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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdfCome il pensiero di tutti i grandi studiosi, anche quello dell’attuale Pontefice, è attraversato da un filo conduttore che ne caratterizza l’impostazione e le finalità. Pur nella molteplicita degli intenti e dei contenuti, dal giovane studente che elabora la sua tesi dottorale fino al Papa che detta le sue Encicliche, l’insegnamento agostiniano, e quello che in questo filone è maturato nei secoli, rimane il suo cruciale punto di riferimento.

“Non intratur in veritatem, nisi per caritatem”, ammoniva il vescovo d’Ippona contro gli eretici del suo tempo e Fausto in particolare. Lo stesso ammonimento, a ben vedere, riecheggia costantemente negli insegnamenti di Benedetto XVI. Non sarà certo un caso che carità e verità, non solo “titolano” la recente enciclica, ma riecheggiano ripetutamente nella prima e attraversano tutti gli scritti sino quel Gesu di Nazaret di cui, nella prossima primavera, si attende il secondo volume.

Questa premessa mi consente di dire subito che Caritas in Veritate, proprio per i motivi suddetti, non può essere considerata solo un’Enciclica sociale come da più parti si afferma. Le pagine sono soprattutto ricche di un’antropologia cristiana, soprattutto cattolica per i motivi che dirò, che richiama ai grandi interrogativi che, da sempre, hanno occupato le menti dei filosofi.

Le domande essenziali sono quelle sull’uomo e sul suo destino. Dalla risposta a questi due quesiti si genera naturalmente un modello di società ed allora le pagine papali permettono di affrontare la questione sociale. Rimaniamo, però, alle due domande che attendono risposte non possono essere eluse. Dobbiamo, infatti, onestamente ammettere che l’uomo, come lo intende il cattolicesimo, non è un meccanismo o, peggio, un pezzo di società, ma è una componete essenziale, non solo, è un’entita metafisica e, quindi, unica ed irripetibile.

Da questa unicità, che è una verità, deve scaturire il senso e l’obbligo della carità. Per questo mi sono permesso di dire che Benedetto XVI parla non solo di un’antropologia genericamente cristiana, ma soprattutto cattolica. Il fare bene, le opere buone, che per lo più sono nascoste agli occhi del mondo, non sono un’inutile “istrioneria”, ma potremmo dire che, a volte, misurano il nostro grado d’adesione alla verità.

Che si tratti di un’impostazione antropologica di cruciale importanza che riguarda non solo l’esteriorità della dimensione sociale, ma l’intero essere umano, è lo stesso Pontefice a ricordarlo sin dalle prime battute. Oggi, per quanto riguarda la carità, non solo si corre il “rischio di fraintenderla”, ma si cerca anche “di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l’irrilevanza” (n. 2).

Per evitare questo rischio occorre ricordare, com’è detto in quel numero 1 che andrebbe preso a memoria, che verità e carità trovano la loro origine in Dio ed in Lui risultano complete ed inscindibili, come ha mostrato Cristo che, in quei due termini, ha sintetizzato e riassunto tutta la legge. In una cultura che non si riferisce alla verità, la carità corre il rischio di diventare vuoto sentimentalismo o, peggio, amore egoistico che è l’esatto opposto di quello che la carita è e deve essere.

Un grande studioso di lingue antiche, che purtroppo ora non c’è più, mi invitava un giorno a dare il giusto significato alla parola carità che è restrittivo al massimo tradurre con la parola amore. La sua radice implica la gratuità, non a caso “Dio Carità” da la grazia, e trova il suo corrispettivo nel termine latino gratis. Si tratta perciò di donazione o, meglio, di dare senza attendere nulla in contraccambio. Parafrasando Sant’Agostino con un po’ di fantasia, si potrebbe quasi dire amore a perdere che è una sorta di follia, ma che dovremmo ricordare e la follia della Croce.

Chiaro che, in questa prospettiva, tutte le questioni sociali, giuridiche, culturali, politiche, ecc. non possono essere affrontate solo con gli abituali criteri delle scienze economiche, altrimenti la carità e la verità sarebbero soggette a dei calcoli dai quali, invece, rifuggono.

Quanto detto non deve far pensare, e qui possiamo entrare nelle tematiche più discusse, che carità e verità debbano essere viste in antitesi alle ragioni dell’economia. Ne costituiscono, invece, il perfezionamento anche se oggi, il più delle volte, questo ci appare un reale paradosso. A testimonianza si possono considerare le numerose esperienze, non solo odierne e spesso ignorate, della storia cristiana. Basterebbe pensare a tutte quelle iniziative caritative che hanno consentito progresso e sviluppo, come pure gli insegnamenti e le opere della scuola francescana e non solo. Certo, in questo elenco, non dovrebbero essere dimenticate poi quelle nascenti “società per azioni” e, per altri versi, le numerosissime confraternite che fecero grandi le nostre industrie ed i nostri commerci dall’epoca dei comuni e delle repubbliche marinare fino all’Umanesimo ed al Rinascimento.

