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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdfNel Natale 2007, presso l’Auditorium di Santa Maria di Castello, ad Ausonia, un piccolo centro in provincia di Frosinone a poca distanza da Montecassino, ho presentato ad un pubblico composto in gran parte di anziani, accompagnati da figli e nipoti, i primi risultati di una ricerca etnografica sulla memoria del secondo conflitto mondiale negli Aurunci, avviata nel 2004 come direttore del locale Museo della Pietra.

E’ stato probabilmente uno dei non numerosi casi in cui il pubblico interviene alla presentazione di una ricerca scientifica in qualità di protagonista e destinatario, insieme, della stessa.

Ed anche un esempio (anch’esso non molto diffuso) di condivisione dei risultati con coloro (i testimoni della memoria, come li ho chiamati) che l’hanno resa possibile; le “fonti” (orali) di questa etnografia, termine che indica tanto la ricerca che i suoi prodotti scientifici.

L’etnografia è appunto un “lavoro sul campo” (fieldwork); un lavoro di ascolto (simpatetico) il cui frutto è la feconda raccolta di storie e testimonianze, conoscenze e performances espressive, indissolubilmente intrecciate ad un’esperienza d’incontro che trasforma il lavoro etnografico in un fatto relazionale oltre che scientifico.

Il Sindaco ed il delegato alla Cultura di Ausonia hanno introdotto con sentito apprezzamento la mia relazione e gli interventi delle sei ricercatrici sulla memoria aurunca della guerra, che costituisce a tutt’oggi (nella terra del “martirologio” come è chiamata

localmente) un patrimonio laico e civile interpretato tuttavia in senso profondamente religioso, per il sacrificio collettivo vissuto della popolazione locale, trasformato in solidarietà e riscatto. In particolare, il sindaco di Ausonia nel sottolineare il link virtuoso tra museo, cultura del territorio e memoria collettiva, ha auspicato, con una sensibilità non sempre diffusa nel mondo politico, lo sviluppo di iniziative di ricerca simili per riscoprire radici ed identità sentite, accordare dignità alle popolazioni aurunche e promuovere più stretti legami, inter-comunitari e generazionali, aprendo scenari di sviluppo anche economico e turistico del territorio e delle sue ricchezze culturali.

Che cosa c’entra, potreste chiedervi tuttavia, un Museo della pietra con la memoria e la narrativa orale della guerra? Diversi sono i motivi che istituiscono questa ‘relazione non evidente’; a partire dalla mission museale ispirata (in quanto museo demoetno-antropologico), ad una costante attività di ricerca e documentazione sul territorio ed i suoi patrimoni, materiali ed immateriali.

Rendere valore il bene culturale della memoria è stata quindi la motivazione per avviare la ricerca la cui compiuta realizzazione costituisce una “restituzione” nei confronti dei testimoni della memoria (donatori di questo patrimonio narrativo) e delle ricercatrici che l’ hanno raccolto trasformandolo in pietre della memoria, per usare un’appropriata metafora.

La pietra stessa infatti (ed è un'altra ragione dell’interesse museale verso la memoria locale) che qui è un vero e proprio genius loci, onnipresente e vigile, ricorda la guerra in questo territorio. Non solo attraverso statue, lapidi, monumenti, sacrari, memorial e cimiteri militari, pure diffusi tra Cassino e Venafro, ma anche attraverso emergenze naturali ed antropizzate, in pietra, come grotte, caselle, cisterne, macere e montagne che conservano vicende note solo a coloro che vivono ed abitano qui. Questa memoria incorporata, voleva tuttavia emergere, manifestarsi, essere narrata, conosciuta, condivisa. Questo hanno scoperto, con stupore ed emozione, le sei ricercatrici che, al termine di un corso di preparazione, si sono impegnate nella campagna di ricerca sul campo. Contro ogni apprensione iniziale sull’indisponibilità o la chiusura delle anziane testimoni a rievocare il dramma di oltre sessant’anni fa, hanno scoperto che queste persone le aspettavano; per aprire loro non solo le loro memorie ma anche il loro cuore, come in un incontro (inter-generazionale) da tempo atteso. Avevano una straordinaria voglia di narrare, di testimoniare, che non si lasciava certo intimidire da un registratore ma semmai si preoccupavano che non funzionasse, che qualcosa della loro testimonianza potesse andare perduta (“Ma funziona stò coso?”). Quel “coso” ha funzionato, ed ha registrato oltre settanta ore di interviste, trascritte fedelmente in dialetto, in oltre cinquecento pagine di testo di grande ricchezza narrativa e descrittiva. Storie come pietre, appunto, che ora attendono forme di riconoscimento e valorizzazione diverse, delle quali vorrei illustrare sinteticamente alcuni progetti (in progress), per dar conto anche dell’antropologia applicata alla ricerca etnografica.

