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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

Charles S. Maier, storico di Harvard, ritiene che nel secolo passato siano vissuti sulla terra tra 12 e 15 miliardi di esseri umani e che i morti per guerra siano stati 100 milioni. E’ quindi probabile che nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle circa l’1% di chi è vissuto allora abbia trovato una morte causata direttamente o indirettamente da avvenimenti bellici.

Un’analisi dettagliata condotta dal libanese Camille Eid giunge però a superare i 200 milioni di morti, e ritiene che nel XVIII secolo siano morti per le stesse cause 5 milioni di persone e che nel XIX si sia arrivati a 16. La popolazione mondiale, secondo l’Encyclopedia Britannica, verso il 1750 era di circa 800 milioni, nel 1800 di 1 miliardo e nel 1930 di 2 miliardi. Pertanto la percentuale dei decessi per cause belliche nel XX sec. è comunque da ritenersi molto alta se paragonata con quelle dei i due secoli immediatamente precedenti.

Se si considerano poi anche la somma delle sofferenze umane e la distruzione di beni economici e culturali ci rendiamo conto della dimensione catastrofiche del fenomeno.

All’inizio del nuovo secolo, il XXI, la situazione non promette nulla di buono: in ogni continente sono aperti fronti e focolai di guerra, specialmente in Africa.

Dall’inizio inglese della industrializzazione è aumentato tutto: popolazione, mezzi distruttivi ed effetti della loro applicazione. Non sembra quindi troppo ideologico dire che nonostante tutti i tentativi di accordi, mediazione, tribunali internazionali le cose non si mettono al meglio. Il trend è negativo. Secondo l’edizione 1999 del World Defense Almanac, dell’ISS, nel l998 nel mondo sono state vendute armi per 60 miliardi di Dollari, 26 dei quali a carico dei soli USA.

Eppure qualche cosa è cambiato e anche qualche cosa di molto importante, dall’inizio del secolo scorso. Oggi l’obiezione di coscienza è riconosciuta, almeno negli stati di diritto; l’Onu come istanza mondiale di pace sta sperimentando vie concrete per attuare il suo mandato; i Tribunali Penali Internazionali per l’ex-Jugoslavia e per il Rwanda funzionano, e sono anche un modello estensibile ad altri casi analoghi; lo statuto del Tribunale Penale Internazionale è stato approvato nell’estate del 1998 a Roma e la sua entrata in attività potrebbe essere questione di un anno. Sono solo segni, ma se non andiamo errati, segni di uno sviluppo valoriale da non sottovalutare, soprattutto perché si stanno realizzando le strutture internazionali di mediazione, controllo e punizione che hanno vagheggiato il filosofo Kant, il presidente Wilson e il papa Benedetto XV.

Non ci facciamo l’illusione che una ‘pace perpetua’ sia a portata di mano ma possiamo sperare che essa diventi come le malattie gravi di un cittadino dell’Occidente: un fatto eccezionale e generalmente controllabile.

Perché questo possa avvenire è necessario che la guerra sia come un virus mortale: qualche cosa da combattere non qualche cosa da conviverci o addirittura da coltivare. Infatti oggi la produzione e commercializzazione delle armi è ancora strutturalmente intrecciata con la produzione industriale e il commercio ‘normale’, con i posti di lavoro e l’appropriazione di fonti di energia, con la ricerca di sfere di influenza e l’espansione dei mercati. Sembra accertato anche empiricamente che la riduzione delle produzione di armi non porterebbe tanto la perdita di posti di lavoro (in genere qualche migliaia facilmente sostituibili con investimenti in altri settori) quanto piuttosto la perdita di quote di mercato e quindi di potere di contrattazione nell’insieme mondiale della produzione e del mercato di ogni settore.

Come cristiani crediamo che l’intrinseca peccaminosità di ogni uomo - e quindi di ogni generazione umana che si sussegue e si sovrappone - si manifesti anche nella violenza di massa ed organizzata e che in essa sia presente molto egoismo ed autoaffermazione arbitraria. Se la generosità, l’imparzialità, la disponibilità sono attitudini morali di fondo, la guerra è la realizzazione degli atteggiamenti diametralmente contrari. E non solo nel soldato che sul campo diventa, ad esempio, un sadico torturatore, ma proprio nella struttura decisionale che presiede all’elaborazione delle strategie di guerra, alla loro preparazione, alla loro realizzazione. L’inserimento della minaccia militare (e della sua attuazione possibile) nella strategia globale della politica di un paese, ha troppi risvolti ideologici ancora simili a quelli che presiedevano alla politica delle cannoniere.

