Agli inizi degli anni Ottanta alcuni autorevoli politologi hanno proposto una let-tura nuova – e in un certo senso dissacrante ‒ del concetto di nazione. Ernest Gellner, Benedict Anderson ed Eric Hobsbawm hanno dato vita, con i loro differenti contributi, alla cosiddetta interpretazione “culturalista” del-l’idea di nazione e delle forme di nazionalismo affermatesi in Europa nel corso dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento1.
Superando i dettami della scuola “etni-cista”, rappresentata soprattutto da Anthony D. Smith, e di quella “materialista” di Miro-slav Hroch ‒ secondo le quali la nazione costituirebbe la forma strutturata di realtà etniche, sociali ed economiche già presenti in un determinato territorio e poi formalizzate come appunto Stati unitari – la nuova con-cezione vede l’idea di nazione come un puro prodotto culturale; vale a dire il frutto di una costruzione artificiosa, funzionale a precise esigenze politiche ed economiche.
La lettura critica del fenomeno che questi autori propongono è la conseguenza di un’esperienza storica drammatica: l’impatto delle ideologie e della propaganda nazionaliste sulle scelte politiche dei Paesi europei; e la responsabilità che le concezioni nazionaliste, efficacemente veicolate attra-verso i mezzi d’informazione, hanno avuto nell’avvento della prima e della seconda guerra mondiale. Non sfugge a questi autori la concomitanza del fenomeno nazionalista con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione che caratterizza la società europea già nella seconda metà dell’Ottocento, quando le gran-di agenzie d’informazione (Havas, Wolff, Reuters) hanno ormai una diffusione capillare, le testate giornalistiche hanno consolidato il proprio pubblico, le tecnologie di stampa consentono alte tirature, e quando la forma-zione dei grandi centri urbani, con infra-strutture come le prime reti elettriche, consente una maggiore diffusione delle infor-mazioni e quindi lo sviluppo di una società e di un pubblico “di massa”. Più ancora, la scuola culturalista non può non considerare la stretta correlazione che esiste fra l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione (il cinema e la radio) e lo strutturarsi dei regimi dittatoriali in Russia, in Italia e in Germania. L’efficacia propagandistica dei mezzi di comunicazione si innesta, insomma, su un terreno già predi-sposto a costruire l’idea di nazione come un “prodotto culturale”, con i suoi temi ricor-renti, la sua estetica, i suoi elementi retorici.
La questione va trattata considerando l’efficacia delle tecniche comunicative o dei rituali che vengono messi in atto, e una delle soluzioni retoriche più potenti che appar-tengono al repertorio del discorso nazionale è il suo continuo accreditare la nazione come un fenomeno ‘naturale’, come un dato di realtà strutturatosi attraverso fenomeni fisico-biolo-gici e nel corso di una lunghissima storia2.
Del resto la cultura letteraria e lo stesso sistema d’istruzione scolastica e universitaria hanno funzionato come una leva potente per costruire prima l’idea di nazione e poi l’ideologia nazionalista. La rappresentazione di un popolo, delle sue radici mitologiche e delle sue aspirazioni, del territorio in cui vive con le caratteristiche e i confini suoi “natu-rali”, era congeniale a un certo romanticismo germanico, e a quel decadentismo estetizzante italiano che ha come grande protagonista Gabriele D’Annunzio, il poeta-combattente, guida carismatica dei nazionalisti e della politica interventista. Lo stesso insegnamento della geografia viene inserito nelle scuole e nelle università prussiane a supporto di una strategia politica che punta a descrivere le regioni del centro Europa come destinate, per vocazione naturale, ad essere unificate nella futura Germania. Significativa, in questa prospettiva, la disposizione secondo la quale le discipline della storia e della geografia dovessero essere insegnate in parallelo e da uno stesso docente (nel rispetto forse del principio già espresso da Kant secondo il quale solo l’abbinamento delle due materie soddisferebbe le basilari categorie della conoscenza, quella spaziale con la geografia e quella temporale con la storia).
