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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdf1. Uno sguardo non pertinente sulla temporalità

Il discorso sul tempo è un discorso di frattura e ogni frattura postula una saldatura. Ma la saldatura si dà solo se è posta la frattura. Eppure la frattura non è l'originario. Se fosse tale, non postulerebbe alcunché. L'originario, come tale, è l'Assoluto: non dipende da altro e dunque non postula. Da ciò, dunque, si desume l'analiticità del dire che il discorso sul tempo non è originario, ma originato. Originato come la frattura è originata su un dato previo alla frantumazione. Il ricorso alla saldatura suppone un originario solido, giacché non si dà frantumazione del frantumato (il frantumo come tale si dice rispetto a un tutto solido; se preso isolatamente non è più frantumo ma un nuovo solido, come tale ipoteticamente frantumabile: la frantumazione è solo del solido). Se dunque l'originario è il solido, la frantumazione è un secondario e non certo un proprium derivato: il solido in quanto tale - e cioè originario - non porta in sé la propria frantumazione; sarebbe una contradictio in adiecto. La frantumazione non deriva dal solido, ma suppone il solido. Dunque la frantumazione è un'operazione impropria, o appunto di sottrazione del proprium. Perciò, il discorso sul tempo è un discorso su una sottrazione indebita. E giustizia vuole la restitutio ad integrum, anche nella speculazione. Allora il discorso sul tempo, per essere adeguato all'improprietà, deve oltrepassare l'improprietà, altrimenti, conformandosi all'improprio, risulterebbe improprio. Il discorso giusto, o adeguato, sull'ingiustizia non è un'ingiustizia. Perciò, il discorso sul tempo deve essere una reintegrazione del tempo: un discorso sul frantumato reintegrato e cioè ricondotto alla struttura originaria o intero.

Che il discorso sul tempo sia un discorso sulla frantumazione sta scritto nel nome stesso del tempo: tempus dal greco temno, cioè taglio. E i tagli o frantumi possono essere visti in una duplice prospettiva: storica o contemplativa. Quella storica si rapporta ai frammenti raccogliendoli o rifiutandoli. Raccogliere i frammenti è l'operazione storica sul passato, rifiutare i frammenti è l'operazione storica sul futuro. Insomma: si tratta dello sguardo storico tradizionalista - il primo - e dello sguardo storico progressista - il secondo. In entrambi i casi qualcosa si perde e la frantumazione è definitivamente sancita. Il passato non lo si raccoglie tornado indietro, perché come tale non c'è più! E la raccolta del nulla è nulla come raccolta. Non si può progettare il futuro rigettando, perché il progettare dal niente è niente come progettare. Ogni discorso storicistico è sempre teoreticamente imballato, sia in avanti che indietro.