Anzitutto, per superare la difficoltà di lettura della documentazione integrale della ricerca (un vero e proprio corpus letterario in lingua locale di non facile lettura), il Museo della Pietra ha elaborato un abstract da distribuire sul territorio; una versione divulgativa, ridotta, con un’introduzione essenziale, selezioni di passi significativi, illustrazioni e fotografie. Un testo più riflessivo e didattico, invece, sarà pubblicato come dispensa nel mio insegnamento di antropologia culturale, contribuendo alla diffusione e valorizzazione, tra i giovani soprattutto, di storie a loro sconosciute. Per avvicinare le scuole ed il pubblico museale, inoltre, con una piccola equipe museale stiamo realizzando un prodotto informatico, multimediale ed interattivo. Un archivio della memoria (denominato Fammera, in onore della montagna che è il simbolo e lo skyline del territorio aurunco) in cui navigare tra percorsi tematici, key-words, mappe dei luoghi, episodi, storie e testimonianze. E tuttavia quest’archivio non sarà un archivio di storia orale, dedicato ai soli ricordi del passato. Proprio per mantenere fede ad un impegno didattico ed etnografico, individuerà significativi approfondimenti tematici, legati alla contemporaneità ed alla pietra. A partire dalla documentazione dei suoi usi creativi; dalla monumentalistica locale ad esempio, allo sfruttamento, avviato subito dopo il conflitto, delle cave marmifere degli Aurunci dalle quali si estrae il perlato coreno, esportato in tutto il mondo e con il quale è stato ricostruita peraltro l’Abbazia di Montecassino. La pietra, dunque, come risorsa (materiale e simbolica) di rinascita e riscatto, bene culturale ma anche economico. Pietra e territorio anche come teatro di una trasformazione epocale della guerra in ‘guerra totale’, avviata proprio qui, sulla Linea Gustav (Gribaudi Gabriella, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-1944, Bollati Boringhieri, 2005). L’evento (centrale e cruciale) degli Aurunci è legato proprio all’incontro (ed allo scontro) tra culture prima ancora che tra eserciti, manifestato qui, nella forma (feroce ed inspiegabile) delle violenze “etniche” compiute dalle truppe di colore del corpo di spedizione francese (i 12.000 goumiers guidati da le maréchal Joffre) sulla popolazione civile. Questo capitolo, avvolto tutt’ora in un buio epistemico (Michael Taussig, 2005: 114) reclama infatti una riflessione critica e molto attuale, come mostra il problema della memoria negata degli stessi goumiers, combattuti tra rivendicazioni di eroismi non riconosciuti (vedi il recente film Indigènes, di Rachid Bouchareb, Cannes, 2006) e rimozione collettiva delle violenze compiute. Non di minore interesse appare la diffusione contemporanea della “spiritualità goum” (Croce del Sud, anno 2, numero 4, Natale 2000 - bollettino dei goumier italiani, fratello dell’edizione francese “À la Belle Étoile”), un movimento del pellegrinare, di ricerca interiore e preghiera, che si richiama appunto (probabilmente senza una necessaria riflessività culturale) alla cultura berbera del “pellegrinare” dei goumiers marocchini (il cui nome deriva appunto dal termine goum). Anche questi mix culturali “spontanei” (forse a volte anche ‘selvaggi’), divengono proficui spunti di riflessione critica e di impegno didattico per l’etnografia contemporanea.

