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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

 

Nota della redazione: questo discorso che sintetizza alcuni dei temi principali discussi durante il convegno milanese è stato presentato ad un incontro del gruppo “Finanza e bene comune” che si riunisce alcune volte all’anno presso la Facoltà di Scienza Sociali (FASS) della Pontificia Università San Tommaso (PUST)pdf

Comincerei col richiamare l’attenzione su che cos'è l'economia, ricordando che l'economia si occupa dei modi in cui delle risorse primarie (come le chiamiamo noi economisti), che sono ‘scarse’ e ‘fungibili’ – cioè: il lavoro; la terra; gli stessi capitali, i quali sono beni di produzione prodotti, però non consumati come tali e quindi considerati anche loro fattori primari; la capacità imprenditoriale – vengono trasformate in altre risorse, fruibili dai soggetti, cioè in beni e servizi (sarebbero le risorse secondarie), che soddisfano, direttamente o indirettamente, i più vari bisogni umani: di tutto ciò si occupa l'economia. Ora, però, a questo punto, tra economisti ci si divide, grosso modo, in due gruppi di posizioni. La prima posizione ritiene che l'economia sia self-contained, autosufficiente, autoreferenziale, mentre del tutto separatamente c'è il mondo dell'etica che, per dire, sta lì, mentre l'economia sta qui, cioè l'etica è ‘dentro il soggetto’, mentre l'economia è ‘nel mercato’. L'altra visione ritiene, viceversa, che l'economia, anche quella ‘di mercato’, abbisogna di essere fondata su ‘valori morali’, e questo sia per motivi propri interni alla disciplina, altrimenti l'auto-sufficienza si trasformerebbe – com’è stato dimostrato – in circolarità, cioè un qualsiasi modello non riuscirebbe a spiegare tutta la realtà dell'economia, sia perché si ritiene che, esplicitamente o implicitamente, ci siano dei valori fondanti della stessa economia che vanno tenuti presenti sempre, in ogni situazione in cui si affrontano i problemi economici.

Detto questo, ne deriva una conseguenza importante: secondo la prima visione il soggetto economico è un soggetto razionale, massimizzante, ottimizzante, che risolve ‘da sé’ qualsiasi questione che riguardi l'economia; viceversa, dall'altra parte c'è una visione più limitata della razionalità, in quanto si ritiene che la razionalità umana sia sottoposta a una serie di vincoli, di condizionamenti, in particolare di premesse di ordine valoriale.

Ora, chiediamoci: come si colloca nel contesto di quanto appena richiamato una tematica quale quella dibattuta nel Convegno di cui ci occupiamo, ma che, al di là del Convegno, viene studiata da tempo nei ‘soliti’ Stati Uniti ed anche in Italia ha ricevuto interesse di recente, ossia quella dei rapporti tra felicità ed economia, tra felicità e crescita economica? Questa la domanda. Anche in proposito, bisogna dire onestamente che ci sono due posizioni.

Da una parte, abbiamo la visione degli studiosi italiani, come Stefano Zamagni, Luigino Bruni, ed altri, i quali si riportano più che altro a posizioni che, nel merito, si fanno risalire a quelle sostenute nel '700 dagli illuministi italiani, i quali hanno avanzato la tesi – che riprendevano peraltro dai teorici del cosiddetto umanesimo civile – che scopo dell'economia era la felicità pubblica, intendendosi per felicità pubblica quella che implicava e conteneva anche i cosiddetti ‘rapporti relazionali’ con le altre persone. Questa è la tesi, tant’è che il ‘succo’ della relazione di Zamagni è che, sostanzialmente, felicità e individualismo assiologico, o etico, sono un “binomio impossibile”. In effetti, secondo questa linea di pensiero, la felicità pubblica, contenendo in sé anche aspetti di relazionalità, non è tanto da intendersi come quella derivante dal consumo dei beni pubblici (la difesa, la giustizia, la legalità), che pure sono importanti, bensì soprattutto quella riveniente dai rapporti o relazioni tra le persone. Si comprende che, al fondo di tale posizione, c'è un’ispirazione cristiana, o meglio cattolica, di relazionalità come aspetto posto al centro dell'auto-realizzazione, o comunque realizzazione, della persona.

