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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdfIl poliedrico movimento economico e sociale, raccoltosi intorno alla parola «decrescita»,1 sta elaborando un pensiero che si propone come una radicale  alternativa al modello antropologico della modernità «termo-industriale».2 Praticando uno stile quotidiano di vita ispirato a valori di sobrietà affini agli ideali etici della decrescita, mi sono reso conto che questo pensiero presenta anche alcuni rischi intellettuali, connessi alle ambiguità contenute in alcuni suoi concetti-chiave, sui quali ora vorrei soffermarmi.

    La micro-utopia della decrescita

            Il pensiero della decrescita è costituito da una pluralità di filosofie della prassi. È una galassia di pensieri in situazione, frutto di analisi e di esperienze economiche, sociali e culturali. Si propone come radicalmente innovatore sul piano cognitivo, perché vuole rovesciare la prospettiva da cui si guarda la realtà della vita quotidiana.3 Lo colloco nel filone delle filosofie sociali moderne e lo faccio risalire a Rousseau. Egli criticò le diseguaglianze prodotte dallo sviluppo economico-politico mercantilista, in nome di una società a-venire modellata su una «nuova natura»: «per divenire perfettamente felici, [basta] contentarsi di esserlo», un concetto ideale di umanità che nasce dalla proiezione su scala universale di esperienze particolari.4 Come Rousseau, anche il pensiero della decrescita tende a criticare il macro-sistema del mondo occidentale in nome di micro-esperienze, che sono volutamente marginali rispetto a esso e perciò possono vantare una

forza contestativa libera da colonizzazioni mentali capitaliste. Qui colgo il primo elemento di criticità: la grande forza di cambiamento attribuita a quei gruppi di opinione e di azione, che Maritain chiamava «minoranze profetiche di choc».5 Piccoli gruppi, disseminati su tutto il pianeta e collegati tra loro in rete dovrebbero adempiere un compito incondizionato: rovesciare il primato della merce e del profitto, sviscerando il primato della dimensione relazionale su quella economica. La «società conviviale» preconizzata da Illich riuscirà così a sostituire quella capitalista industriale, ormai decrepita.6 Qui si manifesta l'indole utopica e volontaristica di questo pensiero. Il compito della decrescita sarebbe possibile, solo perché in qualche piccola parte della terra se ne sta realizzando un pezzetto. La corrispondenza tra micro- e macro-cosmo è una struttura del pensiero utopico militante moderno, basata sul principio platonico dello sviluppo in forza dell'esempio (paradeigma): ciò che è realizzabile su piccola scala in un certo contesto storico, sarebbe possibile ovunque su scala più ampia.7

    Il cives che verrà

            Una seconda criticità intellettuale è costituita dal corto-circuito posto in essere dall'opzione pan-economicista, alla luce della quale viene poi condotta la critica al mondo occidentale e l'interpretazione delle sue difficoltà antropologiche. 8 Si mette sotto accusa la riduzione del mondo a mercato economico-finanziario e si formula questa critica in forma paradossale come «decostruzione del pensiero economico».9 La traduco così: tutto è economia, ma l'economia non è tutto. Boff afferma che questo procedimento intellettuale risponde all'esigenza primaria, che è spirituale, del genere umano del XXI sec.: è possibile continuare a vivere solo in un mondo differente; non siamo condannati a accontentarci di sopravvivere nel mondo attuale.10 La soluzione proposta consiste nella rivoluzione del paradigma culturale: il passaggio dalla stupidità passiva dell'homo emptor alla partecipazione attiva dell'homo civicus. 11 Il cliente-consumatore non è l'unica modalità oggi possibile di uomo economico. L'enfasi con cui si contrappone il capitale naturale a quello economico esprime l'attesa di una palingenesi economico-politica del mondo.  Come afferma Cassano, il cives non è l'uomo-a-venire: esso ha profonde radici nell'antichità greco-latino-cristiana e – aggiungo io – nella modernità illuminista. Esaltando l'uomo autentico che deve ancora venire, questo paradigma futurista indebolisce l'attenzione per l'uomo ibrido – emptor et civicus – che esiste nel presente e favorisce una semplificazione dei molteplici problemi che l'attuale crisi del tardo capitalismo porta con sé.

