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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

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04 Salvioli 101

04 Salvioli Alcuni degli eventi del xxi secolo più gravidi di conseguenze a livello globale, come l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 o la grande recessione iniziata nel 2007, hanno offerto l’occasione a diversi critici per mettere sul banco degli imputati non pochi aspetti dell’ordine (neo-)liberale1. Il dipanarsi della storia, con le congiunture e fratture caratteristiche del suo procedere, costituisce da sempre un significativo catalizzatore per lo sviluppo della riflessione – in senso apologetico o critico – sull’assetto sociopolitico, economico e culturale dominante. Con buona pace di Francis Fukuyama e della tesi sulla presunta “fine della storia” a motivo della diffusione globale del modello liberale seguita alla caduta del blocco sovietico2, l’oscillante incedere storico continua inarrestabile, alimentato non di rado da crisi di gravità variabile.

Ritengo, in questo senso, che si possa affermare che la recente pandemia di Covid-19 abbia contribuito – almeno per i cittadini più attenti – a demistificare l’ampia fiducia ottenuta dagli esponenti del sovranismo populista. Un fronte che, in Occidente e fatte le debite distinzioni, il teologo John Milbank aveva interpretato come l’ultima maschera propagandistica del neoliberalismo3, fornendo così la premessa fondamentale per leggere anche gli effetti sociopolitici ancora in atto della pandemia in ordine alla tenuta dell’assetto sociopolitico ed economico (neo-)liberale.

Per Milbank, infatti, il cosiddetto sovranismo si oppone solo superficialmente al globalismo, perché al fondo si tratta di espressioni della medesima ideologia. Con riferimento al Presidente degli Stati Uniti d’America, il teologo britannico non esita pertanto a riconoscere che il «populismo nazionalista è dopo tutto solo una svolta nel racconto del neoliberalismo», ossia del «neoliberalism in one country». Si tratta, in definitiva, di un ulteriore ed intensificata figura di quel moderno «culto dell’individuo senza relazioni e capace di scegliere liberamente» cui siamo soliti dare il nome di “liberalismo”, il cui «individualismo, alleato col nazionalismo, può risolversi in un egoismo coagulato che guida i peggiori istinti collettivi». La pandemia ha imposto, a mio avviso, una battuta d’arresto a questa deriva ragionevolmente prevista da Milbank a partire dall’analisi del fenomeno sovranista, in quanto ha costretto dolorosamente milioni di cittadini ad uscire dall’illusione (neo-)liberale per cui sarebbe possibile concepirsi e viversi “a prescindere” da relazioni costitutive con altri da sé, foss’anche rendendo impermeabili i confini, tanto del proprio corpo, quanto del proprio stato.

Pur dovendo omettere, in questa sede, una dettagliata fenomenologia delle occasioni che questa pur drammatica pandemia può offrire in ordine ad una metanoia sociopolitica ed economica, mi limito a suggerire che essa abbia contribuito a preparare il campo per realizzare un compito che Milbank – ancora all’inizio del 2019 – considerava quantomai urgente: «scoprire un’alternativa alle continue aporie del liberalismo e alle sue parziali mutazioni nel populismo o in una fusione liberal-populista che, allo stesso modo, tende a diventare sempre più fascista»4. The Politics of Virtue, scritta a quattro mani con Adrian Pabst, è sicuramente l’opera di riferimento per pensare – con Milbank ed anche oltre Milbank – l’auspicata alternativa5.

Suddivisa in cinque parti, dedicate rispettivamente all’analisi della politica, dell’economia, dell’ordinamento politico, della cultura e dell’assetto internazionale, l’ampia trattazione intende suggerire come impostare il discorso per costruire il futuro sociopolitico ed economico in senso post-liberale, dopo aver preso atto della metacrisi che sta investendo l’impianto liberal-capitalistico. Quest’ultimo infatti, parallelamente alla sua affermazione, sta manifestando progressivamente il proprio orientamento nichilistico, implicito nell’ontologia della violenza – che intende il conflitto come cifra dell’essere6 e nell’antropologia pessimistica7 della prima ideologia della modernità. Il primato, reso possibile da un netto individualismo, della politica (stato) e dell’economia (mercato) sulla società e sulle relazioni interpersonali, l’inedita concentrazione di potere e di ricchezza in una ristretta oligarchia che produce ad un tempo aumento delle diseguaglianze e la manipolazione delle masse popolari e la mercificazione della vita sono solo le conseguenze più evidenti del successo della ragione liberale.

