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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

 

Una economia aperta all’etica

In premessa, si consideri che, al contrario di quella che è un’opinione diffusa, nelle questioni economiche,pdf non c’è un solo modo di “fare teoria”, oppure di “comportarsi in pratica”, bensì - in entrambi i casi - ve n’è più di uno. Ciò, in primo luogo, in quanto, gioca un ruolo la diversa impostazione analitica degli economisti,oppure la diversa attività operativa da parte dei tanti soggetti agenti; in secondo luogo, in quanto contano le differenze concernenti i condizionamenti dovuti ad aspetti esterni all’economia, ed in particolare a diversità di valori e norme morali (o attinenti all’etica) che si sottoscrivano.

Sul primo punto, si consideri che le teorie perseguite dagli economisti, così come le azioni esperite dai diversi operatori, sono molteplici, mentre personalmente ritengo che possano essere accorpate in due grandi gruppi distinti e diversi. In particolare, quanto alle teorie, si verranno a confrontare, da un lato, un approccio di tipo neoclassico-monetarista e, dall’altro, un approccio di tipo classico-keynesiano, mentre - come specificamente sosteneva Keynes (1936) e come, personalmente, ne sono convinto - le prassi si adegueranno sempre, prima o poi, in un modo o in altro, alle teorie prevalenti.

Nel primo caso, le posizioni dell’approccio neoclassico-monetarista si sono presentate, pur in presenza di certe differenze fra loro, come complete o chiuse, e allora, soffrendo di autoreferenzialitàe dicircolarità, come non corrette e non valide. Nel secondo caso, le posizioni dell’approccio classico-keynesiano si sono presentate, pur nelle loro differenze, come incomplete o aperte, e allora, procedendo al loro

completamento o chiusura, si sono affermate come corrette e valide.

Personalmente, nell’intero mio percorso scientifico, mi sono riconosciuto in posizioni di tipo classico-keynesiano. Ciò, in primo luogo, in quanto sono state in grado di cogliere aspetti cruciali della realtà economica, quali il ruolo rispettivo delle grandezze rilevanti sul piano sia della domanda che dell’offerta, una teoria della distribuzione del reddito non appiattita su quella della produzione, e così per altri rilevanti aspetti. In secondo luogo, al contrario delle posizioni chiuse, quelle aperte hanno il pregio della possibilità di essere completate dall’esternodell’economia, evitandosi così lo scoglio della circolarità. Allora, tutte le variabili di un modello (o di un comportamento) economico verranno determinate correttamente, ed in particolare lo saranno stante il ricorso al ruolo di una, o l’altra, opzione di morale sociale.

D’altro canto, sul secondo punto, si consideri che vi sono state molte differenze tra gli economisti; e ciò, a partire da quando A. Smith, nella sua opera fondamentale La ricchezza delle nazioni (1776), effettuò la separazione fra l’economia e l’etica. Tuttavia, tale separazione - durata per circa due secoli - ha subito, per così dire, una certa inversione di marcia nella seconda metà del secolo scorso, allorché da parte di un gruppo di economisti è stato ripreso il discorso sulle interrelazioni fra economia ed etica. Personalmente, ho sottoscritto tale posizione, tanto da potermi definire un economista eticamente motivato. In particolare, l’ho fatto sulla base dell’adesione alla dottrina sociale cattolica.

In realtà, essendo l’economia il portato di posizioni e scelte di tipo soggettivo, si comprende che il loro completamento non può ottenersi se non con riferimento a valori e norme morali di carattere oggettivo, o universale, ed in particolare con gli inputs rivenienti da quella dottrina.
Segue che solo così sarà ottenuta l’appropriata combinazione tra una corretta teoria socio-economica, come col modello d’impostazione classico-keynesiana, ed un valido apporto di tipo etico, come con la dottrina sociale cattolica.

