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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

troiani

pdfNella tradizione europea cristiana circola, già prima dell’umanitarismo socialista arcaico, la convinzione che allo stato spetti l’obbligo di attrezzare una qualche forma di assistenza che tuteli i più indigenti (poveri, disoccupati) e fragili (bambini, vecchi, malati). Quando compare il marxismo, il dibattito sullo stato sociale e le politiche di sostegno alle fasce sfavorite della popolazione, si allarga agli ambiti di pensiero e azione politica ispirati alle idee di Karl Marx, sui due fronti che ne sono storicamente scaturiti: il rivoluzionario e il riformista. Nel pensiero di Marx, che le élite bolsceviche, fondatrici dei soviet e quindi dello stato dei soviet, dichiararono ispiratore della costruzione sovietica, il welfare non è elemento utile al successo della strategia disegnata nella cospirazione contro lo stato borghese. Lo “spettro che s’aggira per l’Europa”, il comunismo, non ha il compito di migliorare le condizioni dei proletari e dei lavoratori all’interno del sistema vigente, che va abbattuto, non riformato.

Coerentemente con i presupposti, il pensiero marxista e i partiti comunisti aderenti al Comintern e poi al Cominform, boicottano ovunque le politiche di welfare, definendo socialtraditori i partiti del riformismo socialista che le inseriscono nell’agenda politica dei paesi nei quali operano. Nel costruendo stato previsto dalla rivoluzione bolscevica, la dittatura operaia avrebbe risolto strutturalmente la questione delle politiche di sostegno al mondo del lavoro e ai meno favoriti, con un paradosso riassumibile nella formula: non si fa stato sociale, quando si è Stato sociale.

 

Il welfare del socialismo reale fino alla guerra mondiale

In barba alla lezione di Marx sull’economia come fattore di struttura, nell’Unione Sovietica di Lenin e del primo Stalin, si nega il ruolo delle imprese (è lo stato, cioè la politica, a fare impresa), ma anche del sociale: nel regime dove lo stato è padrone esclusivo dell’economia, lavoro e lavoratori assumono altra natura rispetto a quella che viene loro attribuita nell’economia capitalistica. Si adottano politiche di assistenzialismo e premi di produzione che premiano chi eccelle nelle competizioni di produttività (provvede il sindacato cinghia di trasmissione) e ortodossia politica (provvede il partito, guardiano della verità). Le poche misure sociali, introdotte in modo saltuario, riguardano specifiche categorie, da fidelizzare a seconda del barometro politico e delle necessità del momento: operai, ceto cittadino, quadri di partito o intellettuali pubblici. Artigiani, contadini, piccoli commercianti ne sono in genere esclusi. Si tratta di meccanismi politici a fini di consenso, non di stato sociale fissato dal diritto, anche se in talune fasi si hanno forme di welfare assimilabili a quelle praticate nell’occidente europeo.

È la natura dello stato sovietico a spiegare comportamenti che sembrano in contraddizione con le pretese ideologiche che l’hanno generato. Secondo economisti della peretrojka di Gorbachev, l’URSS ha espresso un’“economia di caserma” o “di comando” al servizio di un complesso militar-industriale che assorbiva in alcune fasi topiche della guerra fredda fino al 60% dell’economia complessiva, tagliando alla fonte la capacità di intervenire sui bisogni della popolazione, anche di quelli legati a salute e benessere (Aganbegyan, 1990).

Anche quando dalla decretazione d’urgenza dei primi tempi del potere bolscevico, si arrivò alla compilazione di “Codici” (del lavoro e della terra, ma anche della famiglia) formalmente molto avanzati, questi non avrebbero trovato capacità di applicazione. Già la carta costituzionale del 1918, smentiva ogni aspettativa di politiche sociali, escludendole dal testo. Il lavoro, elemento centrale di ogni welfare state, vi era rappresentato non come diritto ma come dovere. Al capitolo II, 3 f) si prevedeva: «Al fine di sterminare gli strati parassitari della società e di organizzare l’economia, viene istituito il servizio generale obbligatorio del lavoro». Il punto g) precisava: «Allo scopo di assicurare alle masse lavoratrici la totalità del potere e di eliminare qualsiasi possibilità di restaurazione del potere degli sfruttatori, viene decretato l’armamento dei lavoratori, la formazione di un’Armata Rossa Socialista degli operai e dei contadini e il disarmo completo delle classi possidenti». Militarizzazione senza diritti sociali quindi, con i bisogni del lavoratore subordinati a quelli dello stato.