Non è un caso che proprio in Germania prenderà forma la disciplina della “geo-politica” che, così definita dallo svedese Ru-dolph Kjellen creatore di questo neologismo, era in sostanza già presente nell’opera di Friedrich Ratzel, il geografo che in modo particolare ha teorizzato il rapporto fra dina-miche antropiche e assetti territoriali.
Proprio Ratzel, proponendo che le pianure fossero degli spazi naturali di espansione dei popoli più evoluti incitava all’occupazione di quelle città che avevano una cultura tedesca. È su questo che salte-ranno a piè pari i nazisti di Hitler per poter dar libero sfogo alle loro intenzioni di invasione e sottomissione in un delirio di superiorità e di onnipotenza3.
La geopolitica si configura in questa prospettiva come uno strumento ideologico, volto a raffigurare una realtà nazionale organica, formata da un popolo omogeneo per etnia e per cultura, legittimato ad espandersi sul territorio sino a quelli che appaiono come i suoi confini naturali. Nella Germania di Hitler sarà Karl Haushofer, un geografo di for-mazione militare svincolato dalle metodiche del mondo accademico, a sviluppare la vi-sione geopolitica del regime intorno al concet-to dello “spazio vitale”. Ma tutto questo sarà possibile solo mediante una rappresentazione convincente e suggestiva della nazione e del suo destino, una grande costruzione simbolica che possa rendere il concetto visibile e corposo. Gli studi di George Mosse eviden-ziano molto bene come quel regime attingerà a temi religiosi e mistici per cementare la nuova idea di nazione, per la cui celebrazione sarà fondamentale, ancora una volta, l’im-piego dei mezzi di comunicazione di massa, chiamati a dare visibilità e intensità narrativa alla costruzione della nuova identità. In modo non diverso da quanto avviene nella Germania nazista, anche nell’Italia fascista e nell’Unio-ne Sovietica di Stalin le manifestazioni e le cerimonie pubbliche, le descrizioni circa la storia e il destino del popolo, l’appello alla riconquista e alla difesa dei sacri confini territoriali sono gli elementi chiave per l’affermazione di un’idea di nazione; un’idea sistematicamente promossa dai mezzi d’infor-mazione, in particolare il cinema e la radio che proprio negli anni Venti e Trenta vanno raffinando il proprio linguaggio e il proprio rapporto con il pubblico (la costruzione di Cinecittà è il grande tributo che il governo fascista riconosce al cinema, come strumento principe nella formazione di una cultura popolare).
Il sodalizio profondo tra i mezzi di comunicazione e le politiche nazionali con-tinuerà ad esistere anche dopo la fine della guerra, allorquando le esigenze della ricostru-zione all’interno dei Paesi coinvolti nel conflitto, e la necessità di stabilizzare la nuo-va geografia politica europea, portano i governi dei vari Paesi ad investire nel poten-ziamento delle reti radiotelevisive pubbliche, e nello sviluppo di una programmazione di contenuto e d’interesse prettamente nazionali. Il rapporto tra mezzi d’informazione e governi nazionali si fonda, in questa fase, non più sulle forzature propagandistiche ma sul re-cupero di elementi della nazionalità quali le esperienze storiche di un popolo, le sue radici culturali profonde, i principi etici e giuridici ispiratori del Paese, lo stesso sistema di governo come espressione di una realtà peculiare.