2. Lo sguardo anagogico sulla temporalità

La contemplazione è la raccolta dei frammenti. Da Platone in poi, theoría equivale a contemplazione. Cum + templum : cum indica con e attraverso; templum è diminutivo di tempus (tempo) dal greco témno cioè taglio, ritaglio. E perciò, contemplazione potrebbe voler dire osservare o considerare attraverso un ritaglio, cioè una prospettiva, oppure osservare o considerare insieme i ritagli. E forse è meglio intendere così la parola; oppure coalizzando le due possibilità: osservare o considerare ponendo insieme tutti i ritagli, tutto il tempo nella prospettiva dell'eterno: sub specie aeternitatis. Insomma, un prendere insieme tutto.
Noi sappiamo che siamo perché siamo guardati da Dio. Il nostro essere è essere guardati da Dio; se Dio non ci guardasse e custodisse (facesse la guardia) noi saremmo nulla. Dunque, per vederci radicalmente esistenti e non superficialmente, dobbiamo vederci visti da Dio. La radice metafisica della nostra stessa esperienza è la contemplazione che Dio esercita nei nostro confronti e con la quale ci costituisce. Per questo, il modo più realistico di percepirci è quello di percepirci in Dio. Se il nostro essere è essere percepiti, il nostro percepire il nostro essere è tanto più radicale e profondo quanto più è un percepire il percepire che ci fa essere. L'ontologia si risolve nella contemplazione divina, cioè nell'atto con il quale e nel quale Dio ci contempla. Se la mia ontologia consiste nell'essere percepito da Dio, allora la mia piena conoscenza la possiede Dio, così come il mio essere. Dunque, per conoscere il mio essere pienamente occorre che io mi percepisca in Dio. Se il mio essere di risolve nell'esser percepito da Dio, la percezione che io ho del mio essere ce l'ho in Dio. Ciò il cui essere è tutto nell'esser percepito (creaturalità = esser percepito) è nulla senza essere percepito. L'esser percepito gli è come tale essenziale. Dunque, per conoscersi deve risolversi nella percezione del percepente radicale. La creatura deve risolversi nello sguardo di Dio. Per esempio, l'essere del suono sta nell'essere udito; così, se il suono volesse udirsi dovrebbe cogliersi nell'udito che lo ode. Esser percepito implica il percepire. Il percepire a nostra volta il nostro essere è percepire il nostro essere percepiti. Il percepire il nostro essere percepiti implica il percepire il percepire che ci percepisce e ci fa essere, ci costituisce. La profondità della percezione di noi stessi è la profondità di Colui che ci fa essere percependoci. Solo nella fede teologale misticamente vitalizzata e nella visione beatifica noi ci percepiamo propriamente: "Cognoscam sicut et cognitus sum" (1 Cor 13, 12). E noi siamo preconosciuti, cioè conosciuti nell'Arché, eletti (Ef 1, 3-12), destinati in Cristo, scritti nel libro della vita dell'Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo (Ap 13, 8): cioè nel suo Mistero di Gloria.
È significativo anche notare che nell'ordine dei Frati Predicatori, lo studio e la contemplazione si compenetrano vicendevolmente. E' la tipicità della vita apostolica, "in qua praedicatio et doctrina ex abundantia contemplationis procedere debent" (Constitutio Fundamentalis, § IV). Per questo motivo, lo studio è una componente essenziale della vita domenicana: "Studium assiduum contemplationem nutrit, adimpletionem consiliorum lucida fidelitate fovet, sua ipsa constantia et arduitate asceseos formam constituit, atque excellens est observantia utpote totius vitac nostrae elementum essentiale" (Liber Constitutionum, n. 83). Ma lo studio non è ordinanto alla formazione di intellettuali, bensì di predicatori (cfr. Atti del Capitolo Generale Elettivo OP - Providende (R.I.) - USA 2001, n.121) e non va per questo condotto e proposto con spirito pragmatico, per preparare a un mestiere; va piuttosto coltivato in un modus vivendi tipicamente contemplativo (cfr. Ibid.,.n.105 e 117). Lo studio della teologia deve essere inteso come una vera "Scuola di Teologia", cioè come un atto vitale e di formazione integrale (cfr. Ibid., n.134): si deve maturare una abitudine ad uno studio contemplativo (cfr. Ibid., n. 136). E' proprio in ragione di questa fondazione nella contemplazione sapienziale, e cioè legata al dono dello Spirito Santo, che la stessa dimensione intellettuale diviene dono compassionevole: "lo studio sapienziale si sviluppa necessariamente in compassione intellettuale" (Ibid., n.106). Attraverso il carisma dell'Ordine dei Predicatori, la misericordia e la compassione di Dio raggiungono il mondo nella forma dello studio e della "misericordia veritatis" (cfr. Ibid.). Questo è il senso della contemplazione domenicana, appunto, una "spiritualità dell'incarnazione" che ci spinge a "vedere gli altri così come li vede Dio" (Ibid., n.211).
Ma il Cristianesimo non può risolversi nella pura e semplice eventualità storica. Gli eventi storici, in quanto eventi, sono tutti uguali e tutti importanti allo stesso modo: un evento è un accadimento irripetibile. Se si distinguono tra di loro è per qualcosa di diverso dalla loro eventualità; e cioè è in forza di ciò che accade e non del suo semplice accadere. L'aspetto distintivo e determinante sta dalla parte dell'essenza, cioè della visibilità strutturale, che è l'eidos.