Più avanti, gli effetti degli squilibri e dei colli di bottiglia generati da militarizzazione e piani quinquennali, ricadranno sui consumi privati e familiari, e sui beni sociali, politiche del welfare in primo luogo. Il fenomeno si aggraverà in taluni periodi, per difficoltà di carattere climatico (agricoltura) o lotte di potere (transizione post-staliniana) arrivando ai livelli drammatici degli anni della stagnazione brezneviana e del disfacimento dell’Unione. Il tempo d’anarchia che fa seguito allo scioglimento dell’URSS, nel dicembre 1991, con la fine della presidenza sovietica di Gorbachev e l’avvio della transizione al mercato da parte di Borís Nikoláevič Él'cin, saranno davvero pesanti in termini di welfare.

In minore sofferenza, nel corso dei decenni sovietici - non guardando per ora agli anni delle purghe staliniane, dove tutto si confonde nel segno dell’indecifrabile logica del dittatore – i segmenti di popolazione che convergevano sull’apparato di polizia e di sicurezza. Le garanzie retributive e di welfare dei due gruppi, ai quali si aggiungevano talune glorie di partito come artisti o scienziati, trovavano riscontro nell’elaborazione dei piani quinquennali. Dopo la parentesi NEP, la Nuova politica economica lanciata nel 1921 da Lenin, si costruirà una società che è stata definita “paracastale” (Sorba, 2002, p. 124), puntata sui privilegi di pochi e sulle ambizioni di potenza dello stato che una popolazione povera e sfruttata era chiamata a realizzare. Luciano Magrini, testimone della nascita dell’URSS, così sintetizzò il tragico risultato di quell’opera: «si voleva giungere alla proletarizzazione del contadino e si è conseguito il risultato opposto: si è contadinizzato il proletario» (Magrini 1920, pp. 111-112).

Quando passa ad analizzare le cure adottate dal partito per rispondere a una crisi già allora devastante, Magrini parla di “militarizzazione” della mano d’opera, utilizzando, curiosamente, gli stessi termini che saranno ripresi settant’anni dopo, dagli economisti della perestrojka: «il comitato centrale del partito comunista ha accettato una serie di provvedimenti destinati ad imprigionare il lavoro nella militarizzazione. Così … la Russia viene trasformata in una grande caserma» (Magrini, p. 125).

Su quel primo periodo della storia sociale sovietica, realizza approfondita analisi Dorena Caroli, coprendo gli anni 1917-1939. All’indomani della presa del potere bolscevico, «la rete delle casse previdenziali territoriali introdusse un sistema … che copriva anche le famiglie dei lavoratori e che fu caratterizzato dalla progressiva centralizzazione di una parte dei fondi previdenziali» (Caroli, 2015, p. 25). Nei primi anni trenta, si optò per un sistema che spostava le prestazioni previdenziali e sociali dentro l’organizzazione aziendale, spacchettando in una miriade di Unioni professionali i sindacati, anche per gli aspetti della gestione previdenziale. Per decreto del luglio 1933, il comitato di fabbrica e industria iniziò a funzionare anche come centro di pagamento dell’assicurazione sociale. Permaneva il meccanismo adottato nella prima fase del potere bolscevico, quando si era scelto di attribuire privilegi specifici ai pochi operai specializzati che potevano far ripartire la macchina della produzione bloccata dalla guerra. Lo stato dell’utopia comunista aveva aderito a un sistema previdenziale di tipo corporativo, riguardante i settori produttivi strategici e riservato di fatto ai soli livelli alti e specializzati di tecnici e classe operaia, facendo passare attraverso disposizioni amministrative e piccole riforme previdenziali l’allocazione di risorse per altri settori produttivi e i contadini poveri, misure poco pubblicizzate e ampiamente disattese, specie nella periferia.