L’alternativa offerta dalla “politica della virtù” consiste in una paradossale commistione, favorita dall’investimento sui corpi intermedi, tra virtuose élites e la più ampia partecipazione popolare, tra l’impegno culturale e la gerarchia dei valori e, infine, tra un’effettiva uguaglianza ed una genuina libertà creatrice in ambito economico e politico. Quest’ultima alleanza, in particolare, richiede di pensare insieme la giustizia economica e la reciprocità sociale, attraverso il superamento della moderna dicotomia tra contratto e dono (businnes is businnes and gift is gift) nella figura del dono-scambio8. Elaborata alla scuola della più ampia tradizione agostiniano-tomista, in seguito ai fondamentali contributi di Alasdair McIntyre e di Stanley Hauerwas, la proposta di Milbank e di Pabst trova il proprio nucleo teorico nella valorizzazione in senso politico della categoria di virtù. Lungi dal favorire alcuna deriva moralistica, come accade invece ai promotori del consequenzialismo o della deontologia liberali, la politica post-liberale delle virtù procede dalla realtà del bene, «considerato come il reale oggetto, fattuale e valutativo, perseguito dagli uomini»9.

L’aspetto virtuoso non verrebbe più considerato come un elemento supererogatorio dell’azione umana orientata in senso meramente utilitaristico, se non volta unicamente all’incremento del potere, ma come una sua componente «normale ed essenziale». Il nocciolo della questione, nel caso dell’etica e della politica della virtù, consiste quindi nel ritenere impossibile che ci possa essere una pratica umana – comunque costitutivamente interpersonale – senza mirare in un qualche modo al bene o avere qualche idea su come riconoscerlo e conseguirlo con successo. «In questo modo, per l’etica della virtù», continua Milbank, «la moralità non è una sorta di optional extra per il processo storico o politico. La storia non può essere cinicamente esposta come un racconto di mere necessità ed espedienti […] . Perché è anche e inevitabilmente […] un racconto di umano coraggio, immaginazione e tensione creativa per raggiungere fini degni d’onore»10. Com’è possibile, infine, elaborare un’alternativa praticabile alla metacrisi dell’impianto liberal-capitalistico? Secondo Milbank e Pabst si tratta tutto sommato di abbandonare la logica del «male minore», che struttura la stessa «civiltà liberale»11, per procedere con fiducia a partire dal bene comune.

 

Marco Salvioli

 

NOTE

1 Si vedano, ad esempio, le diverse prospettive elaborate da P. J. Deneen, Why Liberalism Failed, Foreward by J. D. Hunter and J. M. Owen IV, Yale University Press, New Haven and London 2018, V. E. Parsi, Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale (Contemporanea, 269), Società Editrice il Mulino, Bologna 2018 e S. Lucarelli, Cala il sipario sull’ordine liberale? Crisi di un sistema che ha cambiato il mondo (Relazioni internazionali e scienza politica. ASERI, 62), Vita e Pensiero, Milano 2020.

2 Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992.

3 Qui e per quanto segue, cfr. J. Milbank, The Problem of Populism and the Promise of a Christian Politics, in ABC Religion & Ethics del 16 febbraio 2017, reperibile in rete al seguente indirizzo: https://www.abc.net.au/ (consultato il 3 agosto 2020).

4 Cfr. J. Milbank, An Offering to Athens, in Jacobite del 29 gennaio 2019, reperibile in rete al seguente indirizzo: https://jacobitemag.com/ (consultato il 3 agosto 2020).

5 J. Milbank - A. Pabst, The Politics of Virtue. Post-liberalism and the Human Future, (Future Perfect: Images of the Time to Come in Philosophy, Politics and Cultural Studies), Rowman & Littlefield, London - New York 2016.

6 Si vedano, in particolare, le visioni del mondo messe a punto da Machiavelli e Hobbes, cfr. ivi, 37. La questione è stata affrontata in J. Milbank, Theology and Social Theory. Beyond Secular Reason, Second Edition, Blackwell Publishing, Oxford 2006.

7 Cfr. J. Milbank - A. Pabst, The Politics of Virtue, 21: «For liberalism assumes that we are basically self-interested, fearful, greedy and egoistic creatures, unable to see beyond our own selfish needs and, therefore, prone to violent conflict». Col liberalismo si compie quel processo di smantellamento dell’orizzonte delle virtù, elaborato dai Padri della Chiesa e dai Dottori medievali, la cui origine è da collocare nella falsa competizione tra grazia divina e libertà umana introdotta per motivi teologici, sulla base di scelte metafisiche fallaci. Un’opzione che consentirà di concepire l’azione umana in termini meramente “naturali”.

8 Ivi, 71: «Society is a spiral paradox of ‘non-compulsory compulsion’, in which the giving of gifts (and every act and speech-act is a gift) half-expects but cannot compel a return gift». Cfr. J. Milbank, The Transcendentality of Gift. A Summary, in Id., The Future of Love, cit., 352-363.

9 Cfr. J. Milbank - A. Pabst, The Politics of Virtue, 4.

10 Ivi, 5.

11 Cfr. J.-C. Michéa, L’empire du moindre mal. Essai sur la civilisation libérale, Éditions Flammarion, Paris 2010.

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