Particolarmente problematico risulta poi l’intervento indiretto attraverso vendita o fornitura occulta di armi nei teatri di crisi del terzo e quarto mondo. Qui i paesi sviluppati manifestano la loro natura aggressiva, tesa ad acquisire mercati o a proteggerli, ad estendere o a difendere sfere d’influenza, allo scopo di mantenere il livello di vita dei propri cittadini. Questo sembra sfacciatamente evidente per l’Africa: continente di giovani dove l’AIDS e la guerra tagliano alla radice ogni speranza per l’immediato futuro.

Ciò non ci deve distogliere però dall’impegno di lavorare, sulla scia del già raggiunto a livello di diritto internazionale, per estendere le aree di ragionevolezza e di moralità politica.

Tra queste spicca, per il suo specifico valore etico, la cosiddetta Ingerenza Umanitaria. Essa sottolinea la già avvenuta limitazione della sovranità assoluta degli stati e la conseguente necessità di tenere sotto controllo internazionale non solo le azioni verso l’esterno di un governo, ma anche quelle verso la propria popolazione.

" Quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi in iniziative concrete per disarmare l’aggressore. Queste tuttavia devono essere circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale...

Si apre qui un campo di riflessione e di deliberazione nuovo sia per la politica che per il diritto, un campo che tutti auspichiamo venga coltivato con passione e con saggezza. E’ necessario e non più procrastinabile un rinnovamento del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali che abbia nella preminenza del bene dell’umanità e della persona umana su ogni altra cosa il punto di partenza e il criterio fondamentale di organizzazione...

In nessun tipo di conflitto è legittimo trascurare il diritto dei civili all’incolumità" (Giovanni Paolo II, Messaggio per la giornata della pace 2000).

Il giudizio sulle guerre quindi deve essere sempre più legato ai diritti umani e solo applicando questo criterio si può dar loro la patente sia di necessaria che di giusta. Infatti in tal modo si ammetteranno solo guerre di difesa, e difesa di tali diritti appunto, e quindi legate all’universalità del bene comune mondiale. E’ una nuova fase dello sviluppo della classica teoria della guerra giusta.

Verso la metà del secolo scorso la liceità della guerra era stata limitata solo come guerra difensiva legata al bene comune di un paese. Si veda, nella rubrica Pagina Classica, lo scritto del 1947 del Cardinal A. Ottaviani, per lunghi anni personaggio centrale della Curia Romana. Oggi, però, anche le giustificazioni razionali vanno globalizzate: senza diritti umani, universali ed indivisibili, non si può dare - con molte cautele - la patente di ‘giusta’ ad una guerra.

Il movimento mondiale per la pace - che comprende sia l’operatore di borsa che non vuol vedere disturbati i propri investimenti che lo squatter anarchico ed utopista - ha prodotti alcuni frutti maturi: come la riconosciuta necessità dell’educazione alla pace dei giovani, la messa al bando di modelli sociali violenti e di determinate armi, il sospetto verso qualsiasi governo autoritario, la pressione delle popolazioni sui propri governi affinché agiscono internazionalmente in senso pacifista, un’apertura tollerante verso tutto ciò che è culturalmente diverso.

Se scorriamo la lista dei Premi Nobel per la Pace possiamo reperire persone e tappe di questo processo avvenuto nel XX secolo verso l’imbrigliamento e la riduzione degli effetti delle guerre. Ma è soprattutto nelle coscienze individuali che si è fatta strada, almeno nel mondo Occidentale, la consapevolezza dell’orrenda realtà della guerra. E non solo come pacifismo personale, ma anche di quello sociale, strutturale di una società.

La globalizzazione ha reso questo più evidente: ogni violenza, sia episodica che prolungata nel tempo, è causa di mali a catena con risonanze incontrollabili: sottrae risorse all’educazione e alla cure mediche, distrugge strutture familiari e sociali, diffonde il sospetto ed il pregiudizio. In altre parole, distrugge la solidarietà. E non casualmente: la guerra è una struttura di sopraffazione.

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