    Quale sostenibilità?

            La decrescita è sentita dai suoi sostenitori come una prospettiva ancora troppo indefinita. Questo limite logico viene corretto introducendo aggettivi che la qualifichino: «felice», «serena», «responsabile», «equa», «sostenibile». Mi concentro su quest'ultimo, meno in voga nella pubblicistica sul tema, ma decisamente più rilevante da un punto di vista concettuale. Che cosa s'intende, quando si dice «sostenibile» applicandolo a ciò che deve decrescere? Ci si riferisce al sistema economico, o alla biosfera planetaria, o ancora all'autocomprensione della condizione umana? Indica un sottoinsieme o l'intero dell'essere umano? Per le filosofie della decrescita, «sostenibile» è un aggettivo multiuso, in cui prevale il contenuto critico-negativo: l'esistente (la terra, la società, l'uomo) non può essere considerato una miniera da sfruttare fino all'esaurimento. Così l'antropizzazione del pianeta viene tendenzialmente considerata un male, almeno finché non siano definiti e rispettati i criteri oggettivi che regolano tale sfruttamento.12 Come qualificativo di qualcos'altro, «sostenibile» è un concetto relativo, indefinibile e suscettibile di interpretazioni arbitrarie, che alimenta nel pensiero della decrescita una spiccata tendenza al volontarismo. Il dover fare è decisivo dell'essere: l'urgenza, il fare-presto diventano i criteri dell'essere buono. Da metodi euristici l'emergenza e la paura si trasformano in criteri logici. Curiosamente, è lo stesso procedimento decisionale, a cui la politica e l'economia fanno ricorso in questo tempo di crisi della governance.

            Se invece la sostenibilità viene intesa come sostantivo, esprime la relazione di reciprocità tra l'umanità e il pianeta: per vivere, l'umanità ha bisogno delle risorse della terra; e senza l'umanità, la terra sarebbe un deserto.13 Quando è sostantivata, «sostenibilità» è un concetto relazionale, denso di significato antropologico, perché si riferisce all'originaria coappartenenza tra uomo e mondo. Esso dischiude la grande domanda filosofica: chi è l'uomo? E la declina obbligando a riflettere se e a quali condizioni questo ideale è stato realizzato nel passato e come lo può essere nell'imminente futuro. Si tratta perciò di un concetto in cui prevale il contenuto progettuale-positivo, in cui l'antropologia e l'etica s'intrecciano nella linea del «principio responsabilità».14 C'è dunque una sostenibilità originaria, la quale è matrice di tutti i significati ulteriori di questo concetto, che è la sostenibilità del pensiero. Dilthey sosteneva che proprio nei periodi di crisi, nei tempi in cui si ottenebra il senso, occorre ritornare alle origini del logos.15 Solo comprendendo il passato, ci si può orientare nel presente verso il futuro.

            Questo lavoro ermeneutico e archeologico è ciò che manca alle filosofie della decrescita e al loro concetto di sostenibilità. È ciò che le rende prassistiche ma non pratiche, emergenziali ma non deontologiche, concrete ma non realistiche. Il rischio è che tutto questo sforzo di pensiero si traduca in una decrescita dello spessore antropologico della filosofia, a vantaggio di un'ipertrofia emergenziale dell'etica, che senza un solido fondamento nel logos rischia di diventare assertoria e ideologica.

