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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 22piana



pdf.pngSono molti i segnali (talora drammatici) che denunciano oggi l’aggravarsi, con un ritmo incalzante, del dissesto ecologico. Si va dall’accentuarsi di fenomeni devastanti come quelli provocati dal cambiamento climatico (uragani, mareggiate, piogge torrenziali che distruggono paesi e determinano la morte di non poche persone) al buco di ozono e allo scioglimento dei ghiacciai con il conseguente innalzamento degli oceani e dei mari, fino alla consistente consumazione delle risorse naturali (alcune delle quali non rinnovabili), che mette a serio repentaglio le possibilità di sopravvivenza delle generazioni future. Una situazione, dunque, devastante che esige interventi drastici (e immediati) che rendano possibile una vera e propria inversione di rotta.

Le ragioni di questo stato di cose sono molte. Ad essere avanzate dalla maggioranza degli scienziati e degli opinionisti sono in primo luogo le ragioni di natura tecnica legate a un processo di innovazione accelerato e incontrollato, che ha avuto (e ha tuttora) un peso determinante. I diversi interventi manipolativi messi in atto, soprattutto negli ultimi decenni, grazie anche alla disponibilità di strumenti sempre più sofisticati e pervasivi, hanno senza dubbio concorso a dare ai fenomeni ricordati una grande accelerazione. Ma questo non basta. Occorre risalire più a monte e interrogarsi sulle ragioni antropologiche (e teologiche) di tali processi; ragioni, che affondano le loro radici in un ethos culturale che chiama in causa la visione del rapporto uomo-ambiente in particolare nell’ambito della società occidentale.

 

I. Alla ricerca delle ragioni della crisi attuale

1.1 Un’antropologia dualista riduttiva

A questo aspetto di primaria importanza è dedicato questo breve saggio, che intende fornire elementi di riflessione, che vadano al di là di un semplice approccio fenomenologico per scavare in profondità nella mentalità e nel costume, che hanno costituito la base dell’utilizzo che si è fatto (e si fa) della tecnologia. Alcuni dei fattori infatti che hanno avuto (ed hanno) una considerevole rilevanza risalgono a molto indietro nel tempo, alle origini stesse del pensiero occidentale.

Il primo di questi fattori va senz’altro assegnato al dualismo antropologico e cosmico, che ha segnato di sé, in maniera trasversale, l'intera cultura europea, non esclusa quella dell’epoca moderna. A dare inizio a questo processo è stata anzitutto la filosofia platonica, con una radicale svalutazione della materia, e dunque del corpo, che appartenendo all’ambito materiale, viene considerato come “carcere” da cui occorre evadere se si vuole ricuperare la vera identità umana. Corpo e anima non sono qui soltanto separati, ma tra loro contrapposti. Il che si riflette anche sul mondo materiale, concepito come del tutto esteriore rispetto alla realtà più profonda della soggettività umana, e dunque relegabile al campo della oggettività con un carattere puramente strumentale.

La linea platonica si ripropone successivamente in un filone consistente della Patristica, dove si traduce in una rimozione della sessualità, e persino in una demonizzazione di alcune sue espressioni, fatto salvo il suo uso per esclusiva finalità procreativa. La grande Scolastica, con il contributo in particolare di Tommaso d’Aquino che sostituisce il platonismo con l’aristotelismo, supera (anche se non del tutto) la visione dualista, che riemerge tuttavia nella cultura moderna con Cartesio, il quale distingue nettamente la res cogitans dalla res extensa, mettendole tra loro in un rapporto puramente estrinseco; d’altronde, a sua volta, lo stesso Kant non esita a proporre la separazione tra “coscienza” e “mondo della vita”, restituendo, sia pure sotto forme diverse, centralità alla prospettiva dualista.