All’interno di un sistema palesemente ingiusto si producevano fenomeni di marginalità e devianza sociale di una certa rilevanza, ai quali non si prestava molta attenzione1. I centri di riferimento delle politiche assistenziali e previdenziali allestite negli anni trenta (Direzione centrale dell’assicurazione sociale, Amministrazione principale dell’assicurazione sociale, Casse assicurative locali, istituti di sanità pubblica) non cambiarono la sostanza delle cose, essendo collocati dentro le strutture delle grandi aziende. Su tutto aleggiava la mano attiva dello stalinismo, con la marcia forzata verso l’industrializzazione pesante, attraverso un rivolgimento dell’economia che mai previde politiche sociali adeguate. Nei fatti erano sostituite dalla gestione triangolare partito industrie e sindacato, salvo che lo stato si riservava mutamenti di rotta repentini e arbitrari come quelli adottati durante la grande crisi innescata dal ’29 statunitense, letta a Mosca come l’ennesima operazione di accerchiamento capitalistico. Per sconfiggere in un decennio i paesi capitalisti, nel 1931 Stalin introdusse ovunque il salario a cottimo e ulteriori incentivi per l’autosfruttamento. Si era all’abbandono, anche in via ufficiale, dei principi previdenziali universali enunciati da Lenin, sostituiti da misure come: razionamento alimentare (dal 1928 al 1935), istituzione del passaporto per i trasferimenti interni (senza propiska – alla lettera “registrazione” – di residenza e permesso di soggiorno, non si poteva più traslocare), unione di Commissariato del popolo per il lavoro e Centrale sindacale nella gestione delle Casse assicurative (1933). Lo stato sociale in URSS alla fine del 1932, così trova descrizione: «Questa profonda degenerazione degli scopi dell’assicurazione sociale mostra che quest’ultima divenne un’arma di controllo capillare e di discriminazione spietata anziché uno strumento di solidarietà volto ad attutire i rischi sociali provenienti dal lavoro e dalle trasformazioni economiche» (Caroli, p. 177).

Le cose non vanno meglio dal lato dei diritti, a cominciare dal principio della libertà individuale di mutare impiego, fondamento di ogni legislazione lavorista, che viene negato, mentre al tempo stesso si ha accanimento verso lavoratori che si assentino dal lavoro senza giustificazione.

Dovendo colpire tutti e ovunque, Stalin colpì anche il lavoro, varando, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, nel 1938, leggi che ufficializzarono l’URSS come un immenso campo di concentramento lavorativo, con il sindacato decapitato al vertice e strozzato alla base2. Il welfare, in particolare la previdenza sociale, finisce nelle mani dei cosiddetti soviet della previdenza sociale. Nelle grandi fabbriche si costituiscono commissioni di reparto dell’assicurazione sociale (Caroli, p. 274).

Gli anni di guerra rafforzano la sindrome sovietica dell’accerchiamento capitalistico e, almeno in parte, motivano tre leggi fondamentali sul lavoro, nelle date 26 giugno, 2 ottobre e 19 ottobre 1940. Alcuni contenuti sono utili all’analisi sulla evoluzione dello stato sociale in Unione Sovietica, in particolare quanto previsto dalla legge del 2 ottobre sulle riserve di manodopera per l’industria statale, nel legame permanente tra scuola, occupazione e residenza. Ai cittadini si assegna uno status per via amministrativa, che, salvo rarissime eccezioni, non sarà possibile alterare per l’intera vita. La successiva normativa del 19 ottobre, riguardante il trasferimento per decisione amministrativa non si distacca dal filone repressivo: chi si opponesse alle tipologie di lavoro qualificato lì elencate (tessile, alimentare, elettrico, ferroviario), sarebbe passibile delle pene previste per i reati di abbandono del lavoro.

Gøsta Esping-Andersen (1990, pp. 26-29) evidenzierà come l’URSS, al di là di quanto dichiarava, manifestasse una natura fortemente conservatrice, adottando comportamenti non dissimili da quelli di regimi reazionari come regno d’Italia, Austria e Reich tedesco. E così milioni di lavoratori e operai, immiseriti dalla mancanza di lavoro, da retribuzioni e assegni sociali irrisori, annessi alla categoria degli antipartito, dei boicottatori del comunismo, dei sabotatori della patria e della sua economia; non finire nel gulag con milioni di altri sventurati era già un buon risultato in quella situazione.

 

Lo stato sociale sovietico dagli anni di guerra alla perestrojka

Alla morte di Stalin, nel 1953, le condizioni di vita della famiglia sovietica media erano peggiori di quelle di 25 anni prima. Nei decenni successivi i salari subiranno vari adeguamenti, purtroppo poco risolutivi sul benessere della popolazione anche perché, nei cicli economici messi in moto dai piani, all’accresciuta massa monetaria resa disponibile non corrispondeva un’adeguata offerta di beni e servizi di benessere e consumo, mentre si creavano mercati paralleli in valuta dove affluiva di tutto.

