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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

paparupdfLe categorie classiche di dittatura e totalitarismo non costituiscono strumenti adeguati ad analizzare in profondità e definire la realtà politica bielorussa. Infatti, nonostante gli evidenti e preponderanti tratti autocratici, dispotici, del regime Lukashenko – in Bielorussia vige, almeno formalmente, un sistema “democratico”, nonostante si tratti di una democrazia vuota, priva di un reale ed effettivo pluralismo. Inoltre, se storicamente quello dittatoriale, totalitario, si è configurato come sistema di governo che accentra il potere in un solo partito, e dunque nelle mani del suo leader, il dittatore, bisogna prendere atto che Lukashenko non sia mai stato legato, durante i suoi ventisette anni di potere ininterrotto, a nessun partito politico, fazione o clan. Dunque, la Bielorussia non è governata da un regime monopartitico, bensì da un sistema almeno formalmente pluralistico consistente – seppur in astratto – in una competizione tra partiti (almeno ufficialmente contrapposti) che si realizza attraverso cicli elettorali temporalmente regolari.

Allora, se il regime Lukashenko sfugge alla tradizionale categoria di dittatura, esso si può altrimenti definire, dalla mia prospettiva, come un particolare risultato dell’evoluzione del post-totalitarismo, ossia di quel regime ibrido che risulta dall’intersezione tra dittatura e democrazia e che, nel panorama del pensiero politico, è stato tematizzato per la prima volta in modo esaustivo da Vaclav Havel ne Il potere dei senza potere (Havel, 2013).

 

1 Il post-totalitarismo secondo Havel

Nel libro del 1978 Václav Havel coglie una relazione mimetica tra la società capitalista e quella comunista. Dalla sua prospettiva, quelle appaiono come due forze, due differenti manifestazioni dello stesso sistema di potere che Havel definisce con il termine “post-totalitarismo”. Anteponendo alla parola “totalitarismo” il prefisso “post”, egli indica la nuova forma di dittatura che si afferma nel blocco sovietico nell’epoca post-stalinista, e che in quanto tale si distingue dai regimi dittatoriali classici.

Di solito il sistema di governo del nostro paese viene caratterizzato come “dittatura” – la dittatura di una burocrazia politica su una società livellata. Io temo che già questa definizione, benché per altri versi comprensibile, finisca per confondere più di quanto chiarisca il reale carattere del potere in questo sistema. Che cosa ci richiama tale concetto? Direi che nella nostra coscienza è tradizionalmente legato all’immagine di un gruppo determinato e relativamente ristretto di persone che in un paese si impadronisce con la forza del potere di governare sulla maggioranza della società, fonda apertamente il proprio potere sui diretti strumenti autoritari di cui dispone e in modo relativamente facile si può distinguere socialmente dalla maggioranza dominata. Questa idea tradizionale della dittatura è caratterizzata dal postulato della sua provvisorietà, della sua precarietà e instabilità storica; la sua esistenza si presenta strettamente legata alla vita delle persone che l’hanno instaurata; di solito si tratta di un fatto di portata e di significato locali e, per quanto una simile dittatura si legittimi con l’una o l’altra ideologia, trae il suo potere soprattutto dal numero e dall’equipaggiamento dei soldati e dei poliziotti (Havel, 2013, p. 32).

Per comprendere meglio in che modo il post-totalitarismo si distingue dal totalitarismo, dalla dittatura classica, possiamo mettere in comunicazione Havel con Carl Schmitt. Assumendo il punto di vista schmittiano potremmo definire la dittatura come il risultato di un’evoluzione della sovranità che caratterizza lo Stato moderno. In altre parole, la dittatura che si manifestata alla storia nel secolo scorso può essere compreso, in quest’ottica, come una riconfigurazione della sovranità moderna, che in quanto tale è caratterizzata da una certa tendenza, un certo orientamento verso la dittatura (Schmitt, 2006, p. 33).

Dunque la dittatura è legata, e limitata, al territorio su cui un certo Stato esercita la propria sovranità, che consiste nel monopolio, in un certo perimetro territoriale, sulla legge e sulla forza. Allora, come dice Havel, essa è un fenomeno locale, relativo esclusivamente al territorio di un certo Stato nazionale. Inoltre, il sistema dittatoriale classico è, sempre da un punto di vista schmittiano, costitutivamente legato alla persona del dittatore, alla sua volontà, alla sua “decisione” (e la decisione è sempre del singolo), ossia alla sua posizione di eccezionalità – di eccedenza rispetto alla norma che egli pone, ma da cui è al tempo stesso immune (Schmitt, 2020, pp. 61-74). È in questo senso allora che, come abbiamo già letto, la dittatura è «strettamente legata alla vita delle persone che l’hanno instaurata». Nella visione schmittiana, il tratto distintivo del potere dittatoriale è l’eccezionalità. La dittatura trova la sua condizione di possibilità nello “stato di eccezione”, dove il dittatore, o il ristretto gruppo di persone con cui quello gestisce il potere, “eccede” la legge, che è immune rispetto ad essa, ma soprattutto che questo può imporre la propria norma solo a partire da un originario stato di caos, da una situazione eccezionale che esiga e giustifichi l’incontestabile applicazione e osservanza della norma che quello pone. La dittatura classica, dunque, trova il suo originario fondamento nel caos. È per questo che a essa è connaturata un’intrinseca «provvisorietà, precarietà e instabilità» (Havel, p. 32).