1.2 Il mercato come “pensiero unico”

Questa concezione, che riduce di fatto il corpo umano ad oggetto (il corpo che abbiamo e non quello che siamo) e, a maggior ragione, considera il mondo come semplice contenitore di risorse da sfruttare, si intreccia con l’affermarsi di una cultura economicistica – quella attuale – che fa della logica della produttività e del consumo il criterio di valutazione delle scelte umane, sia a livello individuale che collettivo e sociale. Il “mercato” senza regole, espressione di un neoliberismo selvaggio, acquisisce carattere rigidamente ideologico divenendo “pensiero unico” e permeando di sé tutti gli aspetti della vita. Gli ospedali che si trasformano in “aziende” e la scuola concepita in funzione esclusiva dell’inserimento nel mondo del lavoro, anziché conservare la dimensione di gratuità della cultura, sono gli indici più evidenti di un processo nel quale a contare è il “fare” e l’“avere” di più, e non l’“essere” di più.

Tutto questo si riflette, ovviamente, sul rapporto con la natura, ridotta a puro mezzo per conseguire un costante incremento produttivo, senza la dovuta attenzione alle ricadute negative, quali la crescita esponenziale dell’inquinamento e il consumo esorbitante di risorse limitate. L’allarme già segnalato per quanto sta avvenendo rende trasparente la gravità della situazione. D’altra parte, la crisi economica, iniziata nel 2007-2008 con la messa sotto processo della dell’economia finanziaria per il suo prevalere su quella produttiva, rende manifesto come il sistema in atto non sia soltanto economicamente ingiusto ma anche economicamente improduttivo – accanto alla crisi ecologica si assiste infatti all’aumento delle diseguaglianze sociali (tra nazioni, classi sociali, generazioni e genere) – e come si imponga di conseguenza l’esigenza di dare vita a un sistema alternativo.

1.3 L’ambivalenza dell’idea di “progresso”

Il concetto di “natura” come mero oggetto e la concezione economicistica dell’attività umana convergono nella concezione neoilluminista di “progresso” che, rifacendosi soprattutto alle enormi conquiste della scienza e della tecnica guarda con grande ottimismo a tutto ciò che costituisce una crescita delle possibilità dell’uomo di conoscere e dominare il mondo. In realtà, già il primo illuminismo aveva imboccato questa strada, riconducendo tutto alla ragione, cui venivano assegnati connotati onnicomprensivi e totalizzanti, sconfessando come magica e/o superstiziosa ogni forma di “mito” e la stessa religione, laddove non si lasciava ricondurre entro i limiti della ragione. La novità del neoilluminismo rispetto a questa interpretazione sta nel passaggio dal livello della pura conoscenza a quello della prassi, dal piano gnoseologico a quello etico. La ragione diviene in questo modo “ragione strumentale”, per la quale “conoscere è potere”, cioè intervenire, in maniera illimitata, sulla realtà per modificarla, con la convinzione che questo sia sempre positivo.

Il grave dissesto ecologico in corso e la pandemia da Covid-19, non ancora del tutto sconfitta, hanno assestato un duro colpo a questa forma di prometeismo, mettendo l’uomo di fronte alla propria fragilità e rendendolo edotto della strutturale ambivalenza degli interventi manipolativi da lui innescati. Ma questo, nonostante la ripetuta denuncia della tragicità di ciò che sta avvenendo da parte degli uomini di scienza, non sembra avere scosso finora le coscienze, spingendo operatori economici e politici ad imprimere un corso diverso al sistema e sollecitando il cambiamento degli stili di vita della popolazione. La società dei consumi o dell’“usa e getta” continua a produrre inquinamento ambientale e a sperperare risorse, considerando la natura come semplice “materiale” da usare senza riserve per la soddisfazione di bisogni spesso del tutto aleatori, talora persino alienanti, indotti dalla pressione sociale.

