1. Il pensiero di Ernst-Wolfgang Böckenförde si colloca lungo la linea autorevole che parte da molto lontano, dai teorici della sovranità e dello Stato all’alba del mondo moderno, e giunge fino a Max Weber, Georg Jellinek, Carl Schmitt e Hans Kelsen. Si tratta dunque di un pensiero estraneo alle teorie del liberalismo articolatesi sul piano logico e razionale del neocontrattualismo, del comunitarismo, dell’anarchismo individualista. Böckenförde, cioè, è estraneo al filone dei vari Rawls, Nozick, Sandel, Habermas, ecc. Egli non cerca una giustificazione logica dell’ordine politico prescelto, tentando di dimostrare con argomentazioni autoevidenti che qualsiasi comunità composta di individui razionali, costruirebbe, se potesse, un ordine politico con date basi di giustizia e libertà. In Böckenförde è attivo un altro principio di ricerca, più dinamico, capace di rendere conto della dimensione diacronica attraverso la quale si sono istituite le formazioni dello Stato, della democrazia, dell’ordine liberale. Quindi la sua ricerca non si sofferma solo sui tratti visibili del processo di costruzione dell’ordine politico, ma volge lo sguardo a quei significati più latenti, ma indispensabili se si vuole conoscere il problema dello Stato e della libertà. In questo, egli è convinto che la religione giochi un ruolo decisivo nella costruzione del sistema politico improntato alla libertà umana, nelle plurali declinazioni con qui questa si è espressa nella storia del mondo occidentale. La religione, con ciò, è una sorta di fiume sotterraneo capace di nutrire le escrescenze istituzionali che – una volta consolidatesi – invocano l’emancipazione dal contenuto religioso dell’opzione pubblica. In un certo senso, lo Stato liberale e la
democrazia sono dei processi incendiari che per manifestarsi hanno bisogno di consumare il combustibile che l’hanno prodotti: il sentimento religioso, inestricabilmente connesso all’associato processo di secolarizzazione. Da questo punto di partenza possiamo comprendere la notorietà dell’affermazione di Böckenförde per cui «lo Stato liberale, secolarizzato, vive di presupposti che esso di per sé non può garantire»1.
Solo lungo tale prospettiva, solcata dalle contraddizioni fra le condizioni sistemiche (giuridiche e politiche) di organizzazione della vita pubblica, riusciamo a cogliere la profondità del discorso di Böckenförde, il quale riesce a entrare nella complessa struttura della teoria dello Stato odierna, riuscendo a coniugare l’elemento giuridico con la struttura di valori di fondo e la trama sottile delle connessioni culturali, religiose e filosofiche. Ecco perché il suo pensiero è, innanzitutto, valido per spiegare la crisi dell’idea di Stato-nazione, che è al tempo stesso una crisi profonda di un certo modo individualista di pensare il liberalismo.
2. Nel ripercorrere le tappe principali del pensiero di Böckenförde, è utile partire per i nostri scopi da uno dei suoi saggi più noti: La nascita dello Stato come processo di secolarizzazione. In esso, egli individuava le premesse della secolarizzazione nel XI secolo, ovvero durante la lotta per le investiture tra Papato e Impero. Fu allora che si posero le basi per la distinzione politica tra mondano e spirituale, e la traiettoria di questa plurisecolare evoluzione è giunta fino a noi, dettando la tensione esistente fra le condizioni sistemiche dell’ordine liberaldemocratico e lo stato della coscienza interiore del cristiano, e in particolare del cattolico. Essa è passata per la stagione delle Riforme (protestante e cattolica), per il pensiero razionalista (in particolare Hobbes) e per l’Illuminismo e la Rivoluzione francese. Le fasi di questo processo di secolarizzazione sembrano inesorabilmente volte alla tacitazione del sentimento religioso, per lo meno nel suo profilo pubblico. È evidente, però, che la concezione con cui ci poniamo alla lettura di questa evoluzione storica risente della teologia della storia che possediamo. Böckenförde si domanda se la fede cristiana, nella sua struttura interna, è una religione come le altre, per cui la giusta forma in cui può presentarsi è quella del culto pubblico (una possibile religione civile), oppure essa trascende le religioni precedenti, in quanto la sua efficacia e la sua realizzazione stanno proprio nell’abbattere le forme sacrali della religione e il dominio pubblico del culto, e nel condurre gli uomini verso un ordinamento razionale, “temporale” del mondo, cioè alla consapevolezza della propria libertà 2. La domanda non è peregrina, e d’altronde essa potrebbe connettersi all’autorevole filosofia hegeliana, per la quale la secolarizzazione non è la negazione ma la realizzazione del contenuto della Rivelazione, dunque con l’incarnazione di Gesù Cristo.
