte ingiusta e prematura, morte fisica da fame e malattia, ma anche morte culturale. Gli antropologi dicono che la cultura è la vita. Quando disprezziamo una cultura, quando non riconosciamo nelle donne la loro dignità, stiamo uccidendo le persone che appartengono a questi gruppi sociali. I domenicani del XVI secolo dicevano: “Gli indiani stanno morendo prima del loro tempo”. Questa espressione è valida anche oggi. I poveri d’Africa per esempio, ma non solo, stanno morendo prima del loro tempo.

Noi, cristiani, dobbiamo essere testimoni della resurrezione che è la vittoria sulla morte. La resurrezione non viene mai chiamata nel Nuovo Testamento un miracolo. E’ troppo grande per essere miracolo. Si parla della resurrezione di Lazzaro, ma non era resurrezione: lui è tornato alla vita. Essere cristiano significa essere testimone della resurrezione di Gesù. Essere testimone della resurrezione di Gesù è cercare di superare la povertà che è morte. La povertà è vista come una cosa inumana, contraria alla volontà di Dio. Ricordiamo il testo citato da Paolo, “Oh, morte, dov’è la tua vittoria?”

Passiamo al rapporto tra evangelizzazione e liberazione.

Parlare della dimensione teologica della scelta per i poveri ha molte conseguenze. Vorrei porre l’accento su una di esse: fino a tempi recenti in teologia si separava la promozione umana dall’evangelizzazione. Abbiamo questo punto anche nel Concilio Vaticano II, dove era vivo un dibattito sulla relazione tra progresso umano in “Gaudium et Spes” e crescita del Regno. Alcune teologie separano queste cose e in queste teologie è difficile trovare la dimensione salvifica della vera promozione umana. Credo che se noi assumiamo come punto di vista quello del povero è necessario andare avanti: se la povertà è contraria alla volontà di Dio, combatterla significa dire “sì” all’arrivo del Regno di Dio nella storia. Essere contro la povertà è accettare il Regno di Vita nella storia umana.

In un primo momento questa posizione è stata molto controversa. Infatti, non è facile accettare l’irrompere del Regno di Dio nella nostra storia e vita quotidiana. Forse voi conoscete una poesia del poeta francese Jacques Prévert che si chiama “Padre nostro”. Comincia così: “Padre nostro che sei nei cieli, restaci” perché se tu vieni la storia sarà cambiata. Rimani lì perché noi già abbiamo le nostre teologie e teorie su come essere cristiani. Per questo parlavo dell’irrompere del Regno che non soltanto arriva, ma viene in una maniera molto forte.

Nelle ultime decadi abbiamo assistito ad un cambiamento sostanziale nella relazione tra evangelizzazione e promozione. Oggi c’è consenso nel vedere la lotta per la giustizia come una parte intrinseca dell’evangelizzazione. Possiamo trovare tanti testi che riportano questa prospettiva, nei testi della conferenza episcopale di Puebla e nell’insegnamento di Paolo VI e di Giovanni Paolo II. La lotta per la dignità umana contro l’ingiustizia che è la povertà è, vi prego, non solo economica; è una maniera di affermare la presenza di Dio nella storia.

Vorrei di nuovo sottolineare i tre livelli della scelta preferenziale per i poveri: pastorale e sociale, teologico, e spirituale.

Un uomo molto intuitivo e che ha sofferto molto, Walter Benjamin, diceva, partendo dalla sua esperienza, che noi dobbiamo imparare a leggere la storia in contropelo, dal basso. Credo che questa prospettiva sia molto importante per fare teologia. Era la prospettiva di Las Casas: partire dalla situazione degli indiani per riflettere su tanti punti del messaggio cristiano. Forse possiamo essere ancora più precisi: dobbiamo partire dalla memoria di Dio che è sempre presente nella storia; una componente di questa memoria è la scelta preferenziale per i poveri.

Scelta non significa semplicemente sensibilità sociale. La sensibilità è molto importante ma non è sufficiente in questo caso. Dobbiamo prendere la situazione dei poveri e partire da questa situazione per ripensare il messaggio biblico. Fare la scelta per i poveri significa essere in solidarietà con loro e significa anche una protesta contro la povertà. “Dobbiamo essere con i poveri ma contro la povertà”, ha scritto più o meno cinquanta anni fa, prima della teologia della liberazione, un filosofo cristiano, Paul Ricoeur. Mi sembra forte ma molto chiaro.

Dobbiamo per esempio studiare la globalizzazione a partire da ciò che essa significa in primo luogo per i poveri. Prendendo l’ispirazione dal testo del libro dell’Esodo possiamo chiederci: dove vanno a dormire i poveri nel mondo? Per noi cristiani questo è un punto di partenza. Il criterio per noi è la situazione degli ultimi della storia.