 

II.  contributo della tradizione ebraico-cristiana

2.1 Nell’orizzonte della rivelazione

La cultura europea (e più in generale occidentale) non è tuttavia espressione esclusiva del pensiero greco-romano, è anche (e a partire da un certo periodo soprattutto) frutto della tradizione ebraico-cristiana; o è, più precisamente, la risultante di una reciproca contaminazione delle due visioni dell’uomo e del mondo. Anche a proposito della questione ecologica la tradizione ebraico-cristiana ha offerto un contributo determinante alla interpretazione del rapporto uomo-natura con una chiave di lettura del tutto originale legata al contesto proprio della rivelazione.

Non sono mancati in passato (e tuttora non mancano) filosofi ed ecologisti che hanno attribuito a tale tradizione la colpa dell’attuale situazione di prevaricazione dell’uomo nei confronti della natura. L’aver introdotto nella cultura occidentale una visione evolutiva e dinamica della storia con una prospettiva finalista avrebbe per costoro dato il via a un processo di dominio dell’uomo sulla natura, che è sfociato poi, grazie all’innovazione tecnologica, nell’attuale dissesto ambientale. In realtà non è difficile rispondere a questa obiezione, risalendo – come si vedrà – ai testi biblici.

Merita di essere, a tale riguardo, ricordato (e non è cosa di poco conto) che non si trovano nella rivelazione termini come “natura” e “cosmo”, e che il termine con cui si designa il rapporto dell’uomo con la natura è quello di “creazione”, grazie al quale essa risulta in stretto rapporto con il Dio creatore. La realtà acquisisce a partire di qui il carattere di un tessuto relazionale, in cui la relazione fondamentale con il Signore conferisce fondamento alla relazione umana, facendo della realtà creata non un semplice oggetto esteriore (e dunque estraneo) all’uomo, ma concependola come fattore costitutivo della soggettività umana, e perciò come habitat dal quale può ricavare non solo elementi destinati a soddisfare i propri bisogni materiali, ma anche elementi che arricchiscono la sua identità spirituale. Il fenomeno della secolarizzazione rappresenterebbe, di conseguenza, a seguito della separazione della “natura” dal “divino”, uno dei motivi della sua oggettivazione, la quale è alla radice del suo sfruttamento incondizionato

2.2 Dal mistero della creazione la definizione di un equilibrio

L’idea di creazione, che è al centro della rivelazione veterotestamentaria, definisce poi, in maniera puntuale, il rapporto dell’uomo con la natura, evitando tanto il rischio di un naturalismo fissista quanto quello di un radicale riduzionismo culturale. L’ordine impresso da Dio nella creazione non consiste in un’armonia prestabilita e statica; ha un carattere dinamico, aperto all’intervento dell’uomo. Creazionale è infatti anzitutto l’atto originario divino che trasforma il caos in cosmos; ma creazionale è anche il processo successivo con il quale l’uomo agisce sulla realtà trasformandola secondo il disegno finalistico impresso fin dall’inizio in essa. Uscito dalle mani di Dio il creato è rimesso alle mani dell’uomo perché dia ulteriore forma a quel capolavoro incompiuto che va continuamente aggiornato e arricchito.

La conferma di questo rapporto dialettico viene poi dall’uso dei “verbi” con i quali i racconti della creazione descrivono la relazione che l’uomo deve intrattenere con la natura. Se il racconto sacerdotale usa il verbo “dominare” (Gen 1, 26 e 28), sottolineando il primato dell’uomo, quello dello jahvista, dove la natura è il giardino di Eden, introduce due verbi significativi “coltivare” e “custodire” (Gen 2, 15). L’immagine del giardino è illuminante, perché allude a una realtà che ha una configurazione precisa scaturente direttamente dal soffio divino, ma che ha bisogno di essere mantenuta in vita e migliorata dall’intervento umano. In quanto “custode del giardino” l’uomo è dunque all’apice della creazione, ma la sua centralità non implica l’esercizio di un’egemonia assoluta, bensì il riconoscimento di una particolare responsabilità da esercitare nei confronti dell’intera realtà creata, recando il proprio contributo all’edificazione della “comunione”, che è il cuore del progetto divino.