Anzi, da questo punto di vista, ragionando in termini di convergenza fra posizioni etiche differenti, ma entrambe ispirate a valori oggettivi, si può emblematicamente fare il caso dei rapporti tra le conclusioni cui era pervenuto il filosofo laico John Rawls (1971) e la dottrina sociale cattolica, secondo la quale - come scritto dal Papa Giovanni Paolo II° nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis (1987) - «ciò è necessario in base alla intrinseca dignità umana e non per qualsiasi forma di contrattualismo sociale».

 

La globalizzazione

Nell’età contemporanea, come noto, si è affermato con forza il paradigma della globalizzazione, ancora oggi in auge anche se un po’ appannato rispetto alla situazione dominante nei due decenni finali del secolo XX e nei primi anni del nuovo secolo.
In proposito, occorre dapprima fare riferimento al fatto che, a differenza di quella di precedenti epoche storiche, questa globalizzazione ha visto, in un modo o in altro, la partecipazione della maggior parte dei paesi del pianeta, inclusi quelli emergenti, nonché quelli, tra i meno sviluppati, da considerarsi in via di sviluppo.

D’altro canto, si consideri che, in presenza della crisi mondiale, iniziata nel 2007 e che personalmente ritengo che nel complesso durerà, più o meno, per un decennio, i paesi meno sviluppati hanno mostrato una certa resistenza del rispettivo processo di sviluppo, e ciò vis-à-vis la forte crisi che ha colpito quelli industrializzati.

In realtà, mentre la parola globalizzazione è un termine recente e correntemente utilizzato, il concetto ed i fatti che hanno riguardato quella contemporanea possono essere ritenuti nuovi e vecchi al contempo. Tuttavia, la spiegazione dei vari processi di globalizzazione è stata ben diversa da teoria a teoria; ciò che, naturalmente, vale per ognuno dei suoi molteplici aspetti.

In effetti, la globalizzazione riguardata come libertà incondizionata nei movimenti internazionali di prodotti, tecnologie, lavoro, capitali (reali e finanziari) non è fenomeno nuovo. Peraltro, gli storici economici non concordano su quanto indietro nel tempo si debba andare perché si possa parlare di globalizzazione. Alcuni di loro sostengono che essa cominciò nel periodo della cosiddetta via della seta e della pace mongolica nel secolo XIII. Altri pensano che l’economia globale è cominciata con la scoperta del Nuovo Mondo in America e che l’espansione del commercio internazionale lungo le nuove rotte oceaniche prevalse negli ultimi anni del secolo XV. Altri ancora ne pongono l’inizio al punto di svolta nel secolo XIX, in particolare nei processi delle relazioni economiche fra Stati dopo la fine delle guerre napoleoniche, nella rivoluzione industriale via via affermatasi in tanti paesi, nella sostanziale riduzione nei costi di trasporto, così come nelle varie politiche economiche favorevoli al libero commercio.

E’ vero che nei secoli la libertà economica internazionale è stata oscillante, anche a tassi differenti da periodo in periodo, ma è anche vero che, in particolare quanto ai movimenti internazionali nei capitali e nelle tecnologie, la globalizzazione è stata una forza effettivamente trainante nella quarta parte del secolo XX. In effetti, gli avanzamenti nella diffusione delle cosiddette Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (le ben note ICT, Information and Communication Technologies), nella liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitali, nella rapida evoluzione sia nei flussi commerciali globali che nella localizzazione delle produzioni, hanno portato ad un’accelerazione della globalizzazione nell’ultima parte del 1900.

Allora, molto più di prima, fondi finanziari disponibili hanno esplorato vie nuove d’impiego, in particolare utilizzando modelli rigorosi del tipo rischio/rendimento, il che si è anche riflesso in un più dinamico mercato delle valute (cioè, quanto ai rapporti tra la “nostra” e le “altre” monete).