Questi assetti subiranno un’evoluzione negli anni Ottanta e Novanta per la conco-mitanza di due fattori, relativi rispettivamente al sistema dei media e al contesto politico internazionale. Negli anni Ottanta, l’apertura del mercato radiotelevisivo con l’avvento dei network privati, e con la comparsa nel sistema della comunicazione di grandi player inter-nazionali che entrano in gioco ponendosi in concorrenza con le aziende radiotelevisive nazionali, disegna una “geografia dei media” che non corrisponde più alla geografia politica definita dalle tradizionali aree di copertura delle reti nazionali. Negli anni Novanta, la fine della guerra fredda, con il progressivo dissolvimento dell’ex blocco sovietico e il processo di costruzione dell’Unione Europea con una sempre maggiore integrazione sociale e culturale dei suoi cittadini, produce anch’esso l’effetto di ridurre la portata dei sistemi radiotelevisivi nazionali. Lo scenario prospettato da Michael Hardt e Antonio Negri4, che prevedono un rapido declino dei singoli Stati-nazione a vantaggio di un nuovo ordine globale governato da organismi sovranazionali come la Nato, il G8, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, prospetta un’ulteriore crisi dei media nazio-nali, chiamati a ridefinire la propria missione e il proprio ruolo strategico nei Paesi di appartenenza. Nel descrivere le aree di coper-tura dei nuovi gruppi editoriali, e nell’indaga-re il rapporto che questi stabiliscono con le realtà socio-economiche dei diversi territori, la geografia dei media offre dunque, a partire dagli anni Ottanta, una mappa assai più articolata di quanto potesse essere nel dopoguerra e fino a tutti gli anni Settanta, definendo nuove aree d’influenza che possono risultare in certi casi molto più piccole, in altri casi molto più grandi, rispetto a quelle demarcate dalle tradizionali reti nazionali. L’avvento dei network televisivi privati porta in evidenza un fenomeno socio-culturale rimasto a lungo sopito, quello delle comunità locali che tornano ad avere una loro visibilità e una loro connotazione anche in termini di identità. La proliferazione delle reti radio-televisive regionali e locali verificatasi in particolare in Italia – dove già negli anni ’90 si registra la presenza di circa 4 mila emittenti radiofoniche e di oltre 700 emittenti televisive locali (una concentrazione che non ha eguali nel panorama mondiale) – è lo specchio di una storia e di una cultura che proprio nel nostro Paese, forse più che in qualsiasi altro, hanno fatto perno sin dall’epoca medievale sui Comuni e sulle piccole realtà municipali, e che tornano attraverso i mezzi di comuni-cazione come realtà socio-territoriali alter-native rispetto a quella dello Stato unitario.
Nello stesso tempo, i grandi gruppi multinazionali – vedi ad esempio Time Warner con la rete televisiva CNN e una vasta costellazione di imprese editoriali in America e negli altri continenti; Walt Disney con il network televisivo ABC e una vasta offerta di network e canali tematici accessibili su piattaforma satellitare; News Corporation di Rupert Murdoch, proprietario di un numero esorbitante di testate giornalistiche in tutto il mondo e presente su scala globale con le reti televisive di Sky e Fox ‒ conquistano spazi sempre maggiori guadagnando in ogni Paese quote di utenti che vengono così a perdere la loro connotazione di spettatori/cittadini per assumere quella più generica di spetta-tori/consumatori. La cosa ha una rilevanza anche in termini politici, se è vero che i grandi gruppi dell’informazione sono in netta prevalenze concentrati nel mondo occidentale (Stati Uniti, Australia, Europa) e strettamente collegati ad interessi specifici, come è apparso evidente, fra l’altro, nella seconda guerra del Golfo con il ruolo svolto dai network di Murdoch a palese sostegno del Governo Bush. Questo senza voler considerare l’influe-nza che la concentrazione di imprese di comunicazione in determinati luoghi geo-grafici ha sulla percezione d’importanza dei luoghi stessi5.
