Gli stati, per la loro azione all’interno del sistema internazionale, operano opzioni di fondo, che vengono a costituire la base su cui stabiliscono il complesso delle proprie politiche. Salvo eccezioni, adeguano a tali opzioni basilari la panoplia dei propri comportamenti.
Una di dette opzioni riguarda la scelta di adottare o meno comportamenti di natura cooperativa. Tipici comportamenti cooperativi sono la stipula di accordi e patti. Comportamenti non cooperativi sono la propaganda aggressiva contro altri paesi, l’adozione di decisioni lesive degli interessi di un altro stato 1, e, nei casi più gravi, l’emanazione di sanzioni economiche, la rappresaglia, la guerra.
I comportamenti non cooperativi assumono spesso la caratterizzazione di azioni unilaterali. I comportamenti cooperativi tendono, al contrario, a trasferirsi in azioni di natura bilaterale o multilaterale 2. Se il modello di comportamento cooperativo bilaterale riguarda due attori, ed è di facile attribuzione e configurazione, quello a carattere multilaterale offre varianti degne di commento, anche perché direttamente legato al fenomeno regionalista che qui si intende prendere in esame 3.
Il multilateralismo
Il modello di multilateralismo perfetto è quello che Woodrow Wilson porta al tavolo della pace di Versailles, come pilastro del riassetto strutturale della comunità internazionale dopo la carneficina del primo conflitto mondiale. Il testo documenta l’esplicito rigetto di ogni particolarismo di potenza e di ogni bilateralismo antagonista.Il modello wilsoniano viene a proporsi come antitesi alle teorie e alle tecniche attraverso cui si era espresso il sistema internazionale dalla creazione della Germania guglielmina sino all’insorgenza bellica. Il Covenant, patto istitutivo della Società delle Nazioni, Sdn, non funzionerà nei termini che il suo ideatore ha previsto, per molte ragioni. A cominciare dall’assenza del giocatore di maggiore rilievo, gli Stati Uniti d’America, dalla realizzazione del modello di rapporti internazionali ivi prefigurato. Come noto, il Senato degli Stati Uniti rifiuta la ratifica del testo proposto e siglato dal presidente Wilson.
Non si ha, pertanto, modo di esprimere un completo e appropriato giudizio storico sull’efficacia del modello multilaterale wilsoniano nella regolamentazione delle crisi e nella loro gestione. La traduzione in termini di sperimentazione storica del modello wilsoniano di organizzazione multilaterale, la Sdn, è monca fin dal nascere. Sarebbe scorretto addebitarne i limiti, anzi il sostanziale fallimento, a un multilateralismo che in realtà non ha mai visto, nel suo ambito, la luce.
Il riferimento al modello si rende invece utile quando si pone mente a come il multilateralismo abbia trovato occasione per svilupparsi nel corso dell’esperienza storica del secondo dopoguerra, attraverso: la non discriminazione tra membri del sistema multilaterale, l’indivisibilità dei contenuti dell’accordo che li lega, la reciprocità diffusa di diritti e obblighi ivi previsti. Concezione e pratica del multilateralismo non possono essere contenute solo nell’apporto di segno quantitativo conferito dal sostantivo (e dall’aggettivo "multilaterale"): multilateralismo e multilaterale non riguardano soltanto azioni e comportamenti coordinati di stati o altri soggetti di relazioni internazionali che coinvolgano tre o più interlocutori capacitati all’azione internazionale. Se è certamente vero che questi possono optare tra comportamenti unilaterali, bilaterali e multilaterali (contenuto quantitativo del termine multilateralismo, attinente il numero degli attori coinvolti in un certo fatto a rilevanza internazionale), è altrettanto vero che ciò che qui più interessa riguarda le caratteristiche qualitative che il termine multilateralismo è in grado di introiettare.
In quest’ambito può essere definito multilateralismo l’orientamento politico di tre o più stati ad assumere politiche comuni e coordinate su determinate materie, in alternativa a decisioni unilaterali o ad accordi bilaterali. L’accordo multilaterale derivante da tale propensione fissa le modalità attraverso cui, in vista del raggiungimento di fini prefissati, si verifica il coordinamento di azioni comuni rispetto a precise questioni e materie, anche attraverso la creazione di codici culturali e comportamentali, regole, norme, valori e, se del caso, istituzioni formali e/o informali con l’attribuzione a specifici organi comuni di poteri gestionali e/o decisionali per conto dell’accordo multilaterale.
La questione essenziale posta dalla definizione concerne la tipologia del coordinamento che gli stati decidono di adottare nell’azione multilaterale, specialmente là dove il coordinamento sia esercitato da organi previsti dall’accordo multilaterale. Si tratta di una vera e propria delega di poteri che gli stati attuano verso una personalità esterna, benché mitigata dalla consuetudine ad attribuire a tutti i membri dell’accordo multilaterale partecipazione equilibrata ed equa nei processi di assunzione delle decisioni come nella detenzione del potere di darvi concreta esecuzione. La rilevanza della questione coordinamento può essere appropriatamente intesa, là dove si pensi a scenari di crisi in cui gli organi di un accordo multilaterale sono chiamati ad assumere decisioni attinenti la gestione di crisi, la regolazione di conflittualità, le modalità concrete attraverso cui dare esecuzione a decisioni assunte da altri organi multilaterali.
I soggetti costitutivi dell’accordo multilaterale tendono a mantenere a disposizione esclusiva di se medesimi il massimo possibile di poteri, sottraendo al coordinamento multilaterale la sfera delle materie considerate riserva della sovranità statale; e ad attribuire agli organi multilaterali il minimo possibile di poteri, sufficiente per quel tanto di efficienza operativa e di efficacia rispetto agli obiettivi che si sono intesi attribuire al coordinamento multilaterale. Violando, in questo, un altro evidente principio del modello wilsoniano, teso ad attribuire il massimo possibile di poteri agli organi multilaterali del governo mondiale prefigurato nel Covenant. Tre principi chiave continuano comunque a sostenere il concetto di multilateralismo: la non discriminazione, l’indivisibilità, la diffusa reciprocità. Quando uno o tutti questi principi risultano assenti, il fenomeno della collaborazione interstatuale non può essere definito appartenente alla sfera delle collaborazioni multilaterali.