Questo vasto (qui solo accennato) materiale costituirà, infine, la base documentaria per l’allestimento di una stanza della memoria all’interno del Museo della Pietra di Ausonia, da animare con le testimonianze audio-visive di queste storie come pietre, “interpretate” da narratori eccellenti ed artisti simpatetici individuati nel corso della ricerca stessa. In tal modo quest’esperienza, sinora confinata nel privato e nel familiare, guadagnerà visibilità e valore, dando forza vitale all’identità ed all’appartenenza al territorio, alla sua storia, alle sue vicissitudini, e fornendo risorse per un riscatto culturale anche nella forma di un turismo della memoria, peraltro già presente sul territorio, meta di silenziosi pellegrinaggi laici.

Cosa dire infine (last but not least) di questo vasto corpus narrativo raccolto? Difficile, se non impossibile, cercare di riassumere ed articolare i contenuti di questa letteratura del ricordo che si presenta anzitutto come un’opera letteraria orale, capace di rendere performances verbali incisive come pietre grazie soprattutto alla ricchezza ed alla forza espressiva del dialetto. L’uso di metafore, di un linguaggio figurato, di forme verbali locali, anche onomatopeiche, supera i limiti e l’insufficienza del linguaggio ordinario e riesce a trasmettere l’indicibile della guerra. Come il senso di stupore, di meraviglia, tra sorpresa ed estraneità, verso una simile, ingiusta, terribile ed immeritata violenza (che conoscevamo della guerrà? Che sapevamo della guerra?; ed ancora: “ ma è’ lo vero c’amo passato chesso?).

La guerra è vissuta come un’apocalisse culturale (come è già stato rilevato in un’analoga ricerca sulle stragi nazifasciste in Toscana, cfr. Pietro Clemente, 2005:49-60); le metafore più diffuse sono ispirate infatti alla fine del mondo: “stava a finì il mondo, era la “finizione dello mundo”. Cioè un universo che andava frantumandosi in macerie e schegge impazzite che seminano la morte tutt’intorno causando la perdita di genitori, fratelli, sorelle, nipoti. E tuttavia l’esperienza sconvolgente della guerra non è solo fisica e materiale (come nella distruzione pure emblematica e totale di Montecassino: “ sopra a Montecassino buttarono 500 tonnellate di bombe”): è anche, e soprattutto, sociale, comunitaria. Sradica letteralmente interi paesi e gruppi familiari dalla loro terra per deportati in campi di concentramento lontani, disperderli e farli fuggire in montagna (“a Fammera c’erano 4000 persone”), abbandonando le proprie case, in una specie di esperienza dell’esilio, per cercare rifugio nella pietra e le sue risorse: grotte, caselle, macere, rocce, inghiottitoi , usati come rifugi per persone ed animali. Ma neanche la montagna riuscirà a proteggere tutti dalla violenza della guerra. Né dall’ incubo della fame. Che è stata terribile, al di là di ogni immaginazione (“la fame ha cecato gli occhi”) come dice con cruda espressione una donna, spingendo un bambino, disperato, a gridare ed invocare gli apparecchi che bombardano:” apparecchi, buttatemi il pane!!. La perdita del pane appare come il crollo di ogni orizzonte culturale, la perdita di ogni umanità. Questa esperienza apocalittica dura otto mesi, vissuti dalla popolazione civile come in pieno fronte: tra l’offensiva alleata e la linea Gustav, la fortificazione delle montagne fatta dai tedeschi per sbarrare la strada agli eserciti alleati. Contro questo baluardo di pietra si scatena infatti (inutilmente) l’offensiva ed alla fine, dicono i testimoni con efficace concisione, “hanno dovuto lanciare i marocchini per sfondà il fronte”. Perché, argomentano: “gli americani dicevano: - E chi ce va n’coppa à stè montagne? E allora ficero venì ‘sti cosi niri”).