Da un lato, diversi economisti e gestori di fondi - di orientamento “destrorso” - hanno sostenuto che la maggiore integrazione internazionale di ciascun mercato ha offerto nuove e maggiori potenzialità per un estendersi dello sviluppo economico in più direzioni ed una più rapida “convergenza” tra paesi poveri e ricchi. Così la libera circolazione dei beni e servizi ha portato i diversi paesi a specializzare la produzione in settori nei quali avevano vantaggi comparati, beneficiando della disciplina derivante dalla maggiore concorrenza esterna. Nella stessa direzione, la libera circolazione dei fattori della produzione ha portato a trasferimenti di tecnologie, a diversificazione dei rischi a livello globale, e ad una più efficiente allocazione delle risorse finanziarie. Ciò ha contribuito alla riduzione nel cosiddetto costo-opportunità del finanziamento degli investimenti produttivi nei paesi in via di sviluppo.

Dall’altro lato, da parte degli studiosi di orientamento classico-keynesiano non si sono condivise dall’inizio quelle posizioni, insistendo essi sul punto che, negli stessi vent’anni prima della crisi finanziaria e socio-economica attuale, il ruolo dominante nel contesto internazionale è stato esercitato da una globalizzazione sfrenata. Si è quindi trattato di un periodo in cui, per così dire, il fuoco covava sotto la cenere; e ciò ha coinvolto sia gli aspetti del commercio, dunque dei mercati, e della produzione, sia quelli degli spostamenti dei fattori produttivi e dunque dei trasferimenti delle tecnologie, dei movimenti del capitale finanziario, delle migrazioni del lavoro.

Il verificarsi della successiva crisi degli anni 2007-09 ed il suo protrarsi in varie manifestazioni in quelli successivi hanno reso palesi le disfunzioni conseguenti agli eccessi. In concreto, quanto ai cinque aspetti sempre presenti nel dispiegarsi dei fatti economici, vale a dire:

  1. gli aspetti del commercio;
  2. gli aspetti della produzione e delle tecnologie;
  3. gli aspetti della finanza;
  4. gli aspetti del lavoro;
  5. gli aspetti del consumo e dei “modi di vivere”, i rispettivi andamenti, in condizioni di una globalizzazione sfrenata dominante, sono stati tutti toccati dalla rilevante carenza di regole e disciplina. Mentre si dovrebbe poter dire separatamente e criticamente per ognuno di questi punti, in questa sede si farà specifico riferimento al solo caso del lavoro.

 

Le migrazioni del lavoro

Quanto allaglobalizzazione nelle migrazioni del lavoro, cioè sostanzialmente al modo di essere oggi delle migrazioni di persone, da un lato, va detto che si è stati in presenza di una forma massiccia di spostamenti di lavoratori da un paese all’altro, da un continente all’altro, così come già accaduto in altre epoche storiche.
Dall’altro lato, però, sono da registrare due novità. In primo luogo, si è trattato anche di spostamenti non definitivi, che cioè riguardano persone che si muovono da un luogo all’altro in cerca di un lavoro, ma lo fanno nell’intento che tale situazione durerà alcuni anni, magari molti anni, ma non sarà definitivo. In secondo luogo, lo spostamento, almeno all’inizio, ha riguardato persone singole che magari hanno lasciato le famiglie nel paese d’origine, inviando ad esse tramite periodiche rimesse somme anche cospicue per il sostentamento di chi resta in loco.

Ancora, in tema diglobalizzazione nelle migrazioni del lavoro, trattandosi di tema particolarmente sensibile per le sue implicazioni sul piano sociale e umano, si consideri che, ai nostri giorni, sono state presenti migrazioni di massa concernenti persone che si sono mosse rapidamente, ma a cicli, da un paese all’altro, perfino da un Continente all’altro. Ciò in particolare è accaduto tra paesi poveri e paesi ricchi, specialmente in Europa, ed anche, come noto, in Italia, quanto soprattutto a persone provenienti dall’Africa, sia dal Nord arabo sia dall’entroterra dell’Africa nera; anche se, si noti, non è stato così per la prima volta nella storia umana.