In questo senso, l'avvenimento cristiano, cioè Cristo e la sua fattualità storica, ha una statura metafisica onninclusiva: è l'avvenimento storico che riempie di sé tutti gli altri avvenimenti storici, cioè tutte le cose (Ef 4,10). Questa visione-eidos è l'anagogia, cioè lo sguardo unitotale e sempiterno nel quale si annuncia (Rivelazione) e si enuncia (Teologia) il Mistero di Cristo.
Questo Quadro o Disegno divino è appunto l'eidos del Cristianesimo, l'idea nel senso ontologico e assoluto del termine, tanto da indicare la stessa visibilità del tutto dal punto di vista di Dio: in questo senso metafisico si può parlare di ideologia del Cristianesimo, ma è appunto un significato completamente nuovo e radicale del termine. Più propriamente diremmo che questa scienza dell'idea o dell'eidos cristiano è l'anagogia.
La stessa fede teologale costituisce questo quadro dal punto di vista soggettivo. Dice espressamente san Tommaso: "De passione non est fides nisi secundum quod coniungitur veritati aeternae, prout passio circa Deum consideratur. Ipsa etiam passio, quamvis in se considerata sit contingens, tamen secundum quod divinae praescientiae substat, prout est de ea fides et prophetia, immobilem veritatem habet"(De Ver., 14, (De Fide), 8, ad 14). L'anagogia appartiene all'essenza della fede teologale, giacché la fede teologale è una considerazione sub specie aeternitatis. Per questo motivo occorre prestare attenzione nella interpretazione di questo brano tomistico a intendere la praescientia nel senso più rigorosamente corretto di scientia simpliciter e non nel senso di scienza antecedente. Altrimenti verrebbe ad essere vanificata la prospettiva dell'eternità: tota simul. Si tratta dunque della "scienza assoluta di visione". Infatti, trattando espressamente della scienza di Dio, san Tommaso si esprime in modo più assoluto: "Contingentia et infallibiliter a Deo cognoscuntur, inquantum subdunt divino conspectui secundum suam praesentialitatem: et tamen sunt futura contingentia, suis causis comparata" (S.Th., I, 14, 13 c). I contingenti futuri sono necessari "secundum modum quo subsunt divinae scientiae" (S.Th., I, 14, 13, ad 3).
Esiste davvero una opposizione radicale tra fenomenologia e metafisica ? Oppure anche questa è l'ennesima incomprensione dettata più da formule culturali e storiche, che da rigorose ricognizioni teoretiche ? Certo, il linguaggio e i modi espressivi giocano un ruolo spesso fuorviante. Soprattutto quando i concetti diventano imprendibili, come avviene in certo periodare più "fenomenale" che fenomenologico; oppure se i concetti sono svuotati, come quando si presenta una metafisica povera, con svuotamento del concetto di ente.
L'intuizione eidetica, in fenomenologia, è un considerare originario un dato in quanto è dato e nei limiti in cui è dato - così come recita "il principio di tutti i principi" (Cfr. E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, tr it. Einaudi, Torino 1970, I, p.50).
Ma questo implica che il "dato" non può esser dato al di fuori di una considerazione attuale: il pensiero è sempre pensiero di qualcosa, che è appunto pensato da un pensante. L'eidos è sempre un contenuto di un intrascendibile atto di considerazione. E in questa considerazione tutto è incluso: lo stesso atto del considerare. Nell'attuale considerazione di qualcosa rientra anche la considerazione dell'attuale considerare. Questa riduzione o regresso al fondamento fenomenologico dell'intuizione è imprescindibile.
E così, l'eidos è un disegno stabile, senza essere fisso. Stabile: in quanto include tutto, la stessa percezione empirica, essendo inquadrata nell'orizzonte trascendentale del percepire, è colta nella sua metempiricità; considerando una semplice foglia si considera anche il considerare questa semplice foglia, che è questa in quanto collocata in una percezione che la lega simultaneamente alla totalità dell'universo. In questo senso, questa foglia è l'universale: la totalità della considerazione va verso di essa. Non fisso: perché è un atto, una attività o attualità.
L'eidos fenomenologico è equivalente all'intero metafisico: l'ente in quanto ente, che include tutto ed esclude il niente, in quanto non è. Ma ancora, secondo il modo di una esclusione inclusiva: include il niente nel modo di escluderlo. Si tratta di una inclusione dell'esclusione. Un'inclusione semantica. Il sapere l'altro in quanto altro implica il sapere sé come altro dall'altro da sé. L'alterità è esclusa dall'identità nel modo di essere inclusa; o è inclusa nel modo di essere esclusa.
Questa è l'astrazione inclusiva propria della metafisica: quella che si inquadra dentro il modo analogico della predicazione. La nozione analoga include actu implicite le proprie differenze modali. L'ente è ciò che è in qualunque modo e non il residuo della spogliazione di tutti i contenuti reali. Ed è ancora il disegno.
Dio, conoscendo sé, conosce in sé anche l'altro da sé, e la relazione che si intesse reciprocamente tra sé e l'altro da sé, senza dipenderne, ma facendola dipendere.
L'anagogia è il discorso metafisico che inquadra sub specie aeternitatis il dato Rivelato. Si tratta di un inquadramento imposto dallo stesso dato: un prendere tutto il dato rivelato così come si dà secondo tutta la sua totalità. Dio si esprime divinamente e cioè in un Disegno nel quale la simultaneità non deroga alla fluidità: la dinamica istantanea non è la polverizzazione dell'istante, ma la concentrazione in istante.
L'anagogia è il punto prospettico nel quale possono convergere il discorso fenomenologico e quello metafisico in ordine alla Sacra Doctrina.

