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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

           Una tentazione per tutti coloro che sono invitati ad esprimersi su questo tema (Lo statopdf sociale in periodo di crisi economica) è di partire dal loro particolare punto di vista e di fondarsi solo su  di esso. Chi è sociologo sulla sociologia, chi è economista sull’economia e via dicendo. Ed inoltre, in modo magari inconscio, è anche portato a pensare che il suo campo è quello che coglie meglio e più in profondità il problema e quindi è il più capace di proporre soluzioni

            Chi scrive questo Editoriale introduttivo al quaderno di Oikonomia  lavora nel campo dell’etica ed è cosciente di essere anch’egli soggetto ad una particolare deformazione professionale. Inoltre, appartenendo ad una scuola che ritiene compito dell’etica occuparsi dei fini ultimi dell’agire umano, è ancor più portato a ‘fare della filosofia’, a volare alto, a quindi a rischiare di non cogliere lo specifico del problema nella sua consistenza storica. Ne consegue – se egli cedesse a questa deviazione professionale – che il risultato del suo discorso sarebbe del tutto inutile, cioè senza possibili conseguenze pratiche a breve o medio termine. Da qui nasce un grande rispetto per i punti di vista degli altri Autori del quaderno: essi colgono aspetti strutturali della crisi e delle loro conseguenze. Il discorso etico è ulteriore al loro.

            La globalizzazione è l’aspetto nuovo dell’attuale crisi economica: tocca tutte le economie oramai strettamente intrecciate tra di loro e non è affrontabile né dal singolo stato né da un gruppo di stati (ad esempio da quelli dell’UE e neppure del Patto Atlantico, o del G8). Ne segue che gli attori potenziali (governi, imprese multinazionali, unioni di imprese, sindacati, rappresentati delle ONG…) sono così molteplici e differenziati da rendere estremamente difficile trovare un piattaforma comune di soluzione, e spesso addirittura di interpretazione fondamentale del fenomeno.

            Quello che io vorrei sottolineare è che, data la dimensione globale del fenomeno, le visioni del mondo, della società, del ruolo degli stati e delle imprese, entrano in gioco inevitabilmente. Infatti i tecnicismi economici, anche quello finanziario e valutario, non sono più sufficienti: non si tratta infatti di far funzionare meglio un sistema sociale che fondamentalmente è riconosciuto come buono da una grande maggioranza di operatori. E che, per essere rozzamente espliciti, è quello rappresentato dagli USA.

            Leggendo l’articolo di Lorenzo Gallo si noteranno, tra gli altri, i dati tragici sui 2,3 milioni di carcerati negli USA (su poco più di 300 milioni di abitanti) da assommare ai 5 milioni che sono sotto controllo giudiziario. Un tale sistema sociale e politico non può essere ritenuto fondamentalmente buono e sano, anche se è il più performante sul piano di produzione del PIL. Il Pil individuale statunitense è stato vicino a $50.000 nel 2012.

            Anche l’HDI (Human Development Index) assegna agli USA per lo stesso anno il 3° posto mondiale, ma indici indipendenti come l’Happy Planet Index (inglese) ridimensionano fortemente tale posizione.

            Mi riferisco a questo esempio solo per affermare che, a differenza dei decenni dopo la seconda guerra mondiale, non abbiamo più un modello storico concreto (gli USA, appunto) cui orientarci. Anzi proprio negli USA è iniziata (e non casualmente) la crisi mondiale, che ora tutti stanno sopportando. Mentre gli USA, in modo particolare a causa del valore del Dollaro e della propria potenza politica-militare mondiale, ne pagano in forma minore le conseguenze.

            Ma allora quali sono i modelli verso cui orientarsi?
Dobbiamo approfittare di questo stato di liquidità socio-economica per realizzare una maggiore solidarietà intra ed inter-statale: on ci potrà essere pace senza giustizia. Questo da un punto di vista economico significa un progressivo e costante cambiamento nella produzione del reddito e nella sua ulteriore distribuzione. Ciò può avvenire sia attraverso lo stato sociale, nel senso di servizi pubblici molto estesi, come anche attraverso un aumento del reddito individuale ad un numero notevole di persone, tanto da arrivare tendenzialmente ad un salario/reddito sociale minimo.
            Secondo numerosi documenti sui diritti umani economico e sociali questo è il fine da raggiugere.

            Come si fa a raggiungere tale finalità sociale non è compito dell’etica indicarlo, ma è compito e privilegio di molte altre discipline e di molte altre esperienze. E’ quello che gli studi che presentiamo in questo quaderno vogliono proporre ed avanzare. Ci sono articoli sull’ispirazione cristiana di una possibile soluzione (Crosthwaite), articoli sulla definizione precisa di stato sociale (Marzano), articoli sul terzo settore come modello generale anche per il profit (Benevene e Caselli), articoli di descrizione della crisi nel paese ‘pilota’ (Gallo).

            Un posto particolare tiene però l’articolo di C. Colombi che ci presenta la situazione della cooperazione internazionale, parte essenziale dello stabilimento della giustizia globale, nel senso accennato sopra. “La cooperazione in generale e la cooperazione internazionale in particolare non solo non sono parte del superfluo a cui rinunciare in tempo di austerità, piuttosto sono necessarie per resistere alla crisi e gettare le basi di una convivenza meno rischiosa e conflittuale, più capace di affrontare le cause delle grandi questioni globali”.

            L’articolo di Troiani sull’intervento Beveridge nella Gran Bretagna degli anni ’40, e la Pagina Classica relativa, sono una presentazione di un modello estremamente efficace e di alto valore etico che ci proviene dalla storia di un paese vicino a noi.pdf

            La panoramica che presentiamo non è completa ma ci sembra di averne presentato alcuni degli aspetti fondamentali.
Non ultimi, in questo senso, i contributi di Matteo Prodi e la recensione del libro sul Lavoro in Italia presentato recentemente dalla Chiesa cattolica.

 

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