The peculiarity of this system was that even though the Soviet ideological principles of universal welfare protection and equal access to welfare services were not forgotten, they were obviously secondary to the drive of Soviet industrialisation. Guided by the logic of industrialisation, the government offered special privileges to certain groups of the population (Maltseva, 2012, p.110).

Molto, al welfare e più in generale al lavoro sovietico, era venuto dagli anni di Khrushchev, stimolato, più di Stalin, dai contenuti del rapporto Beveridge (Caroli, 2015, p. 38). Nelle riforme, di Kosygin e Breznev, cominceranno a praticarsi i principi dell’universalismo e dell’egalitarismo, alla base del piano di assicurazioni sociali presentato alla camera dei Lord dal liberale Beveridge. Quelle novità tenderanno a radicarsi negli ambienti popolari e di lavoro, creando aspettative che peseranno nel dopo comunismo. Si manifesta anche in URSS il fenomeno delle aspettative crescenti, caratteristica universale delle popolazioni nell’ultimo quarto del XX secolo. Nel 1977 la riforma costituzionale, che soppianta la costituzione staliniana del 1936, aggiunge, ai vigenti diritti al welfare, il diritto alla casa e all’accesso alla cultura. Si spiega anche con questo bisogno tutto politico del nuovo “scambio” tra domanda del regime (obbedienza, conformismo, acquiescenza) e sua offerta (sufficienza economica e stato sociale), il fatto che la società sovietica venisse aperta allo stato sociale da Khrushchev, con la fornitura, da parte dei soggetti pubblici, di una vasta gamma di servizi, impensabili in epoche precedenti: abitazioni popolari, pensioni minime, scolarizzazione e sanità gratuite e universali. In particolare i lavoratori dell’industria riterranno di godere, certamente più che nel passato, di un’adeguata rete di welfare. Nel 1956 è pubblicata la legge sulle pensioni che ne estende il diritto e rende minima la differenza di trattamento tra impiegati ed operai; nel 1964 la sicurezza sociale viene finalmente attribuita anche a chi lavora nelle aziende agricole collettivizzate, cominciando a rivedere una delle maggiori ingiustizie perpetrate dalla storia sovietica, quella verso i contadini e i lavoratori della terra. Nel 1967 a questi saranno dirette ulteriori misure di allineamento sociale, in particolare abbassando l’età di pensionamento (1967), consentendo il congedo pagato per ragioni di salute (1970), equiparando le regole per il pagamento delle pensioni (1971). Era come se comparisse, nel cosmo ideologico sovietico, la stella che illuminava la povertà e l’ingiustizia sociale. Il trentennio 1960-1980 può, a ragione, essere identificato come quello di maggiore impegno sovietico per la protezione sociale. Benefici andarono al sistema di istruzione e di sanità, alla cura della famiglia e dell’infanzia. Furono accresciuti i trasferimenti diretti agli indigenti, ai fragili. Lo stato iniziò a farsi carico dei disabili, dei marginali, dei mutilati (protesi e riabilitazione, sanatori, carrozzine e altri trasporti, appartamenti attrezzati). Il passaggio da “operaio sfruttato per la gloria dello stato” a cittadini con diritti, fu evidente.

E tuttavia quel welfare continuava ad essere ben inferiore, in termini assoluti e comparati, con il livello raggiunto nei paesi non comunisti, come evidenzia la seguente tabella (Kornai, 1992, p. 314). La spesa sociale sovietica, in termini percentuali sul Pil, è superata persino da quella statunitense, fanalino di coda tra i membri Ocse, per ciascuna delle tre voci individuate e per totale.

 

Spesa sociale: confronto fra 10 paesi, 1976 (consumi collettivi in % del Pil)

  Istruzione Salute Welfare Totale
Paesi socialisti  
Bulgaria 3,9 3,1 10,3 17,3
Cecoslovacchia 3,9 3,8 16,3 24,0
Rep. Dem. Tedesca 4,9 5,1 11,7 21,7
Ungheria 3,4 5,3 11,6 20,3
Polonia 3,2 3,3 7,1 13,6
URSS 3,7 2,6 9,3 15,6
Paesi OCSE  
Austria 4,6 4,6 21,1 30,3
Italia 5,0 6,1 14,8 25,9
USA 5,0 2,9 11,3 19,2
Germania 3,8 5,1 20,6 29,5

 

Nonostante il livello relativamente basso, le prestazioni dello stato sociale nell’area europea del socialismo realizzato non avrebbero trovato modo di poter essere garantite nella fase più accentuata del declino sovietico, e sarebbero diventate impensabili nel pieno della transizione alla società post-sovietica, in specie durante le privatizzazioni selvagge della presidenza di El’cin negli anni novanta.