2.3 Dall’incarnazione all’escatologia

Il Nuovo Testamento non si discosta da questa visione; anzi la ripropone e la rafforza con il riferimento all’evento-persona di Gesù di Nazaret. La discesa di Dio nel mondo attraverso l’ingresso in esso del Figlio, che assume su di sé in maniera integrale la condizione umana, non esclusi gli aspetti di debolezza e di limitazione, non è soltanto un “sì” alla storia, che diviene, grazie all’avvento del Regno, “storia salvata”; è anche un “sì” alla natura, che viene liberata dalla soggezione al male, di cui “geme e soffre come sotto le doglie del parto” (Rom 8, 22) a causa del peccato dell’uomo. Il “farsi carne” del Figlio di Dio (“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, Gv 1, 14) significa pieno inserimento nel “tempo” e nello “spazio”, che divengono rispettivamente kairòs (“tempo opportuno”) e habitat (“spazio opportuno”) entro i quali si compie l’azione redentrice di Dio. Purtroppo la teologia occidentale, accentuando la dimensione storica del mistero dell’Incarnazione, ha dimenticato o quanto meno sottovalutato, quella spaziale, non prendendo fino in fondo in considerazione il qui e ora della discesa del Verbo, il fatto cioè che Egli sia entrato nel mondo in un contesto storico-sociale determinato ma anche in un ambito geografico circoscritto.

La teologia di Paolo si muove nella medesima direzione. Il tema della redenzione, che ha luogo attraverso il mistero della morte e della risurrezione di Cristo, viene interpretato da lui come una forma di liberazione da ogni schiavitù contratta dall’uomo – dal peccato alla legge fino alla morte (Rom 5-7) – ; liberazione che si estende dall’umanità alla natura senza soluzione di continuità. Dio che ha riconciliato a sé il mondo in Cristo (“2 Cor 5, 19) ci ha dato infatti la speranza “che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rom 8, 21). Si tratta dunque per Paolo di liberazione umana e cosmica, che ha inizio fin da quaggiù e che raggiungerà la pienezza nell’al di là. La naturale coniugazione con la “teologia del Regno” presente nei Sinottici e con il concetto giovanneo di “vita eterna” rende ulteriormente trasparente la verità di queste affermazioni. Il “già” e il “non ancora” del Regno dice di una trasformazione della realtà in atto nel presente, che avrà lo sbocco definitivo nella realizzazione dei “cieli nuovi” e nella “nuova terra” che ci attendono. Mentre, a sua volta, la “vita eterna” di cui parla l’apostolo Giovanni, già inaugurata dalla venuta di Cristo (Gv 5, 22), riceverà il suo compimento alla fine dei tempi.

La salvezza ha dunque un carattere universale e cosmico; coinvolge il nostro mondo soggetto fin d’ora ad un processo di trasformazione, che ha la sua radice nell’azione divina, ma che spetta all’uomo continuare mediante l’esercizio di una autentica responsabilità. Di qui l’invito a dare vita a una forma di missionarietà, che ha come oggetto l’annuncio della salvezza e la creazione delle condizioni perché essa si estenda “fino alla fine dei tempi” e “fino a i confini della terra”. L’escatologia cristiana è dunque incentrata su una concezione del tutto positiva del corpo dell’uomo – si pensi soltanto al dogma della risurrezione della carne – e del mondo materiale, derivanti dal soffio divino e destinati a partecipare alla pienezza della vita nel futuro del Regno.

 

III. La dimensione etica

3.1 Tra lavoro e contemplazione

Il ricupero della dimensione etica, i cui significati e le cui prospettive risultano già evidenti da quanto si è fin qui detto, deve partire dalla ricerca di un atteggiamento di equilibrio tra le due istanze che devono presiedere al rapporto uomo-natura e che vanno tra loro composte, sia pure in modo dinamico: il lavoro e la contemplazione. Il racconto della creazione di tradizione sacerdotale mette bene in evidenza l’intreccio della la “teologia dei sei giorni” con quella del “settimo giorno” in un processo evolutivo che culmina nel riposo del sabato, in quanto momento nel quale l’intera realtà “molto bella/buona” da lui creata diviene oggetto di rendimento di grazie. La natura non ci è data soltanto perché la trasformiamo attraverso il lavoro, ma anche (e soprattutto) perché la facciamo oggetto di crescita interiore.

