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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdfPer prima cosa, andando all’origine del problema, va detto che la moneta e la finanza, non sono un ‘optional’, ma “contano”, per gli andamenti dell’economia reale. Ciò, nel senso specifico che gli andamenti delle grandezze monetarie e finanziarie incidono sempre su quelli delle grandezze reali quali il reddito prodotto, l’occupazione, i consumi, etc. etc. Se ci chiediamo perché, la risposta è semplice sol che si pensi che, mentre sono i beni reali che soddisfano i bisogni umani (per consumo ed altro), i beni vanno, per così dire, “veicolati” dalla produzione al consumo – così come i fattori della produzione vanno “veicolati” alla produzione stessa – e, allora, facendo ricorso ad una metafora, mentre i beni possono essere assimilati a ciò che è “la benzina” per il motore a scoppio, moneta e finanza si possono pensare avere nell’economia reale il ruolo che, per tale motore, svolge “l’olio lubrificante”.

Come l’olio lubrifica i vari “pezzi” del motore, così moneta, credito, finanza agevolano la trasmissione dei beni tra le persone “coinvolte”, rendendo appunto possibili, o più efficaci, le relative transazioni.Tuttavia, come noto, se si esagera, se cioè, nella metafora, “si inonda” di olio il motore, i diversi “pezzi” verranno ad essere sommersi dall’olio e, per così dire, non si muoveranno “per eccesso di lubrificazione”, così come non si potranno muovere – facendosi attrito l’un l’altro – “per difetto di lubrificazione”. Similmente, come si comprende, se si è in presenza di “troppa” moneta o finanza, l’economia reale – a livello interno o internazionale che sia – sarà sommersa e, per così dire, “soffocata”, non riuscendo più ad essere capace di “sostenere” la trasmissione dei beni dalla produzione al consumo.

Ora, questo è ciò che si è verificato e si sta ancora verificando a livello mondiale ai nostri giorni, essendo stata il “focolaio” di partenza, quanto a quella che si può considerare una vera e propria “epidemia” di disfunzioni e fallimenti in campo economico-finanziario, l’ormai nota “crisi” statunitense dei mutui immobiliari di tipo cosiddetto sub-prime, vale a dire meno affidabili – siccome non forniti di alcuna “garanzia reale” – rispetto a quelli “primari”.

Ma è chiaro che questo attuale non può essere considerato il primo caso del genere, né sarà l’ultimo: e ciò, essenzialmente, perché – come in altri casi consimili nella storia economica – allorché una certa disfunzione, o crisi, si manifesta in un certo “pezzo” di un sistema economico-finanziario, si diffondono il contagio, la sfiducia, ed il panico, giacché la gente “s’influenza” a vicenda, tra una persona e l’altra, e allora, per “bloccare” il fenomeno occorre sempre un certo intervento esterno ai mercati, e ciò nella forma di uno shock esogeno, oppure di un “adeguato” intervento di politica economico-monetaria.

D’altro canto, un caso simmetrico, ma opposto, è stato quello verificatosi nel celebre “crollo” della Borsa di New York nell’ottobre 1929, con una “crisi” diffusasi in tutto il mondo industrializzato e durata – dove meno, dove più – per tutti gli anni ’30 del secolo scorso, essendosi allora trattato di “crisi” da carenza estrema di liquidità, cioè, per riprendere la precedente similitudine, “da carenza di lubrificante”.

Ma in realtà, nella storia dell’economia, si è stati in presenza di tutta una serie di “alti” e “bassi”, di “crisi” e “riprese”, e ciò è tanto più vero per i due decenni della fine del secolo scorso e dell’inizio di questo, allorché i mercati finanziari si sono venuti sempre più "allargando" e "allontanandosi" da quella funzione specifica d'intermediazione tra offerta di fondi in cerca d'impiego redditizio ed occasioni d'impiego degli stessi in attività d'investimento produttivo.

Storicamente, intanto occorre richiamare le negoziazioni sempre più consistenti sui cosiddetti mercati "secondari", negoziazioni che, essendo relative a titoli già esistenti, li fanno soltanto "passare di mano", ed in particolare si concentrano su titoli che sono ricercati da operatori "istituzionali", i quali sono interessati meno ai rendimenti prospettici dei titoli stessi che ai guadagni "in conto capitale" o rendite finanziarie che si aspettano di realizzare sulla base della "lievitazione" del corso (o prezzo) dei titoli stessi. Non solo, ma spesso tale fenomeno è "provocato" (quando riesce) - come accade in particolare nel caso delle divise estere - proprio dall'attività di compra-vendita dei titoli, vale a dire da un'attività speculativa che ha fatto, come fa tuttora, parlare di attività simili alle "scommesse" o ai "giochi d'azzardo".