Tuttavia, se queste domande implicano risposte ispirate da una concezione teologica, il ritorno sul piano politico porta Böckenförde a domandarsi «di cosa vive lo Stato, dove trova la forza che lo sostiene e garantisce l’omogeneità e le intrinseche virtù regolative della libertà, delle quali ha bisogno da quando la forza vincolante tratta dalla religione non è né può più essere essenziale per esso?» 3. Fino al diciannovesimo secolo, infatti, la religione cristiana, anche se ormai al di fuori della concezione sacra dello Stato, costituiva il legame vincolante per l’ordine politico. Nel diciannovesimo secolo ad assolvere alla stessa funzione fu l’idea di nazione. Oggi è in crisi pure tale idea. E siccome non appare possibile fondare il legame di sovranità solamente attorno all’espressione formale dello Stato giuridico – perché appare chiaro che il legame unificante deve precedere l’ordine pubblico che si dota di un impianto costituzionale 4 – come è possibile uscire dalla contraddizione per cui lo Stato non sembra più in grado di garantire – da solo – i presupposti di libertà e pluralità? Difatti, lo Stato non può fondare da se stesso i valori profondi che dichiara di garantire, per cui la soluzione a tale contraddizione è nel richiamo vibrante che Böckenförde fa nei confronti dei cristiani. Sta a loro riscoprire il rapporto con lo Stato di diritto, questo Stato che è sì mondano e secolarizzato, ma nella sua laicità è l’opportunità della libertà, dalla quale si può procedere per la costruzione di un ordine pubblico confacente ai valori cristiani. D’altronde, si chiede Böckenförde in un altro frangente, cosa significa dal punto di vista politico il progetto teologico di puntare al Bene e all’ordine della verità, «quando Dio stesso con noi uomini si assume sempre di nuovo, e nonostante le delusioni, il rischio della libertà?» 5. La conciliazione della contraddizione, dunque, si effettua sul piano dell’impegno politico dei cattolici, sul superamento (non il dissolvimento) dell’aporia fra l’ordine mondano nel quale lo Stato professa (e a volte ostenta) la neutralità rispetto alla fede religiosa.
3. Dunque, seguendo Böckenförde abbiamo potuto constatare come esista una contraddizione fra la definizione formale dell’istituto della democrazia e i suoi necessari valori fondativi. Tuttavia tale contraddizione non è insanabile, e il superamento avviene sul piano dell’azione politica dei cristiani (e dei cattolici in particolare), i quali devono vincere le tre sfide principali che fondano la tensione fra la propria fede e l’agire politico. La prima sfida, più scontata, fa riferimento alla vocazione del cristiano – e in particolare del cattolico – che nell’azione politica assegna il primato al contenuto morale dell’opzione pubblica, e lascia in secondo piano la questione della costruzione formale del progetto politico. Cioè, la democrazia è sempre un mezzo, mai un fine. I fini sono quelli che ineriscono al disegno di salvezza sull’umanità, e chiamano in causa la pace, la fine delle povertà, l’affermazione della dignità di tutti e di ciascuno, ecc. A proposito del cattolico, dice Böckenförde che «a lui importa l’ordine e la configurazione della vita statale e sociale secondo i principi che scaturiscono dalla Rivelazione e dal diritto naturale e secondo le loro applicazioni, nella misura in cui queste riguardano l’ambito sociale. Per contro, le questioni relative alla forma di Stato hanno per lui un’importanza minore; il cristiano è tentato di giudicarle in base a quanto questa o quella forma statale garantisce o almeno facilita la realizzazione di tali principi, che sono validi in sé» 6. La seconda fa riferimento alla frattura che vive il cristiano, e il cattolico in particolare, rispetto alle origini spirituali della democrazia moderna. Il contenuto della fede, infatti, vincola l’attore sociale cristiano all’adesione alle norme immutabili dell’ordine divino del mondo. Al tempo stesso sa che il peccato originale ha corrotto l’uomo e dunque sarà sempre contrario all’idea di autonomia del pubblico dal religioso. In ultimo, egli vive un rapporto problematico con l’idea di libertà, nella sua accezione moderna, cioè individualistica. Difatti, osserva Böckenförde, «l’immagine del mondo propria della cristianità europea, formatasi durante il dominio plurisecolare di ordinamenti autoritativi, concede un posto molto più elevato al “buon ordine” e alla virtù che non alla libertà individuale», soprattutto tenendo a bada gli esiti relativistici della diffusa concezione della libertà come espressione tipica che autorizza la formulazione di qualsiasi verità elaborata soggettivamente.
Queste tre sfide possono essere vinte sul terreno del riconoscimento politico delle pari dignità, e dei pari diritti, di ciascun uomo che non avanzi alcuna pretesa egemonica del proprio credo e della propria opzione politica. Si tratta di valori cristiani, oggi li riconosciamo anche al centro dell’ethos strutturale della democrazia moderna. Se la loro lettura può condurre alla pessimistica considerazione dell’affermazione del relativismo, essa può anche essere pensata come funzionale all’affermazione de «il riconoscimento incondizionato del prossimo come persona» 7.