Per quest’impresa impossibile, le truppe di colore, impiegate proprio per la familiarità “etnica” con montagne e pietre, ricevettero, secondo una diffusa interpretazione, “carta bianca”; cioè il permesso di predare sull’intera popolazione civile, secondo la consuetudine berbera della razzia; e ‘fecero strage’ tra i civili. Le loro violenze evocate in forme inquietanti e drammatiche (“gli massacri c’hanno fatto!!! femmene, omini!! Hanno distrutto gliu munno là n’coppa!!”), sono interpretate dai testimoni con grande capacità riflessiva. Le interpretazioni locali descrivono (in modi assai diversi ma non necessariamente inconciliabili), una violenza sconosciuta ed estranea, che và dalla percezione di una sostanziale de-umanizzazione di queste truppe, assimilate ad animali e selvaggi, all’individuazione di precise responsabilità politiche e militari; dall’influenza di sottesi fattori etnici e religiosi, all’intuizione di una profonda diversità culturale, che tuttavia lascia spazio a differenze (individuali) anche notevoli; ad una (comune) umanità possibile.

Alle loro inaudite violenze, sessuali e fisiche contro donne, uomini e persino animali, la gente degli Aurunci, prima attonita e sorpresa, reagì ancora una volta usando la pietra e le risorse naturali del territorio: nascondendosi in grotte, inghiottitoi sotterranei, sotto macere, dentro cisterne, e persino murando vive le ragazze in nicchie del muro. Ma la violenza consumata restava e bisognava tenerla dentro per tutta la vita, ed anche se non era una colpa “la dignità - dice una testimone - non ce l’avevi più”. In questo universo di dolore, di colpa e distruzioni immeritate, non manca la forza straordinaria del miracoloso e dell’amore. Molte sono le testimonianze che ringraziano la madonna e l’angelo custode, che con la loro sensibile presenza hanno protetto vite innocenti (“la madonna – dice una testimone, riferendosi alla statua della Madonna del Piano di Ausonia – ha chiuso gli occhi” ad un certo punto, di fronte a tanto orrore. Ma senza tuttavia far mancare la sua protezione (“No lo saccio come me so salvata, ecco proprio la Madonna m’ha salvata! “ è un’espressioni ricorrente di tante testimonianze). Ed una anziana signora privata del marito afferma, comunque, che “non c’è niente più forte dell’amore, manco il ferro”.

Molte testimonianze trasmettono infine l’insegnamento di non dimenticare (“ S’ hanno ricordà! Da generazione a generazione, non s’hanno più à dimentica’ “) affinchè “Non possa mai più venì la guerra..!!”.

Attraverso questa sintetica esposizione si delinea qualcosa della ricchezza di questa memoria che, grazie alla ricerca, rende visibile ciò che è stato a lungo sepolto e censurato dandogli una nuova più riflessiva vita e dignità.

Con intensa partecipazione le sei ricercatrici che hanno condotto la ricerca (Beatrice Di Vito, Giuseppina Di Vito, Francesca Noce, Paola Parente, Lucia Stabile ed Antonietta Vallone) hanno raccontato i molti volti di quest’esperienza. L’ emozione dell’ascolto e dell’ incontro generazionale, insospettato quanto proficuo ed illuminante, ad esempio, e la ricchezza del giacimento narrativo scoperto, ancora da valorizzare. L’arricchimento interiore maturato nell’esperienza di ascolto ed il profondo bisogno di narrare dei testimoni, buono per ripensare il rapporto con gli anziani, portatori di storie minute ma non minori, inascoltate, ma più forti e significative della storia ufficiale, spesso retorica e distante dall’esperienza. Gli interventi delle ricercatrici sono stati seguiti con attenzione e partecipazione dai presenti che, con vera commozione, hanno poi assistito alla proiezione di un videodisco a loro dedicato (Testimoni della memoria). Il video, prodotto dal Museo della Pietra come omaggio agli straordinari donatori di queste storie, mostra sequenze fotografiche spontanee di alcuni narratori intervistati: una galleria di immagini di intensa suggestione, di volti e mani espressive che scorrono, con commento musicale, evocando vite laboriose e vicissitudini drammatiche, trasformate coraggiosamente in riscatto grazie anche al loro coraggioso lavoro di testimonianza.