Si noti però, a proposito di illuministi italiani, che si era già in presenza di una duplice tradizione: da una parte, gli illuministi lombardi, soprattutto Beccaria e Verri, i quali essendo lombardi erano più concreti; dall’altra, la tradizione napoletana, soprattutto facente capo all'abate Antonio Genovesi (il più ‘gettonato’ da Bruni e Zamagni), il quale ha appunto parlato esplicitamente di felicità pubblica come ‘fine o scopo’ dell’economia, ed ha anche sottolineato il collegamento tra questo modo di intendere l'economia e la tradizione cristiana. Tuttavia, en passant, io mi chiedo come mai ‘il progetto’ di Genovesi sia poi caduto nel nulla, mentre la tradizione di Beccarla, o Verri, quella – a mio avviso – legata a Smith, sia stata ripresa, valorizzata, applicata concretamente in tutti i paesi che si sono via via industrializzati e, dunque, ‘affrancati’ dalla miseria e dal sottosviluppo. Tutto ciò lo sappiamo bene noi italiani, sappiamo bene cioè ‘che fine’ ha fatto l'economia meridionale, mentre quella lombarda è andata un po' meglio, ma molto meglio è andata l'economia britannica, dove Smith – che si è occupato degli stessi argomenti sostenendo, come sapete, nella Ricchezza delle nazioni (1776), la ‘cesura’ tra aspetti morali ed aspetti economici delle azioni umane – lo ha fatto ‘ritagliando’ all’economia, per dire, un proprio ruolo ma ciò, non a scapito dell’etica, bensì (se mi è consentito parafrasare addirittura Gesù) ‘dando all’economia ciò che è dell’economia ed all’etica ciò che è dell’etica’.

Io sono proprio convinto che è così, ed anche la posizione di Pasinetti è sembrata (nel Convegno) essere vicina alla mia: ripeto che è vero che Smith ha ‘separato’ l'economia dalla morale, ma ha separato, come dire, la compresenza delle due nello stesso ambito, non ostacolando viceversa il ruolo delle premesse morali in economia, perché ha parlato della benevolenza e della simpatia come ‘valori’ che sottendono l'economia di mercato, senza però ‘identificarvisi’. La vera ‘cesura’ – come anche Pasinetti ha esplicitamente richiamato – è avvenuta con la ‘rivoluzione marginalista e, quindi, con l'economia neoclassica che, alla fine del secolo XIX, si è imposta e che ha rappresentato poi il filone maggioritario nella teoria economica per circa 70 anni. L'economia neoclassica è quella che ha assolutizzato il postulato dell'homo economicus, rendendo del tutto ‘scissa’ l'economia da qualsiasi premessa morale. Tale posizione, tra l’altro, ha trovato in Italia il suo maggiore rappresentante pre-keynesiano in Vilfredo Pareto, mentre Max Weber è stato, forse, il suo teorizzatore più influente, anche se Weber era un sociologo e non un economista. E’ questo ‘passaggio’ che ha determinato una serie di guasti e di guai, rispetto ai quali (per fortuna) il grande economista inglese J.M. Keynes ha finalmente ‘messo le cose a posto’ nella sua opera ‘rivoluzionaria’ La Teoria Generale (1936).

Orbene, anche a proposito del discorso che si sta qui facendo, cioè parlando di felicità e del suo rapporto con l’economia, Keynes è, secondo me, attualissimo. Siccome non era solo un grande economista, ma un grande pensatore tout court, Keynes ha sostanzialmente delimitato, ma secondo me valorizzandolo, il ruolo dell'economia, quando ha scritto che l'economia non si occupa della civiltà, perché la civiltà è qualcosa che va al di là dell'economia, ma si occupa delle condizioni che ‘rendono possibile’ la civiltà. ‘Parallelamente’, la mia conclusione qui è che la felicità non è, per dire, ‘intrinseca all'economia’: anche per la felicità, allora, penso che la posizione più corretta sia quella di dire che l'economia non si occupa della felicità, ma di realizzare le condizioni che possono rendere le persone felici. In effetti, mi si consenta di dire che, così ‘delimitando’ il compito dell’economia, stiamo evitando di ‘scivolare’, per dire, in un ‘imperialismo dell'economia’ di sinistra, così come spesso capita, all’estremo opposto, al cosiddetto ‘pensiero unico’ o ‘globalizzante’ – ma molti di noi accusiamo il pensiero liberista proprio per questo – di perseguire un ‘imperialismo dell’economia’ di destra.

Dall’altra parte, il diverso modo d’intendere il rapporto tra felicità ed economia, tra felicità e crescita economica, è più noto: è quello nato negli Stati Uniti e, naturalmente, ivi ‘si sposa’ col pensiero dominante, in particolare quanto ad un certo specifico gruppo di economisti che portano avanti tale discorso ormai da alcuni anni. Il primo è stato Easterlin, il quale da tempo (almeno dal 1974 fino a tutt’oggi, 2001-2003), è venuto elaborando tutta una serie di analisi empiriche ed è soprattutto celebre perché ha scoperto quello che si chiama, da allora in poi, “il paradosso della felicità”. Questo, secondo Easterlin, consiste nel fatto che, quando aumenta il reddito, e quindi il benessere economico, la felicità umana aumenta fino ad un certo punto, poi comincia a diminuire, mostrando (in un grafico cartesiano a due dimensioni) quella che, tecnicamente, chiamiamo ‘curva ad U’ rovesciata. Allora, tutto sommato, ed è questa la conclusione di Easterlin, ‘il gioco non vale la candela’, e quindi – come ‘indicatore di benessere’ – sarebbe meglio non far più riferimento al reddito, ma direttamente alla felicità.