4. Il pensiero di Böckenförde non è solo una raffinata lettura di un processo che attraversa la storia del mondo occidentale e definisce oggi il terreno della vocazione civile e politica dei cristiani. Attraverso di esso possiamo leggere la direttrice di sviluppo delle trasformazioni dello Stato e delle istituzioni politiche contemporanee. Oggi, infatti, appare insufficiente fondare la democrazia continuando ad avere in mente gli schemi del passato: sono cambiati i protagonisti della contesa pubblico/privato, sociale/individuale, e nuovi ruoli e simboli sono apparsi sulla scena della comunità umana. In luogo degli attori tradizionali (individuali e/o collettivi), oggi emerge una «global web of mutual dependency» 8 e – seppure in modo diverso e con l’adozione di categorie eterogenee – a tale risultato giungono quasi simultaneamente le ricerche più recenti delle discipline umano-sociali. A questo risultato possiamo far dunque corrispondere il principio dell’interdipendenza, secondo il quale nulla di ciò che sta accadendo o potrà accadere altrove può essere a priori ritenuto ininfluente qui ed ora 9. Al principio dell’interdipendenza si accompagna il conseguente argomento che i beni e gli interessi di tutti e di ciascuno sono necessari per il perseguimento del proprio. Potremmo definirlo come principio del comune destino. La sua formulazione logica dice che le determinazioni sostantive dei beni perseguiti da attori, gruppi e comunità entrano in un rapporto organico fra loro. Per cui ogni determinazione del fine/bene perseguita da un attore, un gruppo, una comunità, non può esulare dalla considerazione sulle possibilità di realizzazione dei fini/beni di ogni altro. D’altronde, non è più consentito scommettere nel medio e lungo periodo che la mia fortuna sia indipendente da quella di chi mi sta attorno, e per cerchi concentrici via via più estesi, di quella di chiunque altro.
Applichiamo questi due principi alla teoria democratica. Quello d’interdipendenza c’insegna che tutti potenzialmente operano su tutti, per cui sarebbe rischioso dimenticarsi di coinvolgere qualcuno nel processo politico, ai diversi livelli di articolazione degli interessi, di rappresentanza e di deliberazione. Ciò significa che il principio d’interdipendenza va al di là di qualsiasi problema di suffragio, di partecipazione e di configurazione del demos. La democrazia diventa un processo dinamico volto all’inclusione individuale, sociale e culturale. Il suo obiettivo è di estendersi a quell’interstizio dal quale può scaturire un effetto capace di influenzare qualunque storia. Si tratta, in pratica, di rivitalizzare il problema della struttura dei valori di fondo capaci di tenere insieme le comunità politiche, rivelando l’inconsistenza dei progetti politici che credono di potersi fondare in modo esclusivamente formale. In questo frangente il recupero della posizione di Böckenförde è oggi necessario. La sua ampia teoria è al servizio della lettura dei tempi attuali, segnati dall’interdipendenza e dal destino comune, che affermano che il bene, qualsiasi idea di bene, deve tenere conto di quello di ciascun altro. Ogni omissione può risultare pericolosa, addirittura fatale. Il suo necessario risvolto etico è che dovremmo ricercare il bene altrui come fosse il nostro. Quale migliore formulazione di tale sfida enunciata dal pensiero sociale cristiano nel § 167 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa? Se tale principio ha una verità fondativa cristiana determinata dal disinteresse con cui dovrei applicarlo, oggi esso presenta una drammatica evidenza. Amare il bene altrui come fosse il proprio è decisivo per il nostro stesso destino: nessuno può salvarsi da sé, è impossibile credere che la nostra piccola isola felice possa rimanere tale se tutt’attorno c’è una sofferenza diffusa.
La crisi dello Stato nazione, nella sua versione liberaldemocratica, è invece l’annuncio di un tempo differente, nel quale il pensiero di Böckenförde può guidarci verso la sua piena comprensione.
NOTE:
1 Böckenförde E.-W., Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, Laterza, Roma-Bari, 2010, p. 53.
2 Ivi, p. 51.
3 Ivi, p. 52.
4 Si domanda Böckenförde «a cosa servirono alla democrazia di Weimar tutte le assicurazioni dello Stato di diritto, dal momento che era venuto meno proprio quel fondamento, cioè la lealtà democratica dei gruppi politici?» (Böckenförde E-W., Cristianesimo, libertà, democrazia, Morcelliana, Brescia, 2007, p. 192).
5 Ivi, p. 197.
6 Ivi, p. 194.
7 Ivi, p. 197.
8 Bauman Z., Does Ethics Have a Chance in a World of Consumers?, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts – London, England, 2008, p. 72.
9 Osserva ancora Bauman che «Whatever else “globalization” may mean, it means that we are all dependent on each other […] Something that happens in one place may have global consequences […] What we do (or abstain from doing) may influence the conditions of life (or death) for people in places we will never visit and of generations we will never know»; Bauman Z., Does Ethics Have a Chance in a World of Consumers?, cit., p. 71.