In secondo luogo, tutto questo si ritrova via via "amplificato", anzi "ingigantito", parecchie e parecchie volte, nella misura in cui sempre più sono venute moltiplicandosi la quantità e proliferando la varietà dei titoli "inventati" e trattati ad hoc, soprattutto quanto a quel tipo di strumenti finanziari che si differenziano nettamente dai titoli "sottostanti" e quindi non hanno alcuna "controparte" nell'economia reale. Si tratta dei cosiddetti titoli puri che, ad un certo punto della 2° metà del secolo scorso, hanno preso definitivamente il predominio sui mercati finanziari, vale a dire, dapprima, i titoli derivati o "titoli su titoli" ("futures", "options", etc.) e, ancora più in particolare, i titoli cosiddetti "di seconda generazione" o titoli sintetici, nonché, più di recente, i titoli strutturati. E' allora evidente in che senso tutto ciò porti anche ad un potenziamento del "momento speculativo" delle operazioni e delle negoziazioni che si moltiplicano e si moltiplicano senza sosta sui mercati finanziari contemporanei: attraverso un meccanismo "associativo" che coinvolge, sempre più spesso, i continui spostamenti da uno all'altro "pacchetto" di più strumenti derivati insieme (com'è stato il caso, in particolare, con i "sintetici" e, oggi, lo è stato con gli “strutturati”), si punta a guadagni "differenziali" sempre più alti, mentre si corrono anche rischi "differenziati" sempre maggiori in quanto, proprio, afferenti alla congiunta applicazione di più contratti insieme.

Ma c’è di più. In effetti, quanto alle operazioni su titoli strutturati, si è pervenuti ad operare, per così dire, “su una montagna di carta”, vale a dire su titoli privi di ogni valore “accertabile”, tanto che si è addirittura parlato di titoli “tossici”, a causa dei quali tanti fallimenti vi sono stati e “tante teste sono cadute” e dei quali, in definiva, “non si vedeva l’ora di liberarsi” al più presto, cosicché ne è derivata la grave crisi attuale e non sembra proprio si veda ancora la “fine del travaglio”.

Si è insomma trattato di una forma particolarmente “perniciosa” e “nociva” di titoli derivati – tanto che, come già detto, si è parlato di titoli “tossici” – e ciò in quanto “basati” su altri titoli che, però, invece di essere titoli di credito, erano titoli di debito, anzi titoli di debito “poco affidabili”, ed inoltre venivano “costruiti”, e “negoziati”, non solo dalle banche d’affari ed altri intermediari finanziari, ma dalle banche “universali” e, dunque, dalle stesse banche ordinarie. Cioè, si è affermato “l‘andazzo” da parte di intermediari di ogni tipo, incluse, ripeto, le banche di credito ordinario, di effettuare operazioni di prestito di vario genere; e ciò, indipendentemente vuoi da ogni “prudenziale” livello di “leverage”, ovvero del rapporto fra assets rischiosi (inclusi i prestiti, quindi i debiti) e capitale “versato”, da ogni intermediario, a tutela della sua potenziale “solvibilità”, vuoi anche da ogni “prudenziale” accertamento dell’effettiva “solidità” e “solvibilità” dei prestatari.

In particolare, questo è stato ampiamente il caso per i titoli, appunto, strutturati, così come costruiti e negoziati nell’ampio mercato finanziario USA da parte di ogni tipo di banca che, “partendo” dai cosiddetti mutui sub-prime, cioè da debiti, “cartolarizzandoli’ e quindi rendendoli negoziabili, impacchettandoli nei modi più diversi, da cui appunto il nome di titoli strutturati, procedeva a venderli in vari modi, “regolari” o “irregolari” che fossero, ma sostanzialmente “incontrollati”. Come si comprende, si è trattato di titoli il cui valore effettivo restava “sconosciuto” ai più, mentre “nell’onda del successo” venivano negoziati a prezzi via via più alti; e ciò, anche in quanto la speculazione vi aggiungeva, “di suo”, un impatto nella stessa direzione, derivante cioè da una domanda speculativa pure crescente, e ciò vuoi all’interno degli USA, vuoi all’estero. Si sono così trovate ‘coinvolte’ ed ‘esposte’ fior di banche esterne agli USA, in particolare in Gran Bretagna, Svizzera, Germania e così via (meno, molto meno, in Italia, a dimostrazione del fatto che, a volte, essere ‘più provinciali’ e ‘meno globalizzati’ aiuta!).

