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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

I posteri, non c’è dubbio, avranno una pessima opinione della nostra coerenza. Se, nell’avvenire, qualcuno sarà così predispostopdf ai contorsionismi intellettuali da scegliere di approfondire l’evoluzione delle leggi elettorali a cavallo del ventunesimo secolo in Italia, non potrà che scoprire le profonde contraddizioni di un dibattito che apparirà, perlomeno, incredibile.

Delle discussioni che hanno portato nei primi anni Novanta alla promulgazione di una legge elettorale in senso maggioritario si è, oggi, persa completamente traccia. Come mai? A cosa si deve questa memoria corta? Anzi, in modo speculare, si potrebbe dire che gli stessi discorsi che hanno promosso il maggioritario sono stati utilizzati, nel 2005, per ritornare a un sistema dalle sembianze (neanche troppo aderenti) proporzionali. La faccenda, così messa, si fa assai più patologica. È chiaro che si dovrebbe ricercare qualche agente schizofrenico per rendere conto di cotanta incoerenza. O forse, al nostro ipotetico ricercatore futuribile, basterà indicare l’opportunismo becero della nostra classe al governo per sciogliere i quesiti centrali.

Aveva un senso, nel 1994, invocare un sistema elettorale in grado di garantire un misura maggiore dei governi stabili e operosi. Si ricorderà, infatti, che si usciva da una stagione politica davvero inclemente, nella quale la partitocrazia diffusa, il consociativismo e le logiche spartitorie, il CAF (il patto scellerato Craxi-Andreotti-Forlani), il diritto di veto di partiti e partitini secondo giochi di coalizione spesso opachi, hanno prodotto effetti degenerativi sul sistema politico italiano, verso il quale Tangentopoli altro non fu che il definitivo colpo di grazia. Come non ricordare i governicchi che duravano pochi mesi, spesso “balneari”, oppure “tecnici”, in balìa addirittura del gioco delle correnti interne ai partiti? Sì, poteva avere un senso invocare il maggioritario, e le battaglie di Segni e di Pannella (fra i primi) avevano perlomeno ragione di manifestarsi.

Ma oggi? Non si può certo dire che vi sono problemi di stabilità, o di governabilità. Nessuna coalizione come questa del centrodestra ha mai potuto godere di un vantaggio così netto – come forza numeriche – in Parlamento. Probabilmente (anche se personalmente non me lo auguro) riuscirà a completare la legislatura. La stessa votazione alla Camera dell’ultima riforma della legge elettorale ha testimoniato la capacità di decidere in possesso della maggioranza di governo. E allora? Inutile rimurginarsi su. C’è una sola ragione che può spiegare l’acrobazia di Berlusconi e dei suoi sgherri: il turpe calcolo di come contravvenire alle proiezioni dei sondaggi elettorali e, al tempo stesso, l’indebolimento di quella sostanziale novità nella scena della politica italiana che sono le primarie nel centro sinistra e le suggestioni che queste avevano prodotto nell’UDC di Follini.

L’operazione berlusconiana è sbagliata nel metodo e nella sostanza. Nel metodo, perché ogni riforma delle regole del gioco va fatta con tutti i giocatori e, prima di operare strappi a colpi di maggioranza, si dovrebbero essere fatti tutti i tentativi ragionevoli per costruire una piattaforma la più condivisa possibile dell’iniziativa riformatrice. Arrivare a cambiare la legge elettorale pochi mesi prima delle elezioni per ribaltare l’esito elettorale o per salvare il salvabile è l’ennesima legge berlusconiana fatta per risolvere un problema proprio. Nella sostanza, perché questo proporzionellum, come irrispettosamente Sartori ha definito questa legge, è sostanzialmente una legge elettorale confusa e disequilibrata, alla quale – se il Senato non dovesse intervenire - presto si dovrà rimettere mano.