La maggiore offerta di informazione e intrattenimento legata all’avvento dei grandi gruppi globali – comunque veicolo di ingenti interessi economici e politici ‒ ha dunque come contropartita l’indebolimento delle identità nazionali, e comporta nuove forme di conflittualità, come ad esempio quella descritta da Benedict Anderson6 quando analizza l’influenza che l’informazione globale ha sui grandi fenomeni migratori, spinti proprio dalla promozione dei modelli di consumo occidentali; e quando mette queste dinamiche migratorie in connessione con i movimenti neo-nazionalisti estremisti, com-parsi ad esempio in Francia (Front National), in Gran Bretagna (National Front) o in Germania (skinhead) proprio a difesa di una certa integrità nazionale. Scenari conflittuali sono anche quelli tracciati da Samuel P. Huntington, quando descrive, quale effetto della globalizzazione, la strutturazione di grandi blocchi culturali o “di civiltà”, caratte-rizzati soprattutto dall’appartenenza religiosa, così che il consolidamento delle grandi potenze (Stati Uniti, Europa, Cina, Giappone, Russia, India e Stati islamici emergenti) sa-rebbe la forma ancora provvisoria di un ordine futuro basato su blocchi religiosi (confessioni cristiane, buddhismo, induismo, islamismo):
Via via che acquisiscono sempre mag-giore potere e sicurezza di sé, le società non occidentali tendono a difendere sempre più strenuamente i propri valori culturali e rifiutare quelli ‘imposti’ dall’Occidente. (…) In questo nuovo mondo la politica a livello locale è basata sul concetto di etnia, quella a livello globale sul concetto di civiltà. La rivalità tra superpotenze è stata soppiantata dallo scontro di civiltà7.
Ancora una volta è il sistema dei media a segnalare queste dinamiche, se è vero che il consorzio televisivo paneuropeo Euronews, costituito dalle televisioni nazionali dei Paesi dell’Unione e presente con una program-mazione in oltre dieci lingue, già agli inizi degli anni Novanta era stato creato non soltanto per favorire l’integrazione europea ma anche per contrastare alcune strategie di penetrazione politica in Europa da parte del mondo islamico e dell’industria giapponese. La grande diffusione delle antenne para-boliche fra la popolazione immigrata dal Maghreb in Francia, così come la presenza di imprese editoriali arabe in Inghilterra fanno temere il diffondersi di una propaganda integralista islamica fuori controllo, cosi come d’altro canto il divieto di installazione di antenne paraboliche individuali in Paesi come l’Arabia Saudita e l’Iran è volto proprio a preservare le popolazioni dai rischi di un’influenza culturale occidentale8. Un ulte-riore livello d’azione del sistema dei media è quello rappresentato dalle reti telematiche, e dalla formazione di comunità virtuali, che in taluni casi si caratterizzano per la forte valen-za identitaria, fungendo anche da alimento per istanze localistiche e separatiste, e che in altri casi cercano di stabilire connessioni transna-zionali favorendo la costituzione, ad esempio, di movimenti antieuropeisti.
In questo scenario della comunicazione ‒ che vede la destrutturazione di un sistema tradizionale e l’avvento di un nuovo assetto polivalente, non del tutto prevedibile nei suoi sviluppi ‒ il modello rappresentato dalla stretta connessione fra “Paese” e “apparato di comunicazione nazionale” sembrerebbe ormai inattuale, anche perché il concetto stesso di nazione stenta a trovare nuove efficaci rappresentazioni. In un sistema dei media sempre più globalizzato, le politiche di valo-rizzazione delle identità nazionali appaiono effettivamente sacrificate (in parte inibite anche dall’esigenza di realizzare prodotti culturali “politicamente corretti” per non alimentare conflitti; e dalla volontà di evitare derive di tipo ideologico proprio al cospetto di un’esperienza storica che ha visto le tragiche conseguenze delle esaltazioni naziona-listiche). Il tema della identità, che pure è strettamente connesso con quello della nazionalità, viene sempre più spesso declinato su entità sociali e territoriali più piccole (sovente mosse da una volontà di differen-ziazione polemica rispetto agli Stati centra-lizzati) o all’opposto su macro-sistemi alternativi gli uni rispetto agli altri (come nel caso prospettato da Huntington di uno scontro di civiltà su scala planetaria). Non è improbabile che le istanze localistiche possano