La teologia è sempre un’ermeneutica della speranza, un’interpretazione della speranza e delle sue ragioni. E’ dare, come si dice nella lettera di Pietro, le ragioni della speranza che è in noi. E’ il senso della teologia. Ricordare ai cristiani le ragioni della speranza che dobbiamo vivere come discepoli di Gesù Cristo.

Oggi assistiamo a un grande sforzo per convincere le persone, specialmente i poveri, che stiamo vivendo un momento storico radicalmente nuovo. Oggi si dice che nulla di quello che è stato fatto prima ha valore o interesse. Tutto dobbiamo cominciare da capo. E’ un modo per dire ai poveri: voi dovete cominciare di nuovo, tutto quello che avete fatto non ha senso oggi. Dicono che viviamo un periodo post-moderno, post-industriale, post-capitalista, post-coloniale, post-socialista. La gente oggi ama essere “post”. Allo stesso tempo le stesse persone dicono che assistiamo alla morte della filosofia, la morte della metafisica, la morte delle ideologie, la morte dell’utopia. Troppe morti! Infine un certo umorista (qualcuno lo chiama filosofo, non so perché) ha parlato della fine della storia. Ma queste morti vogliono dire: dobbiamo cominciare di nuovo.

Non nego che ci siano aspetti nuovi in questo momento, ma presentarli come cambiamento totale del nostro tempo, non è vero o almeno è esagerato. Per esempio, presentare la globalizzazione come l’unica via, crea grandi disuguaglianze. Oggi la distanza tra nazioni e persone ricche e nazioni e persone povere cresce ogni giorno. La globalizzazione è un fatto. Essere contro globalizzazione in quanto tale, è come essere contro l’energia elettrica. Non possiamo. Il problema è il modo di fare globalizzazione.

La teologia ha una funzione critica di fronte a questa situazione. Bisogna discernere. Da un lato deve essere molto critica, denunciare il disprezzo per la dignità umana, l’ordine economico e le categorie culturale dominanti. Dall’altra parte la teologia deve riaffermare e sollevare la speranza dei poveri. La speranza è una grazia, è un dono. La teologia deve essere, comunque, radicata nella vita quotidiana dei credenti. La riflessione teologica deve approfondire il collegamento tra il Regno di Dio e la storia umana attraverso la pratica dell’amore e della giustizia. Alcune persone trovano questo compito troppo teorico. Non penso sia così. Ricordo bene che quando ero studente di medicina, un mio professore di fisiologia (ma quello che ha detto vale anche per la teologia) diceva: “Nulla è più pratico di una buona teoria”. L’accento va messo su “buona”!

Abbiamo il compito di approfondire la spiritualità della scelta per i poveri. Un grande teologo, Marie-Dominique Chenu, ci ha insegnato che la teologia è una riflessione sulla nostra spiritualità, il nostro modo di essere cristiani. Lui diceva che per capire Tommaso, dobbiamo andare a studiare Domenico perché la spiritualità è l’appoggio alla teologia. La teologia non è dietro la spiritualità. È la spiritualità che è dietro di teologia.

Per finire vorrei ricordare un testo del Vangelo di Marco che si chiama l’unzione di Betania. Una donna anonima (solo in Marco è anonima) versa un vasetto pieno d’olio profumato sui piedi di Gesù. Ricordate il dialogo seguente: “questi soldi potrebbero servire ai poveri. E Gesù dice: “Questa donna ha fatto un’opera buona e bella” perché kalos è la parola greca che ha questi due sensi. Dopo di questo abbiamo la celebre frase che viene dal Deuteronomio: “Avrete poveri sempre con voi”.pdf Per capirla dobbiamo andare al capitolo 15 dal Deuteronomio. Ma quello che è interessante è che Gesù ha considerato il gesto della donna come qualcosa di gratuito. Un atto gratuito è sempre una cosa unica. Abbiamo in questo testo due linguaggi della teologia: il linguaggio profetico della giustizia - avrete i poveri sempre con voi e dovete essere impegnati con loro - e il linguaggio mistico che è la gratuità. Fare qualcosa che è inutile, è come dare un regalo simbolico che esprime l’amore, l’amore gratuito. Credo che questi due linguaggi (di giustizia e di gratuità) siano i due linguaggi della teologia. Per analizzarli ho separato i due linguaggi, ma dobbiamo cercare di unirli.

Per finire vorrei ricordare le parole di Gesù: “In verità vi dico ovunque sarà annunziato il Vangelo, si racconterà ciò che lei ha fatto”. In due mila anni non abbiamo fatto questo perché ancora in molti posti essere una donna è essere povera.

Nota

* Il testo che riportiamo è la trascrizione dell’intervento di P. Gustavo Gutierrez OP tenuto in occasione dei festeggiamenti del 50° della Fass, ciò spiega il carattere discorsivo dello stesso. 

 

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Albino Barrera OP  -  Stefano Menghinello  -  Sabina Alkire

Introduction of Piotr Janas OP