Per non discriminazione s’intende l’obbligo assunto dagli stati a trattare ciascuno dei partners di un accordo, per le materie da questo previste, con modalità non diverse da quelle con cui ogni altro partners viene trattato con riferimento alle stesse materie. Nel commercio internazionale l’esempio più comune di non discriminazione è dato dal sistema Gatt/Omc 4, che eleva a principio generale degli scambi la clausola della nazione più favorita, imponendo ai paesi membri, anche in caso di accordo bilaterale su regimi commerciali, di estendere il trattamento privilegiato concordato a tutti gli appartenenti al Gatt/Omc. Nelle relazioni di sicurezza il principio si attua attraverso l’obbligo, assunto dai membri di un accordo, di offrirsi reciprocamente il medesimo livello di garanzie di sicurezza, ad esempio impegnandosi a determinati comportamenti di tutela verso ciascuno e tutti i membri nel caso di minaccia o di attacco esterno.
Con il termine indivisibilità s’identifica la necessità che taluni contenuti dell’accordo, o talune clausole dell’accordo riguardanti la natura costitutiva dello stesso, siano ritenuti dai sottoscrittori inviolabili. Ogni accordo disporrebbe di una soglia critica, il cui superamento comporterebbe la negazione tout court delle finalità al cui raggiungimento l’accordo è preposto. In un trattato di sicurezza teso a garantire, attraverso la pratica del principio della garanzia reciproca tra membri, lo stato di pace dei sottoscrittori, un atto di guerra sofferto da un membro appare come evidente affronto al principio di inviolabilità multilaterale, ovvero come affronto a tutti insieme i membri dell’accordo. Visto il riferimento alla Sdn e al suo status di organizzazione multilaterale, l’incapacità d’azione collettiva in risposta all’aggressione esterna subita da membri, manifestata dalla Società nel corso della sua esistenza, appare in contraddizione con il principio di indivisibilità.
In quanto alla diffusa reciprocità, sembra risultato della continuità nel tempo dei comportamenti multilaterali: i membri dell’accordo "in tanto attribuiscono benefici e sopportano costi rispetto ad altri, in quanto si sentono sicuri che benefici equivalenti saranno necessariamente estesi ad essi in futuro". Nessun tipo di multilateralismo può essere, in effetti, concepito, senza che gli stati coinvolti in tale processo percepiscano con chiarezza che l’aggregazione multilaterale è destinata a durare nel tempo, ad offrire costi e benefici equamente ripartiti nel tempo, con una tendenza dei benefici a prevalere sui costi. Alla base del rapporto bilaterale vi è un calcolo di interessi, e una ragionevole attesa che questi vengano ampiamente premiati nel tempo. Proprio la diffusa reciprocità e il consolidamento nel tempo appaiono anzi a molti autori gli elementi indispensabili al consolidamento comportamentale e istituzionale dei singoli fenomeni multilaterali che, in quanto tali, possono nella loro attuazione storica, come tutte le sperimentazioni di cooperazione tra stati, realizzare modelli più o meno "profondi" di multilateralismo. E ciò, nonostante si sia detto e scritto ampiamente che ogni aggregazione multilaterale necessiti di una "ideologia" che ne cementi le ragioni di costituzione e ne motivi quotidianamente lo sviluppo e le attuazioni.
Al tempo stesso, aggregazioni multilaterali nascenti, come pure aggregazioni multilaterali già funzionanti, protagoniste di fasi di crisi o declino, che in tali condizioni appaiono incapaci di incorporare in modo compiuto e integrale le caratteristiche qui riportate, non possono per questa sola ragione essere escluse dalla fenomenologia multilaterale. Gli stati che sono parte di un accordo o di una pratica multilaterale possono infatti imprimere accelerazioni o decelerazioni al loro modo di agire all’interno dell’impegno multilaterale, con ciò influenzandone la profondità di funzionamento. Non per questo il multilateralismo viene negato, anzi. Il multilateralismo, come ogni altro fenomeno derivante dall’azione volontaria degli stati, va visto come opportunità di collaborazione interstatale dinamica ed elastica, in quanto tale passibile di interpretazioni, flessibilità, arricchimenti e/o impoverimenti, dosi crescenti o decrescenti di capacità e poteri.
Il regionalismo economico
Il modello wilsoniano di multilateralismo prescindeva da ogni connotato regionalista. La teoria idealista pura, fondamento del sistema di relazioni internazionali immaginato dal presidente americano, negava ogni premessa che potesse far correre il rischio di frammentare la comunità internazionale in blocchi di interesse o di potere. Il modello che ne scaturiva non poteva che fondarsi su premesse di carattere universalistico: l’attribuzione di poteri e di responsabilità all’interno di quel modello non solo non prevedeva sottosistemi regionali, ma anzi intendeva non favorirne l’insorgenza, presumendo che essi fossero da annoverare tra i responsabili dello scoppio del conflitto mondiale appena concluso. Le nuove regole che la comunità degli stati formulava con la Sdn, avendo come obiettivo esplicito lo sradicamento di ogni ragione di nuovo conflitto, non poteva non porsi in contrasto con eventuali processi di aggregazione di stampo regionale. Tutto ciò veniva reso manifesto attraverso il portato dell’art. 20 del Covenant, là dove si fissava l’abrogazione di obbligazioni e accordi vigenti fra i membri della Società.
Nel secondo dopoguerra l’antitesi tra multilateralismo e regionalismo è venuta cadendo, in particolare con riferimento alla caratterizzazione economica che la fenomenologia regionalista è venuta ad esprimere. I regionalismi possono anzi essere ora letti come una esemplificazione delle tipologie organizzative attraverso cui si esprime il multilateralismo. In questo senso l’attuale regionalismo può essere definito come un tipo di processo multilaterale, circoscritto in un certo ambito territoriale, realizzato attraverso accordi di scopo tra stati sovrani.
