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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

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A novembre la democrazia americana sceglie il leader del prossimo quadriennio: al confronto l’attuale presidente repubblicano George W. Bush e lo sfidante democratico John Kerry. Favorito sembra il presidente in carica, premiato dalla prerogativa di comandante in capo dell’esercito impegnato nella “guerra al terrorismo” e dal risvegliato nazionalismo statunitense, ma la serie di scontri televisivi ha favorito Kerry e quindi potrebbe esserci una sorpresa. Bisognerà vedere quanto eventuali fatti clamorosi, legati all’andamento della campagna irachena e di quella contro il terrorismo, potranno pesare sugli elettori all’ultimo momento.

Il confronto tra i candidati è occasione per una lettura complessiva del momento politico statunitense: nessun presidente si sentirà mai vincolato dalla sua piattaforma elettorale, ma gli issues sollevati dai contendenti dicono molto su aspettative dei cittadini e capacità delle autorità di soddisfarle.

La questione più rilevante è la “guerra” dichiarata da Bush al terrorismo in risposta ai fatti dell’undici settembre 2001, che ha avuto, tra gli effetti, l’invasione di Afghanistan e Iraq. Di guerra si tratta e non di “lotta”, nel senso che mette l’uso delle forze armate come chiave prioritaria, e apparentemente esclusiva, per la soluzione del problema. Se l’elettorato è dichiaratamente favorevole alla necessità di rispondere ai colpi del terrorismo, non è altrettanto chiaro se appoggi sino in fondo l’azione del presidente in Iraq. Da un lato sono circolati documenti che contestano alcune delle motivazioni addotte per scatenare l’attacco all’Iraq, dall’altro le pesanti perdite tra armati statunitensi e popolazione irachena (polizia e militari inclusi), il caos civile religioso ed etnico dell’Iraq, l’evidente mancanza di controllo di truppe d’occupazione e locali su fenomeni quali azioni terroristiche e sequestri, minano seriamente la credibilità dell’azione condotta sin qui da Bush. Kerry è ambiguo sulla guerra irachena, ma dice con chiarezza che occorre allargare il ventaglio delle opzioni di politica estera pescando con generosità nelle opportunità date dal “soft power” americano: economia, cultura, relazioni multilaterali, etc. Il candidato democratico, di fronte a un’opinione pubblica ancora frustrata dai fatti dell’undici settembre, è però cauto non volendo vellicare le passioni nazionaliste e bellicose di larghe fette d’elettorato.

La seconda questione riguarda l’economia. L’attuale presidente ha divorato l’attivo di bilancio ereditato da Clinton, creando una voragine nei conti pubblici che sarà complicato sanare in futuro. Il paese e le famiglie sono indebitate oltre ogni aspettativa dei mercati, mentre la debolezza del dollaro, se aiuta la bilancia commerciale, è segnale del calo di fiducia dei mercati. Negli anni di Bush, la cancellazione di programmi sociali, la riduzione di imposte sui ceti billionaire, i favori espliciti verso taluni settori del big business hanno fatto scandalo, ma sono andati di pari passo con un mercato del lavoro che ha saputo sempre reagire a tempo e una curva dei consumi che, se pure non eccezionale, ha fatto meglio di quella europea. Kerry, che si professa vicino ai sindacati e ai blue collar, ha promesso di arricchire il welfare e modificare la tassazione delle multinazionali. Poco per cambiare la natura del capitalismo americano.

Sulle questioni capitali del pianeta, ambedue i candidati volano basso. La campagna elettorale sembra non respirare il malessere che c’è in giro: ad esempio riguardo al buco d’ozono nell’atmosfera, alla disperazione dei paesi in sviluppo, alle guerricciole etniche e religiose del Caucaso, dell’Asia, dell’Africa.

Se Kerry non troverà il colpo d’ala nella fase finale della campagna, sarà Bush a guadagnarne, perché la piattezza delle ambizioni americane, apparentemente concentrate sulla sicurezza interna, non potranno che favorire il candidato che le rappresenta con maggiore decisione e coerenza.

Appena pochi giorni prima del voto americano, in Europa, il 1 novembre, era prevista l’entrata in funzione la nuova Commissione dei Venticinque. Il portoghese Jose Manuel Durao Barroso, conservatore e democristiano ,ha incontrato le note difficoltà nell’assemblare la nuova Commissione.

Obiettivamente, il momento europeo è complesso: lo sviluppo stagna, i consumi sono piatti, non vi è certezza sull’approvazione della Costituzione da parte di Parlamenti e referendum, il patto di stabilità è platealmente violato dalle più grandi economie dell’Unione. Non ci sono i soldi per fare le riforme, e spingere le economie più arretrate del centro est Europa verso l’integrazione.

Purtroppo l’Unione ha perso la grande opportunità offertale dalla trattativa intergovernativa sul trattato costituzionale. Avrebbe potuto stimolare un dibattito effettivo all’interno dei popoli dell’Europa sulla propria natura e sul proprio destino, motivando scelte politiche che, al contrario, non sono state operate. La banalizzazione della fase che ha preceduto la firma del trattato costituzionale, spiega, tra l’altro, una parte delle assenze dalle cabine elettorali in occasione delle elezioni europee del 12-13 giugno.

C’è un’aspettativa: che il presidente statunitense uscente dalle elezioni di novembre e la nuova Commissione, riallaccino i rapporti di convinta collaborazione. Lo chiede lo stato del mondo, in particolare là dove povertà e sottosviluppo, guerra, grandi malattie, attentano alla speranza di futuro.

 

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