Ma è chiaro che il tutto non poteva, prima o poi, non risolversi in una “crisi” di ampie proporzioni una volta che “qualcosa” di negativo fosse accaduto da qualche parte. E’ quanto si è puntualmente verificato – portando negli stessi USA a squilibri, bancarotte e fallimenti di vario tipo per le banche d’affari ed altri intermediari finanziari, ma, col tempo, mettendo in difficoltà le stesse banche ordinarie ed avendo ampie ripercussioni, specialmente in Europa. Ed è allora che, in quanto le cose sono notevolmente peggiorate, “minacciando” la stabilità dell’intero sistema finanziario, negli stessi USA ed altrove, si è proceduto ad una serie di “salvataggi” similmente “differenziati”.

Come si comprende, le prime ‘avvisaglie’ di default e, quindi, del procedere di quelle ‘nefaste’ reazioni a catena, verificatesi dentro e fuori gli USA, si sono avute col ‘rallentamento’ dell’economia statunitense e col relativo numero di licenziamenti verificatisi tra l’inverno e la primavera del 2007, il che ha comportato, appunto, che certi ratei dei mutui sub-prime non sono stati pagati e che, quindi, certi ammontari di titoli strutturati hanno subito perdite nei corsi di borsa così come nei valori dei titoli presenti nei portafogli delle banche, e di altri intermediati finanziari, ed iscritti in bilancio, e ciò sia negli USA che all’estero.

Allora, in primo luogo, sia la Federal Reserve, sia la Bank of England, sia – ma in tono minore – la Banca Centrale Europea hanno proceduto a forti iniezioni di liquidità sui rispettivi mercati, le quali hanno certo costituito comportamenti ‘d’urgenza’, ma, quanto a giudicarne l’efficacia e l’efficienza, sembra si sia trattato, per così dire, come “la goccia nell’oceano”

In realtà, l’effetto-domino di una crisi “generalizzata” si è via via accrescito, le difficoltà si sono estese e diffuse, le dichiarazioni di fallimenti si sono moltiplicate di continuo. Allora, l’intento non solo di ‘regolare’ i mercati, ma anche di intervenire in varie forme a carico del bilancio pubblico, è venuto acquistando consensi crescenti, anche negli USA. Si può quindi capire la “direzione” in cui si è mosso il Governo degli USA nel processo di salvataggio dalla crisi dell’intero sistema finanziario americano, vale dire quella di procedere con l’acquisto in cambio di dollari di assets in cui sono prevalenti i titoli strutturati, quindi “tossici” in quanto prevalentemente composti da debiti, diventati sempre più “carta straccia”, con l’intento di “bonificare” le banche e finanziarie via via acquisite e, “tempi permettendo”, di rivendere sul mercato le società acquistate e bonificate. In particolare, negli USA è del ministro del Tesoro Paulson un piano “di salvataggio” di quel tipo, di ben 700 miliardi di dollari, la cui spesa sia da accollare all’intervento pubblico, mentre, dopo “schermaglie”, esso è stato aumentato a 850 miliardi di dollari e approvato definitivamente dal Congresso il 3 ottobre 2008, con modifiche e “cautele”, benché, sostanzialmente, secondo le linee puntualizzate sopra.

Quanto all’Europa, dove l’incidenza dei titoli “tossici” sembra essersi accertata come “marginale” e comunque il “peso” delle banche d’affari (o d’investimento) è minore a quello delle banche ordinarie o, perfino, universali, si sta procedendo, in generale, sia sulla strada delle ricapitalizzazioni degli assets bancari tramite aumenti di capitale “di rischio”, sia su quella delle garanzie “pubbliche” sui depositi bancari, “estese” più recentemente ai prestiti, trattandosi di interventi “omogeneizzati”, benché non “uniformizzati”, tra i vari paesi. In particolare, in Italia si è apprestato – tramite due Decreti Legge – un ‘piano’ che prevede, da parte pubblica, anche la possibilità di una garanzia o addirittura una sottoscrizione per gli aumenti di capitalepdf necessitati dalle banche e regolarmente deliberati, e che farà certamente discutere molto.

Ora, mentre le crisi finanziarie sembrano “resistere”, in tutti i più importanti centri del mondo, dove più, dove meno, e comunque in maniera “altalenante”, “non cessano” i timori di una recessione mondiale che colpisca l’economia reale; e, allora, si deve ammettere che le “terapie” annunciate – strette, per così dire, dalle “morse” del monetarismo – non possono essere “sufficienti”. Questa è storia degli ultimi giorni (metà ottobre 2008), e quindi – al di là di quanto detto – c’è da aggiungere, quanto alle “terapie” stesse, e riassumendole in una battuta, che esse non possono non vedere “l’epicentro” spostato, keynesianamente, dalle politiche monetarie a quelle fiscali.

 

 

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