Nell’immediato dopoguerra, il multilateralismo fu visto dalla comunità degli stati, soprattutto dalla nuova potenza americana, come la cornice entro cui ricostruire le relazioni economiche internazionali, che avevano sofferto negli anni tra le due guerre le conseguenze negative dei ruoli egemoni delle potenze. Si tese da un lato a disporre di vere e proprie agenzie specializzate nei vari settori dei rapporti economici internazionali che evitassero il confliggere dei diversi interessi geoeconomici: il Fondo monetario internazionale, Fmi, per moneta e finanza, l’Accordo generale su commercio e tariffe, Gatt, per il commercio, e così via. Dall’altro si vollero gettare le condizioni per consentire al liberalismo economico, dopo i danni che autarchie e nazionalismi economici avevano inferto al sistema economico internazionale e ai livelli di benessere delle popolazioni, di rilanciare il ruolo dei mercati. In questa cornice istituzionale, i regionalismi economici, dapprima con timidezza, successivamente con convinzione, avrebbero trovato modo di esprimersi e crescere.
In campo strettamente commerciale, la pietra angolare del nuovo sistema mondiale del dopoguerra divenne la clausola della nazione più favorita, quanto di più multilaterale possa darsi nel commercio tra nazioni, perché fondata sul principio di non discriminazione tra paese e paese. La clausola prevede che se due paesi firmano un accordo commerciale contenente innovazioni positive sul piano della liberalizzazione degli scambi (riduzione tariffarie, ad esempio) queste vadano immediatamente estese all’intero ambito multilaterale del commercio internazionale. Ciò premesso, in teoria gli accordi commerciali regionali dovrebbero risultare quanto di più esclusivo e discriminatorio possa darsi nel campo delle relazioni economiche internazionali, basandosi su uno dei principi base di ogni club, l’esclusione dei non membri dal godimento delle facoltà e dei privilegi attribuiti ai membri.
Nella realtà, il regionalismo appare costretto all’interno di un paradosso. Da un lato tende ad estendere le preferenze esclusivamente ai partner stretti dal patto d’alleanza regionale, in particolare ampliandone le prerogative di competizione commerciali attraverso la progressiva riduzione di dazi e barriere doganali. In questo modo il regionalismo adotta decisioni avverse ai principi del multilateralismo, ponendosi come fenomeno obiettivamente discriminatorio nei confronti dei paesi non aderenti all’accordo multilaterale. Al tempo stesso, attraverso questo tipo di operazioni, anche se limitatamente alla sola area regionale investita dall’accordo, si propone come elemento promotore del liberismo economico e commerciale a livello internazionale, visto che diviene elemento diffusore del liberalismo economico, anche se soltanto a livello di aree ben delimitate dagli accordi sottoscritti dagli stati. Questa è una delle ragioni per cui lo stesso Gatt contempla una norma, l’articolo XXIV, che legittima, a determinate condizioni, la conclusione di accordi regionali. Il paragrafo 4 dell’articolo citato definisce preliminarmente le finalità di unioni doganali e aree di libero scambio: facilitare il commercio tra i territori delle due parti e non erigere barriere che impediscano o rendano difficile il commercio di altri stati con tali territori. A garanzia del rispetto di questi obiettivi si richiede, da un lato, che la tariffa esterna comune debba essere fissata ad un livello che complessivamente non sia superiore o più restrittivo di quello raggiunto nei paesi partecipanti prima della creazione dell’unione doganale (paragrafo 5); dall’altro che l’eliminazione di dazi e restrizioni equivalenti riguardi sostanzialmente tutto il commercio tra le due parti (substantially all trade, paragrafo 8). E’ una forte dose di realismo politico che spinge gli autori del Gatt a prevedere una così rilevante eccezione al principio della non discriminazione. Vi è consapevolezza che gli accordi regionali appartengono alla tradizione dei rapporti tra stati e che molti paesi potrebbero non aderire al Gatt se proibisse completamente accordi del genere. Sulla decisione influisce anche l’attesa che il regionalismo postbellico possa essere compatibile con il nuovo sistema delle relazioni economiche internazionali e assumere forme non lontane dai processi di integrazione fra province e territori all’interno di singoli stati sovrani.
Non è casuale che gli accordi regionali siano trattati come una fattispecie di accordi multilaterali. Vicende che hanno caratterizzato il sistema internazionale di produzione e scambio di merci e servizi, negli stessi decenni in cui venivano sviluppandosi le più significative esperienze di regionalismo economico, hanno documentato un legame piuttosto positivo tra apertura dei mercati/liberalizzazione delle economie e sviluppo dei regionalismi.E’ sembrato che dai regionalismi non venisse il tentativo di porsi come sostituto al multilateralismo, ma piuttosto l’intenzione di costituirsi come una fattispecie di complemento all’approccio multilaterale, tale da rafforzarne i contenuti e le stesse modalità di funzionamento. I nuovi regionalismi appaiono sostanzialmente immuni, almeno sinora, dal rischio di proporsi, di fronte a crisi strutturali del sistema economico internazionale, con funzioni analoghe a quelle sperimentate dal nazionalismo economico e dai regionalismi prima maniera.
Che multilateralismo commerciale e regionalismo economico non debbano necessariamente confliggere, viene confermato anche dalla constatazione che, nell’arco dell’esistenza del Gatt, nessuno degli accordi notificati abbia sinora ottenuto esplicita disapprovazione da parte del Consiglio Gatt, cui spetta prendere le decisioni finali sulla conformità delle notifiche alle regole dell’Accordo. Vero è che la stessa affermazione, formulata in termini opposti, potrebbe essere parimenti esatta dato che, al 1998, solo sei dei testi notificati hanno ricevuto approvazione esplicita. Se si considera che quattro di questi accordi non sono più in vigore, si può concludere che solo Caricom e l’unione doganale tra Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca sono pienamente e formalmente conformi al Gatt. In realtà, come sottolineato anche dagli stessi membri, i gruppi di lavoro che redigono il rapporto su cui decide il Consiglio nella maggioranza dei casi non riescono a raggiungere conclusioni unanimi sulla corrispondenza al Gatt degli accordi al loro esame, per via di contrasti su lettera e spirito della normativa Gatt. Anche l’esame del trattato di Roma del 1957, istitutivo della Comunità economica europea, si conclude senza decisione, dal momento che visioni diametralmente opposte dividono il gruppo e consigliano un rinvio a quando le circostanze permettano di intendere meglio il significato delle disposizioni del Gatt. Il rinvio si rivela nei fatti, in quel caso come in quasi tutti i successivi, sine die: l’esame del trattato Cee non sarà più ripreso. In conclusione si può affermare che se i gruppi di lavoro solo nei casi citati hanno raggiunto il consenso unanime nel riconoscere che un accordo è in linea con la normativa Gatt, mai sono stati concordi, finora, nell’affermare che esso sia in palese contrasto con il sistema multilaterale.