E qui torniamo al vizio antico della politica italiana: la sua assenza di lungimiranza che, inevitabilmente, si traduce in irresponsabilità. Questa riforma promette, nelle sue intenzioni, tutto e il contrario di tutto. I voti si contano proporzionalmente, ma la traduzione dei voti in parlamento è stravolta da un premio di maggioranza che nulla ha a che fare con la logica proporzionale, visto che tale premio può stravolgere la reale rappresentanza del comportamento elettorale. Infatti, basterà una maggioranza risicata per decretare una vittoria eclatante, e con ciò lo spirito del proporzionale va a farsi benedire.

Ma il danno non finisce qui. I tecnicismi che provvederanno a sbarrare l’ingresso in parlamento ai partiti minori sembrano una girandola di punti percentuali elaborati senza un criterio davvero razionale. Vi saranno infatti tre soglie di sbarramento (coalizioni, partiti coalizzati, partiti non coalizzati) e un premio di coalizione su base regionale. Senza scendere troppo nei particolari, la logica è chiara: in un sistema ideologicamente friabile come il nostro, nel quale l’elettorato “di centro” è ancora assai grande e attualmente suddiviso almeno in 5-6 partiti e partitini, il diritto di veto e la logica di scambio potranno ritrovare alimentazione da un sistema dissennato. E, nuovamente, potrebbe risultare conveniente di volta in volta produrre cartelli elettorali ad hoc, se non nuovi partiti.

Il problema risiede, ancora una volta, nell’uso errato che si fa della legge elettorale. Non possiamo chiedere all’ingegneria elettorale più di quello che essa può darci. Non è vero, in particolare, che il maggioritario produce il bipartitismo mentre il proporzionale produce le alleanze e le strategie. L’abbiamo imparato, purtroppo, dopo parentesi di governi ugualmente ostaggio dei partitini, ugualmente in bilico sulla promiscuità numerica del conteggio dei seggi parlamentari (ricordate la fine del governo Prodi?), fino alle ultime ventilate dimissioni del ministro Calderoli per le riforme non ancora attuate dal governo Berlusconi.

Intendiamoci, la legge elettorale è importante. Una buona legge elettorale può consentire efficacia nell’azione di governo, rappresentatività del sistema parlamentare, trasparenza nelle procedure di assegnazione dei poteri, e così via. Trattasi, però, come dicono gli scienziati della politica, di condizione necessaria, ma nient’affatto sufficiente. Vale a dire che ci vuole una buona legge elettorale, ma da sola non basta. A questo riguardo, i politologi (italiani e di tutto il mondo) hanno da sempre cercato di far ascoltare le proprie voci, a partire dalla critica delle teorie super-semplificanti di Maurice Duverger. Insomma, credere di superare la crisi di rappresentanza e quella di governabilità mettendo mano alla legge elettorale è riduttivo e troppo semplificante. Il problema rimane, innanzitutto, di matrice essenzialmente culturale, nel senso che non abbiamo ancora superato l’impasse di una contrapposizione ideologica fra le forze politiche. Nonostante sia caduto il muro di Berlino, nonostante nessuno reclami il ritorno alle corporazioni fasciste o aneli alla sovietizzazione delle unità produttive, non abbiamo ancora raggiunto una maturità democratica che porti i contendenti al governo a riconoscersi quali forze democratiche, che sui valori di base del nostro ordinamento reciprocamente convergono. Centrodestra e centrosinistra non si contendono solo il governo, ma una concezione dello stato e della vita civile. L’anomalia italiana è innanzitutto questa: la radicalizzazione dello scontro fra la compagine berlusconiana e il centrosinistra. Tale anomalia non riposa sul nulla, non è inventata. Effettivamente, la salute democratica del nostro Paese è fondatamente malaticcia: le leggi ad personam, il conflitto d’interessi,pdf la presenza di fazioni che non credono ai principi d’unità civile e nazionale, provocano disagi nuovi contro i quali si risponde spesso in modo scoordinato e improprio. Una brutta situazione, davvero. Per uscirne, non ci rimane che lo strumento del voto. Finché c’è voto c’è speranza, al di là delle acrobazie elettorali che la nuova legge che si sta apprestando alla discussione in Senato c’imporrà.

[Il presente articolo è giunto in redazione il 15 ottobre 2005, all’indomani dell’approvazione da parte della Camera del Ddl Camera 2620 - Modifiche alle norme per l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica]

 

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