In effetti, ciò si è avuto sin dalle migrazioni nei tempi antichi, come quelle nella Bibbia, da Abramo, mossosi individualmente, a Mosè mossosi con l’intero suo popolo per ritornare dall’Egitto ad Israele, per passare a quelle degli “ebrei erranti”, allorché a seguito della rivolta ebraica si ebbe la distruzione del Tempio di Gerusalemme e la completa romanizzazione della città e dell’intero territorio nel 70 d.C. Saltando i secoli e addirittura i millenni, non si può comunque fare a meno di citare le migrazioni tra la fine del secolo XIX e l’inizio del secolo XX, sino alla Prima Guerra Mondiale ed a poco dopo, che hanno comportato lo spostamento dall’Europa alle Americhe di milioni di persone, per poi fermarsi ben prima della Seconda Guerra Mondiale. Più recentemente, come noto, le migrazioni sono riprese, ma ora da parte di consistenti masse di persone verso l’Europa in provenienza dall’Africa, cui si sono poi aggiunte, e si sono via via estese, quelle provenienti dall’Asia e dall’America Latina.

Riflettendo su differenze e somiglianze, su discontinuità e continuità, vanno considerati i diversi modi e tempi in cui l’economia mondiale si è mossa, e non sempre per il meglio, dai vari processi precedenti di cooperazione ed integrazione economica internazionale al successivo diffondersi mondiale dell’internazionalizzazione degli affari, dei commerci, della produzione, dei movimenti di capitale finanziario, insomma di tutte quelle posizioni ed esperienze che vengono ricomprese e raggruppate nel fenomeno cruciale della globalizzazione e che hanno anche influito sui recenti, consistenti, andamenti delle migrazioni del lavoro.
In effetti, tutto ciò avveniva in presenza di una sorta di euforia ed illusioni collettive quanto alle quali, però, solo pochissimi economisti hanno allora ritenuto che “il fuoco covasse sotto la cenere”. Oggi, in quanto quell’euforia e quelle illusioni hanno portato – com’è di fatto accaduto – ad una nuova inversione di tendenza, anzi ad una vera e propria crisi socio-economica nella seconda parte del decennio, non vi possono essere dubbi che gli stessi flussi migratori verranno a risentirne progressivamente nel tempo.

 

Il mercato del lavoro e la distribuzione del reddito

Come per tutte le grandezze economiche e per tutti i mercati, anche per il mercato del lavoro e per l’occupazione, occorrerà ragionare in termini di confronto tra offerta e domanda di lavoro.

Anche limitandosi a dire dei mercati nei paesi d’immigrazione, naturalmente le teorie economiche nonché le rivenienti politiche hanno visto l’usuale contrapposizione fra posizioni neoclassico-monetariste e quelle classico-keynesiane. Così, a parte le prime, laddove sono strettamente perseguiti i canoni del paradigma massimizzante su basi marginalistiche, in ambito classico-keynesiano è invece prevalsa l’impostazione secondo cui il mercato del lavoro è proprio quello per il quale ha specificamente senso la visione etica dell’economia. Ciò in particolare quanto alla teoria della distribuzione del reddito soprattutto quanto alla determinazione del salario (o prezzo del lavoro) in rapporto al profitto. In proposito, invece del principio della produttività marginale del lavoro rispetto a quella del capitale (com’è negli schemi neoclassico-monetaristi), in ambito classico-keynesiano si è mantenuta la tesi che la determinazione del salario - reale o monetario, a seconda dei casi - va sempre ottenuta all’esterno dell’economia, mentre il profitto si ottiene in conseguenza. Ciò, in base a considerazioni in cui giocano un ruolo, al di là del potere contrattuale rispettivo di lavoratori e imprese, le diverse sensibilità di tipo meta-economico, ed in particolare di ordine etico.