Quale regionalismo economico
Gli accordi regionali hanno assunto, dalla minore alla maggiore intensità, una delle seguenti cinque fattispecie:
C zona di libero scambio: costruzione giuridico-operativa essenzialmente commerciale, che elimina le tariffe doganali e le restrizioni quantitative all’interno della zona, attraverso concessioni reciproche intergovernative. Tra le sue caratteristiche, il fatto che ogni paese membro mantenga le proprie barriere nei confronti dei terzi. L’Efta, la European free trade association, ne è esemplificazione;
C unione doganale: è una zona di libero scambio con tariffa esterna comune e unica frontiera doganale verso l’esterno. Rappresenta il primo livello di vera integrazione del regionalismo;
C mercato comune: è un’unione doganale con peculiarità di ordine interno, quali la libera circolazione dei fattori della produzione (capitali, persone, merci);
C unione economica: è un mercato comune finalizzato ad un grado di armonizzazione complessiva delle politiche economiche dei distinti paesi membri, tale da farle definire comuni;
C integrazione economica: è un’unione economica con strutture decisionali comuni.
L’Unione europea, Ue, è l’unico esempio, tra i quasi 150 fenomeni di regionalismo notificati al Gatt/Omc, che abbia percorso i primi quattro gradi di integrazione, e si sia poi incamminata nella prospettiva del quinto grado, sino a proporsi un regime di tipo sovranazionale. Ma l’Ue, le sue modalità di crescita istituzionale, il suo attuale modulo di funzionamento, costituiscono, nell’ambito del regionalismo, l’eccezione, non certo la regola. Pur avendo gli stati nazionali verificato, in particolare nel corso degli anni ‘90, l’esigenza di spingere il multilateralismo sino alla strutturazione di aggregazioni su base regionale, non hanno in genere inteso rimettere a strutture ed organi della cooperazione regionale funzioni e poteri consistenti. Il ricorso al regionalismo ha significato una razionalizzazione del lavoro che il multilateralismo ha svolto nel sistema internazionale, non una rinuncia alle prerogative dello stato nazionale, l’esperienza storica di alleanze volontarie tra stati sovrani per il raggiungimento di talune finalità comuni.
In quanto alle finalità, il regionalismo fa la sua comparsa soprattutto con riferimento alla soluzione di bisogni economici, ma tende esplicitamente, fin dall’avvio della sua sperimentazione, ad abbracciare lo spazio della politica e della sicurezza. Si tratta quindi di fenomeno con tendenza spontanea a fornire risposte al complesso dei problemi posti, nella nostra epoca, dalle relazioni internazionali, primo fra tutti le modalità attraverso cui ricercare l’equilibrio e la sopravvivenza. Non potrebbe essere altrimenti. Il regionalismo incide sull’essenza stessa dei soggetti costitutivi della comunità internazionale, gli stati nazionali, ovvero sulla loro capacità di esercitare potere sovrano sui cittadini e nei confronti degli altri membri della comunità degli stati. Non tutti i fenomeni regionali manifestano con identica gradazione e qualità la capacità di modificare natura e ruolo degli stati nazionali, ma tutti indistintamente la contengono in nuce.
L’accordo regionale è tale in quanto vede l’adesione di alcuni o tutti i paesi appartenenti ad una certa area geografica, e/o geopolitica, e/o geoeconomica. Alla base dell’accordo regionale vi è sempre uno spazio-territorio che funge da elemento costitutivo e da riferimento operativo per le azioni multilaterali regionali che l’accordo ambisce a porre in essere. A questo proposito si sottolinea che un accordo può mantenere la sua caratteristica di regionalità anche senza che vi aderiscano tutti i paesi appartenenti ad una certa area geografica. La contiguità dei paesi membri non è elemento risolutivo rispetto alla natura dell’istituzione o dell’accordo regionali. Possono infatti darsi, in una certa area geografica, condizioni economiche o politiche che vengano a rendere inopportuna o persino contraria alle finalità fissate dall’accordo, la partecipazione di uno o più paesi ad una certa iniziativa regionale. Di rilievo la necessità di equilibrare il principio di eguaglianza tra partners, insito in ogni accordo multilaterale particolarmente in quelli a natura regionale, con il ruolo "a vocazione egemonica" che il paese guida gioca nell’ambito regionale. Da un lato occorre garantire all’organizzazione regionale un accettabile livello di funzionamento e di efficienza, senza il quale essa verrebbe a deperire e a scadere. Dall’altro va evitato il rischio di un eccesso di presenza da parte della potenza regionale, che verrebbe progressivamente ad inficiare il principio di diffusa reciprocità e non discriminazione su cui l’organizzazione regionale si basa.
Un aspetto non secondario attinente il livello di autonomia decisionale degli organi regionali, e l’autonomia delle finalità della loro azione, sta anche nelle modalità con cui si esprime la partecipazione ai processi decisionali delle entità regionali, da parte di istituzioni e gruppi di interesse istituzionalizzati dei paesi membri, ad esempio associazioni di imprese o sindacati dei lavoratori. Tale partecipazione realizza, attraverso vari strumenti di consultazione e partecipazione, il principio della rappresentazione degli interessi. Si ritiene che la partecipazione di istituzioni e interessi degli stati membri ai processi decisionali dell’istituzione regionale vada considerata, almeno nella sua espressione consultiva, come garanzia del necessario collegamento tra base di consenso interna agli stati membri e base di consenso statale all’istituzione regionale.