Una diversa economia si può quindi fare, basta volerlo. Questo è quanto emerge dal capitolo terzo in poi. Una riflessione a parte merita pero il capitolo secondo il cui esplicito richiamo alla Populorum Progressio è cruciale per capire l’intera impostazione della Dottrina sociale. L’Enciclica di Paolo VI provocò una discussione enorme, soprattutto nei paesi emergenti, quelli che allora si chiamavano del “terzo mondo”. Enorme fu il peso che ebbe poi nella nascente teologia della liberazione ed anche le influenze che determinarono la necessità di alcune azioni che sembrarono perdere il senso della misura, ad esempio quando imbracciarono la lotta armata. Benedetto XVI mette subito in chiaro che bisogna guardarsi da alcuni rischi, ahime, sempre ricorrenti come, ad esempio, quello di cadere “nella presunzione dell’auto-salvezza” (n. 11). Inoltre, è questa è un’altra non trascurabile conclusione che emerge dal punto seguente, si afferma che “non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare ed una post-conciliare”, tutto ciò deve spingere a considerare “il carattere sia permanente che storico di questo patrimonio dottrinale” (n. 12).

Sono questi presupposti che consentono di combattere, come già diceva Paolo VI, il “pericolo costituito da visioni utopistiche e ideologiche” (n. 14) che pregiudicano la qualità etica ed umana dell’esistenza. L’intero capitolo evidenzia poi una gran fiducia nell’essere umano che puo dare il meglio di sè “solo in un regime di libertà responsabile” nella quale “lo sviluppo puo essere integralmente umano” (n. 17). Ritorna qui quel concetto di persona tanto caro alla tradizione cattolica, soprattutto contemporanea, cosi diverso dalle retoriche individualistiche che sono proprie, ancora, di varie impostazioni politiche.

Per uscire da quella che alcuni potrebbero ritenere una posizione troppo vaga, dalla Populorum Progressio è ripresa la necessità e “l’urgenza delle riforme” (n. 20) per consentire a tutti di vivere in modo degno di essere definito umano. Da qui l’analisi di un autentico sviluppo umano che parte da un presupposto dimenticato, anche se gia rilevato da non pochi pensatori del Medioevo: “Il profitto è utile se, in quanto mezzo, è orientato ad un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo”. Un profitto fine a se stesso “rischia di distruggere ricchezza e creare povertà” (n. 21). Ciò spiega perchè, superando non poche posizioni preconcette e di parte, nell’ambito della politica economica occorre ammettere che le cause del sottosviluppo “sono molteplici, le colpe e i meriti sono differenziati” (n. 22), ma tutti risiedono nel fatto che si dimentica con troppo facilità “che il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità” (n. 25).

Questo capita per una serie di motivi più marcati, oggi, in una realtà di eclettismo culturale che, invece di produrre più opportunita ed arricchimenti, può rischiare di generare un “appiattimento culturale” (n. 26). Pericolo che si può superare guardando l’altro in modo diverso, come solo il Cristianesimo permette di fare. Questo genera la vera carità che, come suggerisce ancora la Populorum Progressio, rende ingegnosi nello scoprire le cause della miseria e “nel trovare i mezzi per combatterla (…) Non c’è l’intelligenza e poi l’amore: ci sono l’amore ricco di intelligenza e l’intelligenza piena d’amore” (n. 30). Da qui scaturisce la vera fraternità quella che, come e detto nel capitolo III, anima la società civile e genera lo sviluppo economico.

In questa prospettiva si può sostenere non solo un autentico sviluppo dei popoli, la consapevolezza dei loro diritti e dei loro doveri, ma quella collaborazione nella famiglia umana che permette a tutti di affinare la propria sensibilità e consente di cogliere e di affrontare quelle “nuove forme di povertà” (n. 65) che, spesso, si annidano anche nei paesi ricchi e sono indecifrabili ad una mentalita distratta ed egoista.


Questo fatto ci porta ad interrogarci infine su un tema fondamentale della modernità: come mai lo sviluppo tecnologico di alcuni paesi invece di diffondere certe opportunità le restringe e le rende dominio di gruppi ristretti? Le ultime pagine cercanopdf di rispondere a questo pressante interrogativo. Si ricorda che la tecnica è un fatto umano strettamente connesso alla liberta e che, quindi, dovrebbe confermare “la signoria dello spirito sulla materia” (n. 69). Questo ci riporta, a mio parere, a riconsiderare il tema di fondo dell’intera Enciclica: quello della persona e della sua libertà. Questa deve seguire la via della carità e della verità nella piena consapevolezza che, solo dalla comprensione del reale significato della nostra umanità, nasce la possibilità di vedere quella pienezza della Carità e della Verità che si rivelano nell’adesione al progetto di Dio. In noi, infatti, carità e verità presentano la limitatezza del nostro essere liberi: “In noi la libertà è originariamente caratterizzata dal nostro essere e dai suoi limiti” (n. 68). Il che, detto nei termini voluti da Paolo VI, significa che solo in Dio si scopre che il limite dell’amore è quello di non avere un limite.

 

 

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