3. Fuori del tempo per essere in ogni istante

La teologia è il modo con il quale ci si arrende criticamente alla contemplazione. Questo non vuol dire che non ci sia contemplazione senza teologia. Anzi, è proprio vero il contrario: non c'è teologia senza contemplazione. La teologia, nel suo statuto epistemico più rigido - e cioè nella sua natura di scienza - non può costituirsi che in un ambiente contemplativo. La contemplazione, infatti, è il dato vitale della fede teologale e senza fede teologale non si può dare la scienza teologica.
Questa linea speculativa del fare teologia è tipica della riflessione di San Tommaso d'Aquino. Il quadro epistemologico, che San Tommaso adotta per strutturare l'argomentare teologico, è desunto dalla dottrina aristotelica contenuta nei Secondi Analitici. La distinzione tra scienze prime (cioè autonome e indipendenti quanto ai principi propri) e scienze subalterne (cioè eteronome quanto ai principi propri), serve all'Aquinate per attribuire alla teologia la qualifica di scienza in senso rigoroso, seppur analogico.
Come l'astronomia è scienza subalterna alla matematica, perché desume dalle conclusioni di questa i propri principi, per applicarli analogicamente ai dati fisici, così la teologia è scienza in quanto subalterna alla conoscenza che Dio ha di se stesso e di tutto in sé. E come l'astronomo crede alle conclusioni del matematico per procedere nella propria argomentazione, così il teologo crede i principi rivelati da Dio: come i principi del matematico sono evidenti al matematico, ma creduti dall'astronomo; così i principi del teologo sono evidenti a Dio e ai beati, ma sono creduti dal teologo (cfr, S.Th, I, 1, 2 e 3). La fede media tra due scienze; e la scienza subalterna è fondata proprio in questa particolare condizione. Ma la particolare caratteristica della teologia è data dal fatto che essa possiede un'assoluta continuità con la scienza che Dio ha di se stesso. In questo modo la teologia è in certo modo una "quaedam impressio divinae scientiae" (S.Th., I, 1, 3, ad2).
Con maggior precisione si deve dire che la teologia è una scienza quasi-subalterna. In questo caso, infatti, si dà semplicemente subalternanza di principi, ma non di oggetto: quest'ultimo resta perfettamente identico a quello della scienza di Dio, senza subire quelle modifiche accidentali che invece caratterizzano l'oggetto della scienza subalterna (come nel caso esemplificato della astronomia, che applica i criteri matematici alle realtà fisiche). Per questo la teologia è una scienza divina: principalmente perché il suo stesso modo epistemico è tale; implica strutturalmente la fede teologale.
Ma la contemplazione divina, come ambiente fondativo e imprescindibile, si accompagna, nella teologia come scienza, alla speculazione razionale. E in modo altrettanto strutturale. In questo senso, la teologia come scienza vive della mediazione razionale: non solo quanto alla modalità procedurale, ma anche quanto al contenuto. La premessa maggiore del sillogismo teologico è un principio filosofico o una conclusione filosofica. Per questo non c'è teologia senza filosofia. Come non si dà una conclusione argomentativa senza due premesse, così, se una premessa dell'argomentazione teologica è di carattere filosofico, non si può dare conclusione teologica (cioè scienza teologica) senza filosofia.
Certo occorre togliersi dalla testa che la teologia sia un semplice catalogo di definizioni, oppure un riassunto di documenti, o una trascrizione pedissequa di qualche autore classico. Questa è la lezione più profonda che si trova nella teoresi tomista. Lezione che è messa in risalto anche dalla Enciclica Fides et Ratio (73; 77).
La teologia, come comprensione razionale della fede teologale, vive di filosofia. Per questo motivo, la teologia sistematica di impronta tomista tiene fermo l'impegno ad un inquadramento strettamente speculativo, soprattutto nel suo versante logico e metafisico. Ma questo non esclude, anzi, implica il confronto con il pensiero moderno e contemporaneo. E include l'indagine di carattere esegetico di inquadramento delle fonti scritturistiche e dell'ambiente storico in cui i termini prendono consistenza e humus culturale.