Le istituzioni regionali a carattere soprattutto economico, non sono, come si è detto, fenomeno completamente nuovo. Nuove sono però le modalità con cui esse si esprimono nel corso della seconda metà del secolo ventesimo. Questo nuovo regionalismo economico, che inizia timidamente i suoi passi alla metà degli anni ‘50 e documenta due ondate di crescita rispettivamente negli anni ‘70 e ‘90 (il numero degli accordi di integrazione regionale notificati al Gatt/Omc cresce nel modo seguente: 3 tra il 1948 e il 1954; 4 tra il 1955 e il 1959; 13 tra il 1969 e il 1964; 9 tra il 1965 e il 1969; 20 tra il 1970 e il 1974; 19 tra il 1975 e il 1979; 4 tra il 1980 e il 1984; 3 tra il 1985 e il 1989; 32 tra il 1990 e il 1994; 42 tra il 1995 e il 1998) , non solo evita di ostacolare l’avanzamento del multilateralismo economico e commerciale che è protagonista della politica economica internazionale del secondo dopoguerra, ma anzi si esprime proprio a partire dalle sperimentazioni che il multilateralismo economico, specie quello commerciale, va realizzando già negli ultimi anni di guerra.
I regionalismi non si propongono come una nuova modalità di organizzazione del sistema internazionale, in termini di superamento degli stati nazionali sovrani e della loro sostituzione con le aggregazioni regionali. Potranno però influenzare in modo crescente, causa anche la globalizzazione dell’economia, gli assetti internazionali dei rapporti economici tra gli stati. Se pure il sistema internazionale non andrà a basarsi su un’interrelazione esclusiva tra soggetti economici regionali, tali rapporti finiranno necessariamente per influenzare quelli tradizionalmente esistenti, nella definizione del nuovo ordine economico internazionale.
Si tenga presente un’ulteriore esigenza. I fenomeni di globalismo economico, come i grandi movimenti finanziari, le delocalizzazioni industriali, le concentrazioni imprenditoriali, tendono a sottrarre spazi di tradizionale sovranità agli stati, che si trovano, a differenza del passato, a non disporre di strumenti adeguati per monitorare e indirizzare decisioni economiche spesso di forte rilevanza economica e sociale per il futuro dei loro paesi. Si pensi, ad esempio, alla rilevanza in termini di livelli occupazionali o di bilancia commerciale, che decisioni di grandi gruppi attinenti disinvestimenti o delocalizzazioni possono rivestire per molti paesi. I regionalismi economici possono probabilmente fornire alcune risposte, al di là di quelle messe in campo dalla tradizione interventista degli stati, ad esempio attraverso progetti di sviluppo regionale che tendano ad armonizzare gli interessi di crescita nazionale e regionale.
Sono tutte queste, considerazioni che portano a concludere che il regionalismo non si vada ponendo come sostituto del multilateralismo, sia per la debolezza intrinseca che ancora lo caratterizza in quanto fenomeno piuttosto recente tra le modalità con cui si esprime il sistema internazionale, sia per la sua volontà di rapportarsi alla tradizione multilaterale. Il regionalismo economico va interpretato come un complemento al multilateralismo, una sorta di specializzazione che tendenzialmente, a certe condizioni, può contribuire a razionalizzare e rinnovare gli schemi di cooperazione economica multilaterale. Le preferenze che i regionalismi prevedono per i membri dei patti di cooperazione regionale in genere non contrastano apertamente con i principi del libero commercio, inserendosi in qualche modo all’interno del sentiero che, con la volontà e degli stati sovrani e delle entità regionali, la comunità internazionale sta edificando verso il libero commercio internazionale e la libera circolazione universale di beni e servizi. I regionalismi possono rappresentare un momento della transizione verso quest’obiettivo.
Multilateralismo e regionalismo
La possibilità di creare raggruppamenti regionali è stata prevista dalla Carta delle Nazioni Unite. Ad essa gli statuti del Gatt hanno fatto riferimento. Il quadro giuridico complessivo, a causa di talune ambiguità del testo, se non ha potuto evitare il fiorire del regionalismo economico, ha innescato un inesausto dibattito su legittimità e compatibilità delle integrazioni economiche regionali con la natura universalista delle istituzioni previste dai sistemi Onu e Gatt. Peraltro, l’azione del Gatt, e poi dell’Omc, in materia, come si è visto, è sempre stata improntata alla massima moderazione. Al crescere dei regionalismi ha contribuito lo stesso Gatt, in particolare con le ripercussioni che i risultati dell’Uruguay round hanno comportato sulle strategie di politica economica internazionale di molti paesi. I risultati dell’Uruguay round e il bisogno di ampliare la sfera delle esportazioni, convinsero all’epoca molti paesi ad adottare politiche di riduzione tariffaria, creando le condizioni anche politiche per la sottoscrizione di accordi di integrazione commerciale ed economica regionale.
Nelle lunghe ed estenuanti trattative dell’Uruguay round, a molti paesi del sud si è reso evidente come le strategie tradizionali di import substitution e di confronto con il nord non abbiano condotto a benefici concreti. Essi sono stati sospinti verso politiche più pragmatiche e verso la scoperta dei benefici che il commercio internazionale può offrire allo sviluppo. La trattativa Gatt ha fatto anche scoprire la scarsa rilevanza che, nel nuovo contesto, vengono ad assumere organismi delle Nazioni Unite come l’Unctad, da sempre punto di riferimento per le rivendicazioni in materia commerciale e di investimenti esteri dei più attivi paesi del sud. Come effetto del nuovo atteggiamento verso le strategie di sviluppo guidate dalle esportazioni (export-led), e come espressione di una maggiore aggressività nell’arena delle relazioni economiche internazionali e nelle trattative multilaterali, si sono disegnate strategie di rapporti regionali di tutto rilievo, tese ad annullare situazioni spesso caratterizzate da rapporti regionali piuttosto complessi e conflittivi e da cifre di scambi commerciali e di investimento intra-regionale poco rilevanti.