Già con le riforme di Gorbachev, nella fase della transizione che porterà alla rottura del patto costituzionale e alla frantumazione del territorio sovietico in più repubbliche sovrane, si era avuta l’espulsione di personale sovrabbondante dai grandi complessi industriali. Mancherà, nella svolta non solo imprevista ma non preparata in quanto a risposte sociali, la necessaria tutela, con il risultato che la transizione delle repubbliche già sovietiche al mercato assumerà costi umani spaventosi. Si è calcolato che le retribuzioni salariali ancora nel 2000 si collocassero al 7,75% del minimo vitale (Caroli, 2015, p. 325), un livello che nei territori ex sovietici nessuno stato sociale sarebbe stato in grado di riposizionare se non con politiche di sussistenza e assistenziali in senso stretto.

Inevitabile che nei territori già sovietici, le classi di età e i ceti che erano stati investiti positivamente dallo stato sociale, rimpiangessero quelli che oggi possono apparire come “privilegi perduti”, con riferimento specifico a misure come il reddito minimo e le pensioni di vecchiaia, goduti da molti alla vigilia del coma di regime. I cittadini sovietici si erano accomodati in un sistema paternalistico di dignitosa povertà collettiva, che garantiva stabilità di reddito e capacità di programmare la propria vita individuale e familiare, tra istruzione pubblica, sicurezza del posto di lavoro, qualche privilegio (le vacanze e qualche viaggio, ad esempio, e le prime automobili private), la pensione.

Lukashenka in Bielorussia, Putin in Russia, hanno solidificato il consenso ponendolo in sintonia con l’antico metodo sovietico che promette potenza allo stato e livelli sufficienti di sicurezza sociale ai cittadini. Non casualmente i loro governi si comporteranno all’unisono nell’aggressione all’Ucraina del 2022.

La tabella elaborata da Linda J Cook (2007, p. 7) ha riassunto, attraverso la combinazione di due parametri (livello di liberalizzazione e sforzo di welfare), come siano andate le cose nel primo quindicennio di transizione, con un reciproco paragone che riguarda anche alcuni paesi chiavi delle privatizzazioni nel centro Europa.

 

Risultati contrastanti delle politiche di welfare nella transizione postcomunista (1990-2004)

Paesi Federazione Russa Polonia, Ungheria Kazakhstan Bielorussia
Risultati Liberalizzazione ritardata Liberalizzazione graduale Liberalizzazione rapida Nessuna liberalizzazione
  Sforzo di welfare basso Sforzo di welfare moderato Sforzo di welfare basso Sforzo di welfare moderato
 

 

Fonte: Cook, 2007, p. 6

 

Dal che si evidenzia come il migliore welfare tra i cinque, appartenga, in quella fase, al paese, la Bielorussia, che pur non avendo promosso liberalizzazioni, figura a pari merito con Polonia e Ungheria. Precisando come quelle situazioni si siano generate e quali settori se ne siano avvantaggiati nei rispettivi paesi, l’autrice costruisce un’esaustiva panoramica, dalla quale si estrae la tabella seguente, dedicata in particolare all’evoluzione, tra la fine dell’URSS e il 2002, di tre indizi di welfare: sanità, pensioni, istruzione.

 

Spesa pubblica 1990-2002, % Pil: salute, istruzione, pensioni

Paese Settore 1989-1992 1998 2002
Polonia Sanità 4,8 4,2 4,7
Istruzione 5,4 5,3 6
Pensioni 8,7 12,8 11,2
Ungheria Sanità 6,4 5,2 5,5
Istruzione 6,6 4,8 6
Pensioni 10,5 7,5 7,6
Russia Sanità 2,5 2,5 2,3
Istruzione 3,6 3,6 3,7
Pensioni 5,0 6,4 7,3
Kazakistan Sanità 4,4 3,5 2,0
Istruzione 4,0 - 3,0
Pensioni 8,2 - -
Bielorussia Sanità 5,3 5,6 5,0
  Istruzione 4,7 2,0 6,8
  Pensioni 5,4 7,7 -
  Fonte: rielaborazione da Cook, 2007, p. 211.