    La profezia eco-centrica

            Dalla logica al linguaggio il passo è breve. Qui s'incontra un'altra criticità, annidata nel linguaggio profetico-apocalittico, a cui spesso si fa ricorso: Decrescita o barbarie; oppure: Decrescita o collasso.16 Si usa in modo equivoco un altro concetto: quello di «crisi». Da una parte, l'odierna crisi economica viene presentata come la malattia mortale del sistema globale uomo-mondo.17 Si ipotizza che entro la fine del XXI sec. il mondo potrebbe esistere/sopravvivere senza di noi, a motivo del quadruplice carattere – economico, alimentare, energetico e climatico – della crisi stessa, la quale fatalmente diverrà sempre più strutturale. Dall'altra, si attribuisce alla crisi un grande valore euristico: la sua ineluttabilità è l'unico fattore che può indurci a prendere coscienza del pericolo letale che l'umanità sta correndo. È il tracollo dell'uomo maggiorenne illuminista, che si decide a capire e a cambiare solo quando si trova sull'orlo del baratro.18 Qui l'afflato utopico pare spegnersi, per lasciare spazio al disincanto e al grido: «salvatevi, finché siete in tempo!».19 Intravvedo sullo sfondo di questo doppio pensiero il modello biblico-profetico di  Geremia e Daniele. La traduzione filosofica di questo pensiero suona come «superamento dell'antropocentrismo» illuminista occidentale, a favore dell'ecocentrismo: è il passaggio dalla terra dell'uomo all'uomo della terra. Si evocano le mitologie cosmogoniche arcaiche e le filosofie orientali, senza considerare che proprio il mito di Gaia, l'Alma Mater, è stato decisivo per il costituirsi del logos antropocentrico occidentale.20

            La contraddizione dell'eco-centrismo non sta solo in questo difetto di comprensione storica. Con i filosofi del Settecento, per antropocentrismo intendo la capacità dell'uomo di generare il rapporto con la natura (Rousseau), di custodirlo dentro di sé come in una sorta di microcosmo (Leibniz), di riconoscere la finitudine del proprio conoscere e del proprio operare (Kant) fino a aprirsi alla relazione con l'alterità divina e a esprimerla nella socialità comunitaria (Schleiermacher).

            L'antropocentrismo non è una filosofia, ma lo sguardo fondamentale con cui noi guardiamo alla realtà di cui siamo parte.21  Per questo, esso è ciò che non può essere superato e costituisce il patrimonio ideale a cui il mondo occidentale può attingere per comprendere i compiti presenti. Decostruendo dell'uomo occidentale e del suo smisurato orgoglio narcisista, il pensiero della decrescita proclama la fine di un modello antropocentrico, per fare spazio a visioni altre del mondo che vecchi e nuovi colonialismi hanno sempre disconosciuto. Ma la sfida antropologica è più esigente: come aveva intuito La Pira, il pensiero del XXI sec. è chiamato a riconfigurare l'uomo occidentale a partire dalle sue ancestrali radici mediterranee bibliche e elleniche, sviluppandone quella dimensione relazionale  – emotiva, intellettiva e politica al tempo stesso – che è la struttura portante del suo logos trimillenario.

    Il limite: barriera o risorsa?

            L'ultima criticità, che è la matrice delle ambivalenze precedenti, può essere formulata con le parole di Latouche: «né rigore né rilancio», ovvero rifiuto categorico di ogni tipo di crescita. A questo doppio «no» fa da contrappunto il duplice «sì» ai due «tabù» della «controrivoluzione neoliberale»: «l'inflazione e il protezionismo».  Tradotto nel linguaggio della decrescita: «sì» a una «società dell'abbondanza frugale», o della «prosperità senza crescita»; «sì» all'Europa della solidarietà e della convivialità.22 Qual è il loro significato filosofico? Si deve pensare e progettare il mondo a-venire – prosegue Latouche – facendo a meno del concetto di infinito e di quello, da esso derivato, di sviluppo.23 Non si può più immaginare la storia antropologicamente come processo aperto, ma naturalisticamente come ri-torno e ri-circolo. Le parole-chiave del pensiero economico-politico della descrescita – equità, risorsa, sostenibilità – portano in sé il significato di un limite ontologico invalicabile e corrispettivamente del pericolo di ogni tentativo di trascenderlo. Perciò sarebbero corrette (e anche scientificamente fondate) solo quelle politiche economiche che sono precedute dal suffisso «ri»:24 il limite economico è anche il limite biologico e, insieme, questi due limiti corrispondono al limite ontologico della natura e dell'umanità. A ben vedere, le «otto erre» programmatiche della decrescita («rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare») si riassumono in una modalità ontologica, prima ancora che etica e politica, di resistenza, che suona come voler a tutti i costi restare al di qua del limite.25 Considero questa prospettiva ambigua e pericolosa. È ambigua, perché non tutte le forme di ri-circolo economico, sociale, culturale sono esenti dalla possibilità di una re-gressione verso politiche, che in passato hanno prodotto tensioni e conflitti.26 Il concetto di limite comprende in sé la dimensione della trascendenza e rinvia a un oltre e un altro che sta nell'oltre. Declinato politicamente, esso esige di ri-potenziare i luoghi dell'intreccio tra le culture e delle sinergie economiche internazionali. È pericolosa, perché non esce dall'alternativa tra un'idea di storia come movimento lineare e un'altra come movimento circolare. Entrambe queste idee nel corso del XX sec. hanno prodotto visioni del mondo ben poco conviviali. Sulla scia del pensiero ermeneutico si può invece pensare la storia come un dinamismo complesso e plurale, caratterizzato dall'intreccio di molteplici orizzonti concomitanti. Laddove essi si fondono il vero e il bene si manifestano nell'atto del consenso e in quello del coagire, ovvero nel costruire un pensiero comune. Questa è la condizione per prestare ascolto alle ragioni degli altri, specie se più deboli: i «naufraghi della terra» non sono automaticamente portatori di speranza per il mondo; ma lo diventano, dove vengono loro riconosciute dignità e capacità.