Non solo ragioni di politica internazionale (la caduta dei condizionamenti strategici del bipolarismo), ma anche l’abbandono da parte dei governi delle politiche economiche di sostituzione delle importazioni, hanno ampliato le opportunità di collaborazione regionale istituzionalizzata sud-sud. L’Asean, Associazione delle nazioni del sud-est asiatico, ad esempio, ha stabilito che per il 2003 eliminerà per i paesi membri le barriere doganali creando un’area di libero commercio (Afta, Asean Free Trade Area). Aladi in America latina (1980), Amu nel Maghreb arabo (1989), Ecowas per gli stati africani occidentali (1976), Comesa, Mercato comune dell’Africa orientale (1994), sono altri esempi di regionalismo sud-sud.
Vasti processi di collaborazione regionale si sono messi in movimento tra le aree sviluppate del nord e quelle più arretrate del sud. Il caso più rilevante è il legame creatosi tra l’America del nord e quella centrale, attraverso gli accordi Nafta. Processi per l’istituzionalizzazione di più intensi rapporti regionali nord-sud sono avvenuti anche in Europa, ad esempio attraverso un’ampia iniziativa di liberalizzazione commerciale della Comunità verso la regione del Mediterraneo. Fenomeni del genere interessano particolarmente le Americhe, attraverso i Vertici delle Americhe che aprono l’obiettivo di un’area di libero commercio per l’anno 2005, e l’iniziativa del Forum Asia-Pacifico tra Americhe e Asia (Asia-Pacific Economic Cooperation, Apec). I suoi membri, provenienti dal sud del mondo (Asean, Corea, Cina, etc.) e dal nord sviluppato (Stati Uniti, Giappone, Australia) scelgono di lavorare alla creazione di un’area di commercio e investimenti liberi entro il 2010 tra paesi sviluppati, ed entro il 2020 per i paesi in sviluppo.
Anche tra nord e nord tendono ad esprimersi con maggiore frequenza processi di integrazione, ad esempio attraverso l’ulteriore allargamento dell’Ue a nuovi membri, la creazione di uno spazio europeo di libero scambio, trattative per la creazione di un’area atlantica di libero scambio tra Ue e Stati Uniti.
Lo sgretolarsi dell’impero sovietico ha creato, negli anni novanta, ulteriori opportunità di aggregazione tra paesi della stessa regione. Si pensi al crescere dell’Iniziativa Centro Europea, formata da Italia e Austria per parte Ue, Albania, repubbliche ex jugoslave, i paesi ex Comecon, alcune repubbliche ex sovietiche (non la Russia); del Seci, Southeast European Cooperative Initiative; dei cosiddetti "Shangai Five", Cina, Russia, Kazakstan, Kyrgyztan, Tajikistan, che dal 1995 cooperano su questioni legate ai confini e alla sicurezza regionale.
Il movimento regionalista concerne anche l’istituzione universale per eccellenza di questo dopoguerra, le Nazioni Unite. Benché sancita dalla carta istitutiva, la cooperazione tra Onu e organizzazioni regionali non aveva trovato, nel periodo storico del sistema bipolare, molte occasioni per esprimersi. Si erano manifestate disfunzioni e lentezze, a volte contrasti e frizioni tra Onu e strutture regionali di difesa e di cooperazione economica. All’inizio del 1993 il Consiglio di sicurezza rivolge agli organismi regionali un invito ad esaminare i mezzi per rafforzare le funzioni in grado di contribuire alla garanzia della pace e della sicurezza internazionale. Il primo agosto 1994 l’allora segretario generale delle Nazioni Unite Boutros Boutros-Ghali convoca a New York una variegata rappresentanza delle organizzazioni regionali. Viene fatto riferimento al capitolo ottavo della carta Onu, come cornice per i futuri rapporti. Con riferimento alla lettera dello statuto, il Segretario generale delle Nazioni Unite ribadisce come l’esistenza di accordi regionali sia del tutto compatibile con le funzioni dell’organo mondiale della collaborazione globale tra gli stati, soprattutto alla luce delle competenze reciproche che proprio la carta Onu fissa a garanzia di funzioni e natura delle reciproche istituzioni. Nel corso degli anni novanta, la collaborazione e la consultazione tra organizzazioni regionali e Nazioni Unite si è trasformata in pratica corrente. Con l’Ue, ad esempio, si hanno consultazioni settimanali dei capi missione comunitari e riunioni piuttosto frequenti a livello tecnico. Peraltro l’Ue , da tempo, quando lo ritiene opportuno, interviene in Assemblea generale e nelle commissioni di lavoro, in rappresentanza dei paesi membri. La Commissione europea ha statuto di osservatore presso l’Onu.
La soluzione pragmatica adottata in sede di Nazioni Unite, rispetto alla contraddizione potenziale multilateralismo-regionalismo, è anche figlia di tempi in cui l’antagonismo tra il multilateralismo universalista alla Wilson e quello ispirato ai patti del realismo post-guerra mondiale, non trova ragioni per sussistere. A conferma, si consideri quanto accaduto nel corso dell’Uruguay round prima, e poi a Seattle con il fallimento della Terza Conferenza ministeriale dell’Omc 5.
La tormentata creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio, Omc, in ambito di Uruguay round, con le lunghe e tormentate trattative che hanno impedito un sollecito avanzamento degli accordi, sono state effetto esclusivo delle posizioni assunte dalle delegazioni nazionali. Gli istituti del regionalismo economico non hanno certo giocato il ruolo, paventato da taluni autori, di "fortezze commerciali" chiuse, favorevoli al mantenimento di regole e comportamenti lesivi della libertà di commercio o dell’approccio multilaterale. E’ sembrato anzi che il diffondersi, negli stessi anni del round, di esperienze regionali nelle quali venivano crescendo abitudini di commercio aperto e di abbattimento di tariffe doganali pur limitatamente ai paesi membri dell’accordo regionale, si sia proposto con decisione quale elemento diffusivo, nella comunità internazionale, di una "cultura dell’apertura", quella che ha poi contribuito alla positiva conclusione delle trattative multilaterali in sede Gatt/Omc. L’approccio "aperto" e "liberale" che andava caratterizzando, in parallelo con la stagnazione dell’Uruguay round, lo sviluppo delle cooperazioni regionali, contribuiva a rimuovere gli ostacoli che gli stati sovrani rappresentati nel Gatt frapponevano rispetto all’ipotesi di cessione di pezzi di sovranità alla nascente istituzione internazionale Omc, e dello smantellamento di protezioni e barriere frapposte alla libertà degli scambi. Per quanto riguarda Seattle, due sono apparsi gli elementi che hanno impedito il successo della Conferenza: l’eccesso di protagonismo statunitense nei confronti delle altre economie, il riaprirsi di una conflittualità sud-nord che sembrava poter essere superata dalla cultura del commercio aperto, diffusasi nei decenni ottanta e novanta.