La gioia della festa conduce alla scoperta delle ragioni ultime del nostro esistere; ci rende capaci di vivere con maggiore intensità il rapporto con gli altri e con le cose. In questo contesto non è difficile cogliere il respiro della bellezza che tutto avvolge: la meraviglia dei cieli, i quali narrano la magnificenza di Dio (Salmo 8, 2-4) e la grandezza di cui l’uomo è stato rivestito, acquisendo il potere sull’intero universo (Salmo 8, 5-10). La natura appare così in tutto il suo splendore in quanto opera divina e frutto del lavoro dell’uomo che, quando si sviluppa nel segno del disegno originario, la trasfigura rendendola più armoniosa e più accogliente.

3.2 La proposta della “ecologia integrale”

La possibilità di uscire dall’attuale stato di crisi, recuperando un rapporto equilibrato con l’ambiente come quello descritto passa attraverso – come ci insegna l’enciclica Laudato si – la messa in atto di una forma “ecologia integrale”, la quale esige di ripensare il rapporto tra ordine naturale e ordine sociale. Il presupposto di partenza è il superamento dell’attuale forma di “ragione”, quella strumentale già ricordato, per fare appello a una razionalità aperta e dinamica, la razionalità simbolica, in cui l’accesso alla realtà non avviene nel segno del dominio e del possesso, ma dell'accoglienza e della comunione. In questa ottica (e solo in questa) è possibile scoprire la natura in ciò che ha di più profondo, mai del tutto realizzabile, ma soprattutto in ciò che ad essa ci lega in quanto partecipi di un comune destino.

Questo orizzonte culturale ed etico che, che sta a fondamento di quella che papa Francesco non esita a denominare come “conversione ecologica” comporta l’adozione di una serie di iniziative di carattere sia strutturale che personale. In gioco vi è infatti, da un lato, il sistema economico dominante e, più radicalmente, il modello di sviluppo cui si è finora dato corso; dall’altro, lo stile di vita consumistico che ha caratterizzato (e caratterizza tuttora) la parte più ricca della popolazione mondiale.

Sul primo versante – quello strutturale – il concetto di “ecologia integrale” ci porta a considerare lo stretto rapporto esistente tra l’attuale dissesto ecologico e la situazione di disagio economico-sociale diffuso – le diseguaglianze sono enormemente cresciute coinvolgendo una parte consistente del ceto medio – e rende trasparente il cattivo funzionamento di un sistema che va radicalmente cambiato, poiché la crisi che viviamo – lo ha messo in luce una volta di più la pandemia – non è soltanto congiunturale ma strutturale e impone l’adozione di misure alternative.

Altrettanta importanza riveste il secondo versante, quello della scelta degli stili di vita personali e collettivi. La cultura consumistica cui si è già accennato, contrassegnata dal prevalere della logica quantitativa, implica, per essere bandita, una drastica inversione della direzione di marcia, riducendo i bisogni, evitando gli sprechi e ricuperando la virtù della sobrietà come via per cambiare la qualità della vita, nonché restituendo centralità alle relazioni umane e riscoprendo un rapporto armonico e pacificato con la natura e con il tempo.

Perché tutto questo si verifichi è necessario dare vita a un profondo cambio di mentalità e di costume – la conversione cui si è fatto riferimento – e poter contare su una classe di operatori economici e di politici capaci di guardare con lucidità in avanti e di avviare serie riforme in grado di modificare radicalmente il sistema attuale e di umanizzare, di conseguenza, gli assetti della convivenza civile.

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Albino Barrera OP  -  Stefano Menghinello  -  Sabina Alkire

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