    L'alternativa alla modernità

            Non è in discussione la validità degli appelli alla sobrietà nella vita quotidiana, ma l'interpretazione filosofica della modernità e della sua crisi: la riduzione del moderno a tecno-scienza, intesa come cultura del dominio e dello sfruttamento, è molto discutibile. Si assume in modo acritico la contestazione di Illich al concetto di sviluppo, grazie a cui il tardo capitalismo avrebbe trasformato il bisogno da naturale a indotto e contemporaneamente avrebbe ridotto la speranza a un'aspettativa calcolabile, facilmente realizzabile attraverso il consumo.27 Sviluppo sarebbe solo il nome convenzionale della cattiva coscienza del capitalismo, il quale rende gli uomini miserabili e incapaci di qualunque autonomia, semplicemente modernizzandoli.28 Se il mondo moderno fosse solo il frutto della colonizzazione capitalista del futuro, non resterebbe altro che gridare contro la massificazione del presente e costruire micro-alternative che si oppongano alla società pervasiva dello spreco e dell'impoverimento. Semmai esista, questa non è la strada dell'esodo dalla modernità, dai suoi sistemi istituzionalizzati e dalle sue pratiche quotidiane. Si rischia soltanto di imporre uno stop al pensiero, che diventa incapace di comprendere l'humanitas di cui le società e le filosofie moderne sono portatrici. È paradossale che nel pensiero in cui tutto è «ri», proprio l'uomo moderno e la sua cultura finiscano nel cassonetto dell'indifferenziato.

            Mi paiono più fondate altre interpretazioni della crisi, che non postulano la fine della modernità, ma la sua trasformazione. Più di mezzo secolo fa, proprio a partire dalla regressione dell'homo faber moderno allo stadio di animal laborans, Arendt ha indicato nel principio-azione la via per una nuova modernità, costituita non dal «morire» ma dall'«incominciare».29 La sua voce appartiene al coro della filosofia ebraica europea, che propone la ri-umanizzazione dell'uomo occidentale moderno in forza dei principi moderni di alterità, relazione e ospitalità.30 L'alternativa è scritta dentro e non fuori la cultura moderna. A maggior ragione, la globalità e la profondità della crisi odierna ci chiedono un nuovo sforzo interpretativo. Non è il tempo dei massimalismi e delle impossibili alternative, ma quello di un nuovo homo faber, che costruisce il futuro guidato dal principio  «mai senza l'altro».31 Si tratta di implementare la razionalità progettante moderna, già capace di sinergie tra la teoria e la prassi. Il pensiero della differenza sostituisce alle visioni bipolari – di cui soffrono anche le filosofie della decrescita – la strategia policentrica dell'inclusività, grazie a cui anche le periferie della vita quotidiana possono diventare centri del pensiero. Proprio il pensiero moderno rende gli uomini europei capaci di costruire una cultura della mediazione e del progetto, che muova i suoi passi dall'ospitalità degli esseri umani impoveriti nel cuore e nella mente.32 Per essere il «cuore pensante»33 di coloro che stanno pagando il conto del sogno infranto, non c'è bisogno di una filosofia dell'alternativa. Ritornare a pensare insieme è probabilmente il primo passo per uno sviluppo sostenibile della nostra civiltà planetaria. Qui il pensiero della decrescita ci è d'aiuto con una preziosa indicazione di metodo: possiamo «ri-valutare» le vie del pensiero relazionale che molta filosofia moderna e contemporanea ha già indicato e che la nostra pigrizia intellettuale ha lasciato cadere.