Quali prospettive per il regionalismo
Il presidente Bush, parlando all’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1990, dice: "Vedo una nuova partnership di nazioni che trascenda la guerra fredda. Una partnership basata sulla consultazione, la cooperazione, e l’azione collettiva, specialmente attraverso le organizzazioni regionali e internazionali". L’indicazione, di sapore abbastanza wilsoniano, sembra voler suggellare il lungo periodo di confronto armato tra est e ovest, sottolineando la rilevanza che, nel nuovo contesto di relazioni internazionali, verranno ad assumere gli strumenti organizzati e istituzionali della cooperazione internazionale, in particolare di quella regionale. Ciò che il presidente americano non dice, in quel discorso, è che la sua "vision" è in realtà basata sull’analisi delle tendenze in corso, che generano condizioni favorevoli ad accordi che, superando le pratiche degli anni di guerra fredda e del sistema bipolare, basino i comportamenti degli stati sullo spirito di reciproca fiducia e collaborazione.
Cercando elementi per la costruzione di una teoria del regionalismo, non può non muoversi dalla presunzione che, in questa fase storica, tra paesi sovrani lo stato di collaborazione sia percepito come più conveniente di quello di conflitto e scarsa collaborazione, caratteristici del mondo bipolare. E, guardando all’ambito strettamente commerciale, che i sistemi d’integrazione basati sulla libertà di commercio siano più soddisfacenti di quelli a base conflittuale e discriminatoria. A questo proposito è stato giustamente scritto che "l’integrazione economica accresce la sicurezza dei paesi partecipanti all’accordo di integrazione sia per quel che riguarda le relazioni tra loro, in quanto i benefici dello scambio reciproco sono superiori ai benefici dell’aggressione reciproca, sia per quel che riguarda i rapporti con i paesi esterni all’accordo". Nel modello di integrazione regionale, l’interesse nazionale attribuisce valore positivo alla collaborazione tra paesi contigui dell’ambito regionale. I paesi che aderiscono all’ipotesi di collaborazione regionale, mostrano di disporre di ragioni sufficienti per attribuire fiducia ai partners membri dell’accordo regionale e al partenariato regionale in quanto tale. Una dimostrazione di quest’affermazione viene espressa dal continuo crescere del numero dei membri che caratterizza la vita dei sistemi di cooperazione regionale, e dalle richieste di adesione che gli esclusi dai club regionali indirizzano agli schemi di cooperazione regionale. Si guardi, nel caso dell’Ue alle posizioni espresse dai Peco candidati all’adesione, ancora in occasione del Consiglio europeo di Vienna e, con riferimento all’Asean, dalla Cambogia ancora nel vertice di Hanoi del dicembre 1998.
Se la scelta di collaborazione costituisce il fondamento dell’accordo regionale, è opportuno chiarire quali siano le caratteristiche che essa assume, ad esempio se tende a caratterizzarsi su base di esclusività, a privilegiare cioè i rapporti interni al raggruppamento regionale rispetto ai rapporti con i non membri. Detto in altro modo, in quale punto si situi, per i paesi membri, l’equilibrio tra gli interessi di partenariato tutti interni all’accordo e gli interessi connessi ai rapporti con i paesi esterni all’accordo stesso. E ancora, se la qualità e l’intensità dei diversi fenomeni di regionalismo sia sempre e comunque coincidente, o non offra invece una forte varietà di manifestazioni e di intensità.
A questo proposito è evidente che la natura della collaborazione virtuosa che si avvia tra partner di accordi regionali riveste carattere esclusivo: chi è membro gode di prerogative ed è soggetto di diritti e doveri, in modo del tutto speciale rispetto ai non membri. Se così non fosse, non vi sarebbe ragione per costituire e alimentare la collaborazione regionale. Diverso è invece affermare che l’intensità dell’esclusività assuma sempre identiche caratteristiche. La natura dei cinque modelli di collaborazione regionale previsti dalla dottrina - area di libero scambio, unione doganale, mercato comune, unione economica, integrazione economica - offre anzi buone ragioni per ritenere che la diversità nell’intensità delle relazioni interne ed esterne all’accordo, costituisca, nell’ambito dei fenomeni regionali, la regola.
Chiarito che gli accordi di collaborazione regionale non godono tutti dell’identica intensità di collaborazione e si esprimono con fattispecie diversificate, resta da capire quali possano essere le aspettative dei paesi esclusi dal club regionale, come si possa cooperare senza essere membri del club regionale, evitando agli accordi regionali di generare blocchi capaci di discriminare i non membri. La questione si pone a partire dalle funzioni attribuite all’aggregazione regionale. Se nell’ambito del sistema bipolare queste avevano una spiccata vocazione a porsi, in modo implicito se non esplicito, in relazione diretta con le questioni sistemiche di sicurezza e da queste traevano dipendenza, dopo la fine del bipolarismo, la natura specificamente economica delle funzioni dei sistemi di cooperazione regionale qui esaminati, trova condizioni adatte ad affermarsi.
In questo senso, si danno meno ragioni a spingere le alleanze commerciali ed economiche regionali ad esprimersi in base alle regole dei club chiusi ovvero contrastando il libero commercio e la libera competizione. Nella fase attuale le collaborazioni regionali, per usare una terminologia anglosassone entrata nell’uso, operano piuttosto come building block, rifuggendo dal ruolo di stumbling block (ostacolo) al commercio internazionale esercitato in precedenti epoche. Si noti che, a parità di ogni altra condizione, nelle fasi di crisi che investano il ruolo del regionalismo, il rischio che le organizzazioni regionali vengano sottomesse a sollecitazioni tese a farne strumento di autentiche guerre commerciali non può essere del tutto evitato. In questo caso, ma sembra solo in questo caso, ci si trova in presenza di distorsioni alle stesse funzioni dell’accordo, e il regionalismo torna a rappresentare un ostacolo al fluire di libero commercio e di relazioni cooperative tra gli stati.