Quali possibili considerazioni conclusive suggerisce quest’esperienza di ricerca?

Anzitutto l’importanza della memoria per la vita contemporanea (cfr. Barbara A. Misztal, Theories of social remembering, 2003, tr. it, Sociologia della memoria, McGraw-Hill, Milano, 2007).

La vitalità della memoria aurunca, conservata intatta dopo sessant’anni, riconferma la consistenza (emozionale e sociale) di un patrimonio immateriale da trasmettere alle generazioni future come impegno e motivazione ad una consapevole appartenenza locale e tuttavia non localistica.

Coltivare la memoria sociale non è un dovere: è un’esigenza indispensabile per far conoscere ai giovani la loro storia comunitaria (partecipe di una storia più ampia e globale), attraverso storie locali; come una risorsa preziosa per affrontare il presente ed il futuro.

Il dialogo costante tra intervistate e intervistatrici che percorre le narrazioni come una trama di scambi generazionali a lungo mancati ricostituisce identità di genere e generazionali (oì Francè?, oì figlia!). E la condivisione di dolori e traumi a lungo negati e rimossi, trova qui ed ora, nell’incontro etnografico la sua prima, a lungo attesa accoglienza.

Grazie alle storie e testimonianze raccolte luoghi, pietre e scenari, svelano sacrari diffusi, dove si conservano memorie personali e familiari di cari sepolti, perduti, salvati. Meta di quotidiani ritrovamenti (in una sorta di etnoarcheologia della guerra e della modernità) di schegge, bossoli, armi, tracce di antiche esplosioni. Nella rievocazione come nella censura (non meno forte, comunque da rispettare: “Nisciuno hà detto niente! Non tenemo da dice niente, non tenemo da raccontà niente!”), si sviluppa una interna, sofferta dialettica tra quanti non vogliono ricordare e chi non può dimenticare (Fabio Dei, Antropologia della violenza, Meltemi, Roma, 2005: 53).

Proprio il dramma di chi non vuole (o non può) ricordare (perché anche il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce, diceva Pascal), sostiene per me, tuttavia, il senso di un’etnografia della memoria come ‘restituzione di parola’ a chi èpdf condannato al silenzio, oltre alle seguenti, possibili, ragioni “virtuose”. Primo, perché trasforma “memorie disperse” (ricordi individuali) in un patrimonio prezioso per esigenze attuali e future (memoria sociale). Secondo, perché trasforma il raccontare e l’ascoltare in un processo relazionale e cognitivo. Terzo, perché conserva e trasmette un sentimento d’identità locale facendone un bene dell’umanità. Quarto, perché è un presidio etico e scientifico contro il pericolo di interpretazioni riduttive, giustificatorie e negazioniste delle violenza. Quinto, perché è un’etica possibile del superamento e della fraternità vs un’etica del risentimento. Sesto, perché promuove iniziative e pratiche della memoria, quali mostre e musei, come ponti per costruire dialogo, consapevolezza (critica) e comprensione tra generazioni, culture e società diverse.

 

Bibliografia:

Pietro Clemente, “ Ritorno dall’apocalisse”, in : P. Clemente e F. Dei (a cura di) “Poetiche e politiche del ricordo. Memoria pubblica delle stragi neofasciste in Toscana”, Carocci, Roma, 2005.

Fabio Dei , “Introduzione” in: Antropologia della violenza, Meltemi, Roma, 2005.

Gribaudi Gabriella, Guerra totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-1944, Bollati Boringhieri, Torino, 2005.

Barbara A. Misztal, Theories of social remembering, 2003, tr. it, Sociologia della memoria, McGraw-Hill, Milano, 2007.

Michael Taussig , “Cultura del terrore, spazio della morte”in: Fabio Dei (a cura di), Antropologia della violenza, Meltemi, Roma, 2005.

Croce del Sud, anno 2, numero 4, Natale 2000 - bollettino dei goumier italiani, fratello dell’edizione francese “À la Belle Étoile”.

 

 

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