Ora, che cos'è la felicità in impostazioni di questo tipo? Finora, non l’ho definita, ma è arrivato il momento per farlo. Nella versione americana della teoria in considerazione, dove ‘si sposa’ con l'individualismo, la felicità non è altro che la realizzazione piena del soggetto in base alle sue preferenze (noi economisti parliamo di preferenze, altri parlano di desideri, aspirazioni, eccetera). Tuttavia, io dico subito che, quando si parla di ‘realizzazione piena’, a parte l'aspetto di etica soggettivistica che sta sotto al concetto, anzi al di là di quest’aspetto, facendo un discorso qua economisti e, dunque, alla luce delle considerazioni che ho fatto prima, saremmo a mio avviso fuori dall'economia, cosicché – come argomentato – è importante delimitare. Altrimenti, per dire la cosa ‘senza mezzi termini’, qual è il ruolo della morale? Se, infatti, riteniamo che l’economia debba occuparsi della ‘realizzazione piena’ delle persone, stiamo appunto combinando il ‘guaio’ dell’“imperialismo dell'economia” di sinistra, e lo spazio per la morale sarebbe sostanzialmente inesistente’.

La ‘vera’ distinzione tra economia e morale, e quindi tra beni economici e beni morali, non può che essere la seguente: i beni economici non hanno valore in sé, ma valore strumentale, cioè servono a soddisfare bisogni umani, per esempio il cibo è importantissimo in quanto serve a soddisfare il bisogno del mangiare, ma è il mangiare il bene in sé, mentre il cibo è il bene strumentale. Il bene in sé è il bene morale, e ciò in quanto ha un valore intrinseco; per cui, la stessa relazionalità, la quale – secondo gli economisti che se ne occupano – è qualcosa di più di quelle che noi chiamiamo le esternalità, io la vedo piuttosto come un bene morale. C’è un esempio che il collega Benedetto Gui ama fare e che a me sembra proprio essere un caso in cui quello che per lui è un bene economico per me è un bene morale: dal barbiere, come ben noto, il bene economico è il taglio dei capelli, e tuttavia, se questo ‘si arricchisce’ perché intrattengo con lui e con gli altri clienti un rapporto di relazionalità, perché chiacchiero, ma ciò non mi costa nulla in più, si configura per Gui un ulteriore bene economico, il cosiddetto ‘bene relazionale’, mentre a me questo modo di presentare il problema non convince. Per me questo è un bene morale, ed in generale il bene morale non può non continuare ad esistere e ad avere grande rilevanza: la relazionalità, l'amicizia, l'amore, eccetera, sono tutti beni morali; per cui, quando l'economia, invece, li ingloba dentro il discorso economico, commette appunto un ‘peccato di imperialismo’. In conclusione, il bene morale è un bene in sé, il bene economico è un bene strumentale, ed ancora – va sottolineato - il bene ‘moneta’, essendo a sua volta strumentale per ‘acquisire’ un bene economico, si può ben considerare, per dire, un bene strumentale ‘di secondo ordine o grado’.

Riprendendo il ‘filo del discorso’, va aggiunto che dalla posizione di Easterlin si sono venuti dissociando negli stessi USA alcuni altri studiosi. Così, ad esempio, uno come Kahneman, nato psicologo e recentissimo Premio Nobel per l’Economia, ha argomentato in modo convincente che il motivo per il quale Easterlin ha individuato il ‘paradosso della felicità’ è che, in realtà, attraverso le interviste alla gente ha ottenuto risposte fornite in base a quello che la gente dice, ma non in base a quello che fa: il fatto è che la gente commette un errore di autovalutazione, ed è perciò che tale studioso ha inventato un tipo di interviste tramite le quali riesce a far emergere un concetto ‘oggettivo’, non ‘soggettivo’, di felicità, un concetto che quindi, nelle risposte alle interviste, ‘prende il posto’ della risposta superficiale e mostra quello che realmente fa la felicità della gente. Ancora, c'è un terzo filone analitico statunitense da segnalare, quello che si rifà a Robert Frank ed è più ‘vicino’ a quello degli italiani: in effetti, per lui la felicità è intesa come valutazione che i soggetti danno dei rapporti relazionali, per cui, per dire, è un po’ ‘a metà strada’ tra la felicità privata e la felicità pubblica, giacché sembra prevalere un’idea di felicità privata dove, però, le persone, pur su un piano strettamente soggettivo, valutano anche la loro posizione sociale.