NOTE:

1 Intendo la decrescita come riduzione globale dell'impatto antropico sul pianeta:  M. Wackernagel, W. Rees, L’impronta ecologica. Come ridurre l’impatto dell’uomo sulla terra, Ambiente, Roma 2008; N. Geogescu Roegen, Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

2 S. Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, 96.

3 S. Latouche, «Il Manifesto del Doposviluppo», in http://www.decrescita.it/ (28 novembre 2011), il quale parla a questo proposito di una «sovversione cognitiva» che consiste nella «decolonizzazione del nostro immaginario» e nella «diseconomicizzazione delle menti».

4 G. Forni Rosa, Dizionario Rousseau, CLUEB, Bologna 2005, 61-63.

5 J. Maritain, L'uomo e lo stato, Vita e Pensiero, Milano 1981, 167-169. Esse devono «destare il popolo, destarlo a qualcosa di meglio delle sue occupazioni quotidiane, al sentimento di un compito superindividuale da realizzare». Maritain precisa: queste minoranze hanno efficacia perché «la loro missione ha origine nel loro stesso cuore e nella loro coscienza». Si inseriscono nel tessuto culturale e politico come «profeti dell'emancipazione»; non prescindono da esso costituendosi come alternativa anti-politica.

6 I. Illich, La convivialità. Una proposta libertaria per una politica dei limiti allo sviluppo, Boroli, Milano 2005, 58-59. Alla produzione industriale basata sulla «ripetizione della carenza» la società conviviale sostituirà la «spontaneità del dono».

7 Platone, Repubblica, 472 c-d. In questa trappola del pensiero utopico sono caduti anche Marx e Engels, quando preconizzavano la diffusione su scala mondiale delle lotte operaie divampate in alcune aree industriali e minerarie europee: K. Marx, F. Engels, Il Manifesto del partito comunista, Riuniti, Roma 1971, 112-113.

8 Tra gli antesignani di questa impostazione: K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.

9 S. Latouche, «Il Manifesto del Doposviluppo»: «L'economia dev'essere rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo».

10 L. Boff, Spiritualità per un altro mondo possibile. Ospitalità, Convivenza, Convivialità, Queriniana, Brescia 2009.

11 F. Cassano, Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Dedalo, Bari 2004, 19-32.

12 La discussione verte sulla criteriologia: economica o biologica? La sostenibilità economica viene definita così: «l'intera rendita di estrazione della risorsa esauribile viene investita in capitale prodotto dall'uomo, garantendo la continua sostituzione della  risorsa esauribile con capitale riproducibile» (A. Lanza, Lo sviluppo sostenibile, Il Mulino, Bologna 2006, 82-84). In prospettiva biologica si parla di eco-sostenibilità, intendendo il principio secondo cui il rapporto tra lo sfruttamento di energie e la capacità del pianeta di ricostituirle sia pari a zero (D. Meadows, J. Randers, D. Meadows, The limits of growth. The 30-year update, Earthscan, London 2005). Le due prospettive possono essere interconnesse (I. Musu, Introduzione all'economia dell'ambiente, Il Mulino, Bologna 2003).

13 I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Roma-Bari 1984, 320-321.

14 H. Jonas, Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1993, 30: «Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla terra».

15 W. Dilthey, Le origini dell'ermeneutica, Patron, Bologna, 49-76. Non molto diversamente: M. Heidegger, «Il detto di Anassimandro», in Id., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1987, 299-348.