 

Giudicando il caso bielorusso, rispetto a quelli degli altri paesi in tabella, la ricercatrice scrive, evidenziando la debolezza della società rispetto al potere, e l’autonomia decisionale di questo:

La Bielorussia apparentemente contraddice la teoria che attribuisce rilevanza all’indirizzo politico, mantenendo uno stato sociale ampio e uno sforzo di welfare comparativamente forte a dispetto della debolezza dell’influenza della società (Cook, p. 8).

Il maggiore peso della figura presidenziale e della macchina burocratica, rimasti praticamente intatti e monolitici durante la transizione, avrebbe favorito un rendimento dello stato sociale più favorevole alla popolazione. Un’affermazione che trova conferma anche nei dati di seguito riportati, organizzati dall’autrice attraverso una serie di fonti. La Bielorussia aveva un tasso di povertà del 48% nel 1998, ridotto al 21% nel 20023. Per la stessa voce il Kazakistan nel 2002 era a 71%, la Russia al 41%, la Polonia al 27%, l’Ungheria al 12%. La disoccupazione in Bielorussia tra il 1998 e il 2002 era passata dal 2,3% al 3%; per la stessa voce il Kazakistan nel 2002 era al 9,3%, la Russia al 7,9%, la Polonia al 19,9%, l’Ungheria al 5,1%. (Cook, p. 194).

 

La condizione sociale in Bielorussia

Nel paragone con l’attuale Russia, risulta che la Bielorussia guadagna in termini di benessere materiale, ma condivide il conculcamento delle libertà personali e politiche4. In questo modo la repubblica quasi baltica e già sovietica, si aggiunge alle esperienze, tipicamente asiatiche, di regimi politici che hanno contribuito al benessere materiale dei cittadini pur continuando a privarli di libertà basilari. Interessante che il paese, secondo Banca Mondiale denunci un tasso di povertà (0,5%), comparabile con quelli della regione scandinava e nord europea, inferiore a quello di ogni paese post-comunista membro dell’UE, e a quello medio dell’UE che si attesta al 2,9% nel 2020. I servizi sociali e il welfare, anche per i non lavoratori come i pensionati e le famiglie, sarebbero di livello conseguente. Così l’assistenza ospedaliera. Una situazione che spiegherebbe l’affermazione di Vitali Silitski, già nel 2005 quando risultava ormai evidente la non modificabilità a breve termine, del sistema di potere strutturato da Alyaksandr Lukashenka:

The Belarusian leader’s authority is based not only on outright repression, however, but also on a fairly high level of popular backing. His flamboyant autocratic style finds favor with a vast constituency of rural and elderly voters still nostalgic for the communist era; [...]; and his economic policies provide for a fair degree of social cohesion (Silitski, p. 85).

Alla luce di questa constatazione, si pone la questione del rapporto tra stato del benessere inteso essenzialmente come benessere materiale e assicurazione contro il bisogno (disoccupazione, malattia, vecchiaia, etc.), e benessere come godimento anche delle libertà spirituali. Si dà soddisfazione ai diritti economici, sociali e culturali, diritti umani della seconda generazione, ma si negano quelli di prima generazione riguardanti i diritti civili e politici elaborati già nel XVII e XVIII secolo. Se i diritti di seconda generazione sono forniti dallo Stato e fanno parte per certi versi del suo spazio di autonomia decisionale, i primi no: appartengono agli esseri umani, sono inalienabili e difendono la libertà individuale contro le invadenze e gli eccessi del potere statale. Non casualmente sono chiamati “diritti libertà”: toccano l’eguaglianza di tutti davanti alla legge, la sicurezza personale, la protezione contro l’arbitrio, il diritto di proprietà privata, le libertà di fede e di opinione.
Un esempio di dove abbia condotto il metodo Lukashenka sta nel trattamento riservato ai sindacati. Nella prima fase della transizione sorsero forme di organizzazioni rappresentative e rivendicative dei lavoratori che si andarono a sommare alle strutture ufficiali esistenti: organizzarono le proteste e presentarono proposte dei ceti lavoratori, ma né le une né le altre ebbero lunga vita, finendo fuori legge. Il commento di Cook (2007, p. 206) è in linea con la tesi qui raccolta: «Benché abbia mantenuto un welfare state ampio, il governo bielorusso non negoziò con gli interessi sociali né modificò le spese sociali in risposta ai bisogni sociali». In Bielorussia dovrebbero essere rispettati e praticati ambedue le categorie di diritti.