Comunque, per rappresentare le posizioni alla Easterlin viene costruito – come accennato sopra – un grafico che, utilizzando come di consueto un diagramma cartesiano e ponendo sulle ascisse (asse delle x) il livello del reddito personale e sulle ordinate (asse delle y) quel livello di felicità che la gente (soggettivamente) annette ad ogni (crescente) livello del reddito, mostra appunto una relazione che cresce fino ad un certo punto e poi comincia a decrescere. D’altro canto, per uno studioso come Luigino Bruni, il grafico è in sé fuorviante: in realtà, la funzione da rappresentare sul grafico dovrebbe essere più complessa, vale a dire del tipo: F = f (I, R), dove F esprime la felicità, I è il reddito personale, mentre con R vengono indicati gli effetti, largamente negativi, che il reddito stesso, al crescere, determina sui beni relazionali di cui possono usufruire le persone. Allora, proprio in quanto, in più, si può ipotizzare che si abbia: R = R (I), con R’<0, segue che, al crescere del reddito, può anche crescere il benessere materiale; ma, siccome i rapporti relazionali peggiorano tanto più quanto più il reddito aumenta, allora tale secondo effetto può far peggiorare la situazione complessiva del benessere al crescere del reddito. Segue che, solo intervenendo sul ‘rafforzamento’ dei rapporti di relazionalità tra le persone, è possibile ‘controllare’ quell’effetto complessivo e, quindi, puntare validamente alla felicità come obiettivo ‘di fondo’ dell’economia.

Ora, in proposito, si comprende che non mi sento di condividere tale posizione. In primo luogo, è cruciale tutto quanto argomentato sopra in tema di ‘imperialismo dell’economia’. Inoltre, formulo la preoccupazione che quel tipo di discorso concerne solo i paesi ricchi, anzi un’élite di persone di tali paesi, cioè coloro che hanno un reddito molto alto; ed allora chiedo: perché non pensiamo a quello che proponeva il grande Keynes e faceva il grande Roosewelt, vale a dire realizzare una certa tassazione progressiva, cosicché, togliendo un bel pezzo di reddito ai ricchi, possiamo anche neutralizzare i predetti effetti? L'ulteriore obiezione, ancora più grossa, riguarda il fatto che, se è vero, com’è vero, che quegli effetti riguardano i ricchi dei paesi ricchi, si tratta di qualcosa che concerne il 7-8% della popolazione mondiale. Ciò è perché, essendo la popolazione dei paesi ricchi il 14-15% della popolazione mondiale, supponendo pure che la metà sia composta da persone ‘agiate’, se non tutte proprio ‘ricche’, è evidente che si tratta di un fatto che riguarda una minoranza degli abitanti del pianeta. Quanto al ‘resto del mondo’, anche togliendo alcuni paesi emergenti, come il Brasile, la Tailandia, la Malesia, l'Indonesia e pochi altri, dove ‘qualcosa si muove’, anche se pure ‘non è tutto oro quel che riluce’, allora quel discorso che, seppure a livello interno dei paesi ricchi potrebbe trovare una certa soluzione in base a quanto appena richiamato, non può sicuramente trovarla sul piano mondiale, a meno che non vi sia un grosso trasferimento di risorse dai paesi ricchi a quelli poveri. Anzi, pdfe non sembri frutto di snobberia o di paradosso, si potrebbe ‘mettere in moto’ una certa iniziativa tendente proprio a destinare certe somme, che derivassero dalla tassazione progressiva di cui ho detto, ai paesi poveri del Sud del mondo. A quel punto, anche senza ‘prendere posizione’ in tema di rapporti tra economia e felicità, si può essere certi che alcuni dei gravissimi problemi che affliggono tante popolazioni povere del pianeta potrebbero essere avviati ad una qualche soluzione.

 

Bibliografia essenziale

Bruni, L. (2002) “L’economia e i paradossi delle felicità”, in P.L. Sacco - S. Zamagni (Cur.), Complessità relazionale e comportamento economico, Bologna, Il Mulino.

Easterlin, R.A. (1974) “Does Economic Growth Improve Human Lot? Some Empirical Evidence”, in P.A. Davis - M.W. Reder (Eds.), Nations and Households in Economic Growth: Essays in Honor of Moses Abramowitz, New York-London, Academic Press.

Easterlin, R.A. (2001) “Income and Happiness, Towards a Unified Theory”, Economic Journal, luglio.

Easterlin, R.A. (2003), “Building a Better Theory of Happiness”, Relazione al Convegno di Milano, 21 marzo 2003.

Frank, R. (1985) Choosing the Right Pond, New York, Oxford University Press.

Kahneman, D. (2003) “Some Attemps to Measure the Affective Component of Well-being”, Relazione al Convegno di Milano, 21 marzo 2003.

Zamagni, S. (2003), “Happiness and Individualism: An Impossible Marriage”, Relazione al Convegno di Milano, 23 marzo 2003. 

 

 

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