trovare voce nella costituzione di specifici apparati di comunicazione; e del resto la suggestione secondo la quale all’Europa delle nazioni dovrebbe subentrare un’Europa dei popoli potrebbe prendere corpo solo se spinta da una geografia dei media ad essa funzionale. Allo stesso tempo, è ipo-tizzabile una più ampia convergenza degli apparati nazionali su sistemi sovranazionali, più funzionali ai nuovi assetti socio-politici. Tuttavia, decretare la fine del sodalizio tra media e Stati nazionali potrebbe essere prematuro, e comunque non auspicabile. Proprio il rischio di nuove conflittualità ali-mentate dall’attuale sistema della comunica-zione globale potrebbe restituire un valore strategico alle aziende nazionali, chiamate a fungere da strutture di mediazione e di compensazione all’interno di dinamiche globali che, anziché stemperare, minacciano di alimentare i conflitti. Con quali rinno-vamenti strutturali questo possa avvenire e con quali contenuti non è facile dire. Se è vero, però, che l’idea di nazione necessita di un sistema di rappresentazione che la renda visibile e condivisibile (soprattutto in un contesto di conflittualità che si manifesta a diversi livelli), allora si deve immaginare che un ruolo importante avranno negli anni prossimi le grandi narrazioni, le vicende salienti della propria storia e dei propri valori che ogni Paese saprà selezionare e offrire al pubblico. Se un ruolo potranno ancora avere i sistemi televisivi nazionali, ormai in crisi profonda perché incapaci di recuperare una funzione politicamente strategica, sarà proprio quello di farsi promotori di un progetto culturale coraggioso, che sappia mettere da parte i vantaggi economici e organizzativi di una programmazione basata sulla ripetizione pedissequa dei format televisivi internazionali, e che torni ad una programmazione originale, basata sulla ricerca di quanto all’interno di ogni realtà nazionale c’è di autentico e di originale, e che su questo sappia ricostruire, al posto del fanatismo propagandistico dei regimi anteguerra, una conoscenza più costruttiva e un sano senso di appartenenza.
1.I principali testi di riferimento per questa scuola sono stati pubblicati tutti nel 1983, segnatamente: Ernest Gellner, Nazioni e nazionalismo; Benedict Anderson, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi; Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger, L’invenzione della tradizione.
2. A. M. Banti, Le questioni dell’età contemporanea, Editori Laterza, Roma-Bari, 2010, p.53.
3. G. Bettoni, I. Tamponi, Geopolitica e Comuni-cazione, Franco Angeli, Milano 2012, p.28.
4. Autori del saggio Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, pubblicato nel 2000, che evidenzia il peso crescente che gli apparati sovranazionali hanno sugli assetti economico-politici del Pianeta, e che descrive la sostanziale ripartizione dei poteri tra orga-nismi militari, organismi economici e organizzazioni non governative interpreti queste ultime delle istanze democratiche a livello globale.
5. E’ stato ad esempio osservato come negli Stati Uniti l’interesse giornalistico, o il richiamo o il prestigio esercitati da alcune città non riflettano la loro reale importanza, ma dipendano dalla concentrazione delle imprese editoriali e di comunicazione. A questo proposito Roberto Mainardi rileva che: “Un numero limitato di località - prime fra tutte Washington, New York, Los Angeles - fa notizia in modo del tutto sproporzionato alla loro pur grandissima importanza politica, finanziaria, sociale. La rete acefala dovrebbe cancellare ogni gerarchia tra località diverse, fra centri e periferie. Nella realtà, la copertura giornalistica delle diverse località è strettamente dipendente dalla presenza nelle località stesse di apparati di comunicazione”. R. Mainardi, Geografia delle comunicazioni, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1996, p.134.
6. Si veda in particolare il saggio Il nuovo disordine mondiale, pubblicato su “New Left Review”, n. 193, maggio/giugno 1992, pp. 3-13.
7. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2006, in Alberto Maria Banti, Le questioni dell’età contemporanea, Editori Laterza, Roma-Bari 2010, p.313.
8. Su questi aspetti una ricognizione interessante è quella offerta dal saggio di Kevin Robins e Antonia Torchi Geografia dei media. Globalismo, localizza-zione e identità culturale, Baskerville, Bologna, 1993.