In particolare, com’è nella dottrina sociale cattolica, si consideri che il lavoro non è, népuò essere, considerato solo quale un bene economico come tutti gli altri. Allora, quanto all’offerta – come affermato con forza dal Papa Giovanni Paolo II°, in particolare, nell’Enciclica Laborem exercens (1981) – il lavoro è, sì, un bene economico, ma è specificamente molto di più, essendo caratteristica fondante della natura umana, in quanto l’essere umano è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio creatore. D’altro canto, quanto alla domanda, il comportamento delle imprese e degli altri agenti che impiegano lavoro sarà sempre informato, oltre che a criteri di economicità, anche ad aspetti di responsabilità, umanità, e solidarietà.

 

Politiche per l’immigrazione e per il lavoro

Certo, quanto alle politiche per l’immigrazione e per il lavoro, stanti le attuali condizioni della globalizzazione, si è in presenza di questioni correlate tra le politiche di ordine interno ad ogni paese e quelle che risentono degli effetti di ciò che prevale negli altri paesi similari. Tuttavia, ancora gli aspetti nazionali sono da considerarsi prevalenti; e ciò perfino in Europa, dove pure “premono” forze e posizioni per una visione sopra-nazionale, cioè europea, dell’intero problema.

Prendendo il caso dell’Italia, si consideri intanto che la nostra economia attraversa da almeno due decenni un certo declino; così che, a mio avviso, gli aspetti negativi relativi alla crisi ed al ciclo attuali vanno aggiunti a quelli sottostanti di medio-lungo periodo.

In particolare, stanti le sue condizioni di economia duale, cioè quanto alla divisione fra il Nord-Centro industrializzato e le regioni Meridionali in via di industrializzazione (incluse, ovviamente, le due Isole maggiori), è chiaro che le sue due macroaree mostrino tuttora differenti processi dinamici. Pertanto, le stesse misure di politica economica anticiclicapossono ben essere in conflitto con quelle concernenti il trend di medio-lungo periodo, cioè con misure e riforme di ordine strutturale. Allora, non si riescono proprio a comprendere sciovinismi e chiusure che pure albergano presso vari settori del nostro paese.

Comunque, le misure intraprese al fine di contrastare gli aspetti sia di crisi sia di ciclo – quali quelle concernenti i cosiddetti ammortizzatori sociali e quelle relative ai sussidi finanziari o fiscalialle imprese in difficoltà – vanno specificamente coordinate con le misure fiscali e finanziarie intese a promuovere la crescita o lo sviluppo, sostenendo investimenti ed occupazione vuoi nel Meridione vuoi in particolari settori ed imprese quanto alle scelte tecnologiche nell’intero paese.

In queste condizioni segue che una politica per l’immigrazione – nel che, a differenza che per un lungo passato allorché l’Italia è stata un paese di forte emigrazione, si sostanzia oggi la politica per le migrazioni del lavoro – non potrà non vedere il contemperamento di due istanze parimenti rilevanti. Ciò, al fine di evitare in ogni modo che si cumulino conflitti che possono anche esplodere in guerre fra poveri. A mio avviso, la soluzione non può, allora, non essere vista alla luce delle premesse sopra fatte quanto ai condizionamenti che sempre vanno riconosciuti ad aspetti esterni all’economia, ed in particolare a quelli rivenienti dai prevalenti valori e norme morali (o attinenti all’etica) che largamente si sottoscrivono nel paese da parte della gente, in quanto rivenienti da una morale sociale aperta e cooperativa.pdf

Infine (si fa per dire) si noti che politiche speciali vanno perseguite con riferimento a due aspetti rilevanti della realtà contemporanea in tema di immigrati: da un lato, quello dell’immigrazione clandestina; dall’altro, quello dei rifugiati. E’ chiaro che un’attenzione specifica ed argomentata va rivolta ad entrambi gli aspetti; ma – per assoluta mancanza di spazio – non è possibile occuparsene in questa sede. Si è inteso però farvi cenno ritenendo di avere indicato in queste note più che altro un metodo di analisi dal punto di vista di un economista eticamente motivato.

 

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