16 P. Cacciari, Decrescita o barbarie, Carta, Roma 2006; M. Bonaiuti, «Decrescita o collasso? Appunti per un'analisi sistemica della crisi», in http://www.decrescita.it/ (21 novembre 2011).

17 I. Illich, La convivialità, riassume la sua critica sferzante alla civiltà del capitalismo industrializzato e dell'uomo-macchina con l'espressione «apocalissi tecnocratica».

18 L. Boff, «Crisi terminale del capitalismo?», in In dialogo, 93(2011), 25-27.

19 In un recente intervento al Parlamento europeo, da lui definito il «tempio della religione della crescita», S. Latouche si è collocato non a caso in «una posizione iconoclasta»: Id., «Uscire dalla religione della crescita», Il Manifesto, 27 luglio 2011, 16.

20 J.-P. Vernant, L'universo, gli dei, gli uomini, Einaudi, Torino 2001, 9-16.

21 Anche decretare la «fine dell'uomo» a opera dell'impero della tecnica (M. Foucault,  Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1977, 411-412), è pur sempre un'affermazione antropocentrica.

22 S. Latouche, «Decrescere dalla crisi», Il Manifesto, 27 luglio 2011, 16. Ciò richiederà agli stati europei (e occidentali in genere) di intraprendere una politica economica di stile neokeynesiano, capace di gestire sia il mercato interno sia quello estero con misure di controllo della spesa pubblica e del costo del lavoro, rifiutando il dogma liberista di lasciare le mani libere ai mercati. Contestualmente si dovrà porre termine anche alla moneta unica europea. Non è questo il luogo per una discussione economico-politica sul futuro dello stato sociale.

23 S. Latouche, «Sacro sviluppo», Carta, 13(2010), in http://www.filosofiatv.org/ (1 dicembre 2011). In polemica con l'enciclica di Paolo VI, Populorum progressio (1967) sostiene che «lo sviluppo non è il nuovo nome della pace, bensì quello della guerra. [...] Al contrario, una società di decrescita riporterebbe la pace e la giustizia al centro».

24 Non è un caso che a partire dal Forum di Rio de Janeiro del 1992, il linguaggio della decrescita ha stabilmente assunto il suffisso «ri/re». Nelle numerose «Carte sugli stili di vita» diffuse da allora a oggi in tutto il mondo, le parole-chiave senza tali suffissi sono pochissime.

25 S. Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2007, 122.

26 Penso alla ri-nazionalizzazione dell'economia europea: sarebbe un ri-piego alla mancata unione politica. Re-staurando un ipertrofico e obsoleto concetto di sovranità politica nazionale, rischierebbe di vanificare il progetto di solidarietà interstatale, con cui i padri dell'Europa ri-costruirono nel medesimo atto le democrazie nazionali e la pace continentale, infrante dalla guerra più sanguinosa che l'umanità abbia mai conosciuto.

27 I. Illich, «Bisogni», in W. Sachs (ed.), Dizionario dello sviluppo, Gruppo Abele, Torino 1998, 65-76.

28 I. Illich, Per una storia dei bisogni, A. Mondadori, Milano 1981. S. Latouche, «La buona notizia di Ivan Illich. Il dopo-sviluppo e la decrescita come necessità della società conviviale», conferenza tenuta a Bologna il 14 giugno 2003, in
http://www.edscuola.it/ (28 novembre 2011): così sintetizza la sua critica alla crescita e allo sviluppo: «1) generano una crescita delle diseguaglianze e delle ingiustizie mai vista; 2) creano un benessere largamente illusorio; 3) non generano, anche per i ricchi stessi, una società conviviale, ma un’anti-società ammalata della sua ricchezza».

29 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2004, 182.

30 É. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sullesteriorità, Jaka Book, Milano 1998, 191-253. P.L. Cabri, Sulla difficile arte di amare. Con Lévinas e olre Lévinas, EDB, Bologna 2011, 273-311.

31 M. de Certeau, Mai senza l'altro. Viaggio nella differenza, Qiqajon, Magnano 1993.pdf

32 P. Boschini, «Vie d'uscita. Chiesa e impoveriti in Italia alla luce del metodo della mediazione», in In dialogo, 91(2011), 85-90.

33 E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 2000, 196.

 

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