È sempre la prospettiva di San Tommaso che lo esige. Questo livello o funzione della razionalità filosofico-culturale viene descritto da San Tommaso come notificazione analogica dei misteri della fede (cfr. In B.Trin.,Pro., 2, 3c.). Questa notificazione può essere realizzata anche attraverso i concetti o le immagini culturali usualmente comuni ad un determinato ambiente purché presentino, pur nella loro semplice opinabilità e non incontrovertibile fondazione, una certa plausibilità - cioè non siano erroneamente deleteri. San Tommaso addita come esempio ciò che fa Sant'Agostino nel De Trinitate, quando usa le dottrine filosofiche del suo tempo per chiarire analogicamente il mistero della SS.Trinità. Questa mediazione rappresenta il tipico processo dell'inculturazione, cioè dell'introduzione della fede in una cultura, e dell'acculturazione, cioè dell'uso di certi contenuti culturali per un arricchimento situazionale della comprensione della fede.
Oltre a questo ruolo intrinsecamente mediazionale, esiste anche una funzione introduttiva (preambolare) e una apologetica della ragione filosofica nei confronti della fede. Pur non essendo costitutive del fare teologia, queste due funzioni sono tuttavia significative del modo di intendere la visione generale della mentalità tomista. Certo, il ruolo apologetico appare oggi fastidioso, persino nel risuonare del vocabolo che lo designa. Ma, anche in questo caso, occorre una valutazione più precisa di questa funzione. Il mio maestro di teoretica all'Università Cattolica di Milano, Gustavo Bontadini, diceva che l'apologetica non è tanto difendere un qualcosa dall'aggressione di un antagonista o di un avversario, ma è soprattutto saper "riconvertire" in segno positivo, cioè come incremento ermeneutico del dogma, l'obiezione che viene sollevata con valore negativo.
Anzitutto, è di estrema importanza il confronto dialettico, perché la verità si decanta con rigore dal cimento delle diverse opinioni: "Ad sciendum veritatem multum valet videre rationes contrariarum opinionum" (In I De caelo et mundo, l. 22). La verità teoretica, infatti, esige uno statuto di incontrovertibilità, cioè di esclusione di una alternativa plausibile: "De ratione scientiae est quod id quod scitur existimetur esse impossibile aliter se habere" (S.Th., II-II, 1, 5, ad 4). Il che implica, almeno tendenzialmente, la negazione della propria negazione: "Nullo enim modo melius quam contradicentibus resistendo aperitur veritas et falsitas confutatur" (De perfectione vitae spiritualis, c. 26 n.734).
Ma San Tommaso riconosce anche un aspetto più positivo nel confronto con posizioni dottrinali dialetticamente contrastanti: "Nulla falsa doctrina est quae vera falsis non admisceat", (S.Th., I-II, 102, 5, ad 4). Questa apertura per così dire dialogica della mentalità realista non è però fine a se stessa; il termine di riferimento ultimo del dialogo rimane sempre la verità: "Non enim pertinet ad perfectionem intellectus mei quid tu velis vel quid tu intelligas cognoscere, sed solum quid rei veritas habeat, (S.Th., I , 107, 2).
E questo è dovuto alla particolare fisionomia del sapere filosofico che accompagna sempre il modo di procedere di San Tommaso: "Studium philosophiae non est ad hoc quod sciatur quid homines senserint, sed qualiter se habeat veritas rerum" (In I De caelo et mundo, l. 22); ciò che si ha di mira è sempre la verità delle cose e non le opinioni al riguardo, o l'autorevolezza umana di chi la propone.
Perciò, gli intenti che ora la teologia di ispirazione tomista deve proporsi sono sempre attuali e classici insieme. E' la lezione di rigore e di attenzione che San Tommaso d'Aquino ha trasmesso. Facciamo un esempio. In S.Th., I, 31, 4, San Tommasopdf arriva persino a domandarsi se si possa dire che "il solo Padre è Dio". Mettendo in campo, come suo solito, tutte le sottigliezze logico-grammaticali che devono accompagnare la teologia speculativa, risponde che se l'espressione significa: "colui, col quale nessun altro è Padre, è Dio", allora quella proposizione è vera, anche se inusuale; ma se significa: "soltanto il Padre è Dio", allora è evidentemente falsa. E le acrobazie concettuali continuano per l'intero articolo. Ma la lezione qual è ? Beh, se San Tommaso perde del tempo per valutare il punto di vista corretto sotto il quale una espressione apparentemente assurda come "il solo Padre è Dio" è plausibile, quanto più occorrerà prestare attenzione a sentenze che appartengono ad altre scuole filosofiche o teologiche, per vedere come in esse vi sia una verità e un punto di vista teoretico significativo e importante!

 

 

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