 

Luigi Troiani

 

 

Fonti e riferimenti bibliografici

Aganbegyan Abel (1990), Verso una stabilità politico-economica in URSS, «Impresa&Stato», n. 12, pp. 22-24.
Caroli Dorena (2015), Un Welfare State senza benessere, Insegnanti, impiegati, operai e contadini nel sistema di previdenza sociale dell’Unione Sovietica (1917-1939), Macerata, Eum.
Chauvier Jean-Marie (1974), La condizione operaia nell’URSS, «Mondoperaio», XXVII, 1, pp. 67-105.
Cook Linda (2007), Postcommunist Welfare States, Reform Politics in Russia and Eastern Europe, Ithaca and London, Cornell University Press.
Esping-Andersen Gøsta (1990), Three Worlds of Welfare Capitalism, Cambridge, Polity Press.
Graziosi Andrea (2002), L’evoluzione dei “diritti sociali” in URSS (1917-1956), in Carlotta Sorba (a cura di), Cittadinanza. Individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea. Atti del convegno annuale SISSCO (Padova, 2-3 dicembre 1999), Roma, Ministero per i Beni e le Attività culturali.
Kornai János (1992), The Socialist System: The Political Economy of Communism, Princeton, Princeton University Press.
Magrini Luciano (1920), Nella Russia bolscevica, Milano, Società Editoriale Italiana.
Maltseva Elena (2012), Welfare Reforms in Post-Soviet States: A Comparison of Social Benefits Reform in Russia and Kazakhstan, A thesis submitted for the Degree of Doctor of Philosophy, Department of Political Science University of Toronto.
Sierakowski Slawomir (2020), Belarus Uprising: The Making of a Revolution, «Journal of Democracy», XXXI, 4, pp. 5-16.
Silitski Vitali (2005), Preempting Democracy: The Case of Belarus, «Journal of Democracy», XVI, 4, pp. 83-97.

 

NOTE:

1 Crescendo abbandonata a sé stessa, l’infanzia si era trasformata in molte aree dell’Unione in bambini e adolescenti senza fissa dimora, proclivi a delinquere anche a scopo di sopravvivenza. «Si sparsero per il paese», né le riforme sociali colsero la natura del problema, producendo «un occultamento progressivo dei problemi sociali da parte del Partito Comunista che li fece scivolare lentamente dalla sfera della politica sociale a quella della politica penale» (Caroli, 2015, p. 26).
2 Gli anni ’30 sono il picco della ferocia staliniana anche in Bielorussia. Come in altre situazioni non si dispone di numeri esatti, ma si ritiene in genere che tra il 1917 e il 1953 il piccolo stato slavo abbia pagato al potere sovietico tra 600.000 e 1.400.000 vittime. Come l’Ucraina, la Bielorussi ha sofferto anche un alto numero di kulaki e loro famiglie, uccise o deportate in numero di almeno due centinaia di migliaia di persone.
3 In nota ai dati che fornisce, Cook precisa quanto segue. Per tasso di povertà s’intende la percentuale di popolazione sotto il $PPP, all’epoca $ 4,3 al giorno. I dati bielorussi sulla disoccupazione sono basati sulla disoccupazione ufficialmente registrata e non sono considerati comparabili a quelli di altri paesi.
4 Il Pil pro capite calcolato in PPP rispettivo è nel 2020, secondo Banca Mondiale, US$ 4.021,73 per la Russia e 19.759 per la Bielorussia. Nel confronto con il 2017 il tasso di crescita è superiore in Bielorussia: in quell’anno la Russia esprimeva valore 3.818,78 e la Bielorussia 18.287. Per un ulteriore, utile, confronto, si noti che il dato bielorusso corrisponde a più del doppio di quello riscontrabile in qualunque altro paese post-sovietico non appartenente alla UE. Ad esempio, è il doppio di quello ucraino, che si aggira intorno ai 10.000 dollari (Sierakowski, 2020). Per ogni eventuale ulteriore confronto, si acceda a https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.PCAP.PP.CD?locations=CN-IN.

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