Sempre in tema di collaborazione, occorre distinguere tra i livelli "statutari" o comunque formali fissati da trattati, carte o accordi istitutivi, e la gestione "politica" della cooperazione regionale, con le decisioni assunte dai governi dei paesi membri, o dagli organi attraverso i poteri delegati. E’ infatti la "politica" a gestire la flessibilità evolutiva insita in qualunque dato regionale, sulla base di un principio quale quello del progressivo accrescimento di spazi e competenze, che è insito nei fenomeni di regionalismo cooperativo. Raramente il regionalismo evolve in modo tale da transitare attraverso tutte le cinque fasi di integrazione riportate (l’unico caso, per ora, è quello dell’Unione europea), ma sempre tende ad accrescere le dosi di impegno comune, innalzando il livello di rappresentanza integrata, puntando all’assorbimento progressivo di funzioni economiche esplicate dai membri. Questa natura assorbente del regionalismo, con cui devono fare i conti non solo e non tanto i principi di sovranità nazionale dei paesi membri, quanto i rapporti dei paesi e delle organizzazioni esterne al raggruppamento regionale, è certamente un altro elemento utile alla definizione di una teoria dei regionalismi.
Centrale, in tale contesto, il fatto che i regionalismi contribuiscano a superare, attraverso la collaborazione nelle materie economica e commerciale, i conflitti esistenti e/o potenziali tra i membri dell’accordo. Si guardi a come sia venuto evolvendo in modo positivo il quadro dei rapporti tra i paesi di Mercosur, per non citare l’ovvio caso dell’Ue. Quando ci si colloca all’interno di un patto di cooperazione economica regionale ci si installa in una situazione strutturale che evidenzia la convergenza di interessi. In tal modo viene declassato l’utilizzo di strumenti politici ed economici tipici dei rapporti non coperativi tra gli stati, quali minaccia, boicottaggio, rappresaglia, etc. che, nelle battaglie commerciali, si tramutano in misure come dazi, normative sanitarie, contingenti, etc. Alle azioni di confronto, si sostituiscono trattative e azioni cooperative, comportamenti tipici di situazioni in cui vi sia condivisione di interessi. Quanto più alto è il livello effettivo di cooperazione, tanto più si abbassa la soglia del conflitto. In genere può dirsi, guardando alla scala di intensità cooperativa e ai suoi cinque passaggi formali, che quanto più ci si allontana dal livello minore di cooperazione, quello dell’area di libero scambio, tanto più si innalza l’opportunità di rapporti cooperativi e quindi di scadimento di conflitti. Un’affermazione che trova rispondenza anche sul piano formale, attraverso l’attribuzione alle organizzazioni di cooperazione regionale, di strumentazioni come corti per la risoluzione di controversie, sedi di arbitrato, organi di decisioni sovranazionali. In quest’ambito va notato che sempre più spesso, gli organismi regionali si vedono "delegate" dalla comunità internazionale funzioni di intermediazione diplomatica e di peace keeping. Nel primo senso, si guardi al ruolo giocato dall’Organizzazione per l’unità africana, Oua, per la fine delle ostilità tra Etiopia ed Eritrea nel giugno 2000. Nel secondo, sempre in Africa all’intervento di truppe regionali nella crisi della Sierra Leone dell’aprile 2000, e in Europa a quello dei soldati europei in Kosovo.
NOTE
Il caso dell’esperienza regionale europea è certamente ricco di insegnamenti per qualunque esperimento di aggregazione regionale, sia sotto il profilo delle modalità seguite nella costruzione del regionalismo come fatto interno (scelta funzionale, sviluppo di fasi di cooperazione attraverso consenso, progressiva attribuzione di poteri ad istituzioni comuni), sia sotto il profilo esterno (il modello di regionalismo aperto alla collaborazione internazionale). E’ evidente che se in nessun’altra regione è stato sinora possibile dare vita a un’istituzione regionale tanto avanzata, ciò è dipeso dall’assenza di condizioni strutturali favorevoli, a cominciare dalla disponibilità degli stati a rinunciare, come è accaduto in Europa, a talune loro prerogative sovrane.
1 Si pensi al caso in cui uno stato con forti risorse idriche, ne impedisca la disponibilità, anche attraverso acquisto o commercio, a un paese vicino. Si pensi all’embargo su forniture di materiali strategici come il petrolio, da parte di paesi produttori.
2 La “cooperazione”, in quest’ambito, viene assunta come riferita ai membri del “club cooperativo”. Risulta intuitivo che essa potrebbe anche essere finalizzata ad operare in modo offensivo verso terzi.
3 Si può anche avere regionalismo bilaterale. Si pensi all’iniziale Nafta, North American Free trade area prima dell’adesione del Messico, che coinvolgeva i soli Usa e Canada; o all’area di libero scambio creata tra Repubblica Ceca e Slovacchia in seguito alla partizione della Cecoslovacchia. Il regionalismo viene assunto come tipico fenomeno multilaterale, perché di regola funziona attraverso accordi che, per essere regionali, tendono a coinvolgere più di due stati. Esso, inoltre, come si vedrà, è dotato di natura inclusiva, tendendo ad accettare nel suo seno ogni e qualsiasi paese contiguo che accetti le finalità del patto regionale. Al contrario, tra gli elementi costitutivi del bilateralismo, vi è quello dell’esclusivismo.
4 Gatt sta per General Agreement on Tariffs and Trade, l’accordo intergovernativo che ha regolato il commercio internazionale dal dopoguerra, attraverso le norme pattizie fissate con lunghe tornate di trattative (round) tra i paesi membri. L’Omc, Organizzazione mondiale del commercio, con sede a Ginevra, è subentrata al Gatt dal 1995
5 La Conferenza, convocata nel dicembre 1999, per avviare il cosiddetto Millennium round, non porta a nessun accordo e a nessun documento finale. L’Omc entra in una lunga pausa di riflessione.