Al contrario, il potere sovietico post-stalinista – post-totalitario – è completamente svuotato di qualsiasi contenuto personale. Questa impersonalità del potere ha una radice “spaziale”: rispetto alla dittatura classica che presenta una natura locale, il (post-)totalitarismo comunista assume connotati “globali”. Infatti, a partire da un centro originario – la Russia sovietica – esso si propaga lungo un’area geografica di immense proporzioni, replicandosi fino a svuotarsi di identità e a generare un potere anonimo, nel cui contesto i leader agiscono come mere funzioni prive di volontà individuale, al servizio di un sistema che si alimenta da sé stesso (Havel, p. 50). Ora, proprio grazie a questa “anonimità”, il potere post-totalitario riesce a pervadere ogni lembo della vita umana, manipolando la vita stessa in profondità, fino ad anestetizzare ogni sua possibilità di eccedenza, di trascendenza rispetto al sistema (Havel, p. 51).

Ma in che modo un simile potere senza volto riesce a insinuarsi totalmente nella vita umana? Qual è lo strumento della sua assoluta pervasione? Lo strumento è qui un’ideologia che subisce la stessa mutazione spaziale di questo totalitarismo di forma nuova, di questa dittatura globale. Il messaggio ideologico, infatti, diffuso, riprodotto lungo un vasto territorio, viene completamente sradicato dalla vita reale dei singoli cittadini, e conseguentemente si riduce a slogan vuoto, rituale meccanico.

Quest’ultimo non pretende dall’individuo, così come invece accade nella dittatura classica, nessuna partecipazione personale, ma solo un’accettazione esteriore, un rispetto meramente formale dei codici dell’autorità. Al potere non interessa che l’individuo sia interiormente convinto del messaggio ideologico che recepisce e che deve contribuire a disseminare. L’individuo deve solo vivere nella menzogna ideologica, nonostante sia consapevole che si tratta di una menzogna. Deve solo partecipare al gioco ben sapendo che si tratta di un gioco, e dunque senza contestare le regole prefissate. Ovvero, il cittadino non ha, non deve avere, nessuna coscienza del meccanismo di potere a cui partecipa (Havel, pp. 34-49). In questo scenario depoliticizzato, l’interesse del singolo individuo si focalizza esclusivamente sul vantaggio personale, sui bisogni e sui desideri privati. Più precisamente, è il potere stesso che, per mantenere e sviluppare un controllo sempre più esclusivo e sempre più totale del campo politico distoglie l’attenzione dei cittadini dalla sfera pubblica, spostandola verso quella della loro privatezza. Conseguentemente, questa fissazione nel desiderio personale genera e alimenta, inevitabilmente, la tendenza alla ricerca della soddisfazione materiale e la conseguente diffusione di un consumismo di matrice occidentale, verso cui il regime post-totalitario incanala le energie personali per sottrarle alla sfera politica (Havel, 2013: 7).

 

2 Il post-totalitarismo nella prospettiva di Juan J. Linz e Alfred Stepan

Per approfondire la definizione della categoria di post-totalitarismo prenderò come principale punto riferimento il lavoro di Juan J. Linz e Alfred Stepan, che nel volume intitolato Problems of Democratic Transition and Consolidation offrono quella che fino ad oggi è forse la più completa analisi del post-totalitarismo, sia nell’ambito della scienza politica che in quello degli studi storici.

In generale, un regime post-totalitario si distingue da un sistema totalitario nella misura in cui esso presenta, rispetto al secondo, un limitato pluralismo sociale, culturale ed economico (ma non politico) che si struttura sotterraneamente rispetto al potere statale. In altre parole, se il totalitarismo soffoca completamente ogni possibilità per l’articolazione di un’opposizione un sistema post-totalitario è tale nella misura in cui concede, per scelta o per declino, lo spazio sociale per lo sviluppo di un’alternativa al regime. Una simile alternativa cresce in modo sotterraneo, fino a emergere poi quasi in superficie, per strutturarsi come vera e propria società parallela rispetto agli apparati del partito che continua, almeno formalmente, ad esercitare il monopolio totale sul potere (Linz, Stepan, 1996, p. 44).

Con la fine dell’epoca staliniana, la maggior parte di quelli che allora erano i regimi dei paesi comunisti dell’Europa orientale e centro-orientale convertirono, attraverso vie e modalità differenti, la loro struttura totalitaria in un sistema post-totalitario. Si evince, dunque, che il post-totalitarismo è originariamente radicato nel sistema totalitario e si manifesta come risultato dell’evoluzione e dell’adattamento di quello ai mutamenti epocali determinati dalla fine dello stalinismo e alle nuove dinamiche sociali di cui quei regimi fecero esperienza. Il post-totalitarismo, quindi, è un fenomeno politico evolutivo, che dunque è mutato per adattarsi al nuovo ambiente socio-economico-culturale aperto dal collasso dell’ex Unione sovietica e dalla transizione democratica dell’ex blocco comunista.

Quella post-totalitaria è, secondo Havel, una società prodotta dall’incrocio tra una struttura politico-economica di natura statalista e un modo di essere nel mondo di matrice individualistico-capitalista. Invece, dalla loro prospettiva di politologi, Linz e Stepan, individuano il tratto distintivo del post-totalitarismo, rispetto al sistema totalitario, nel pluralismo. Ossia, i due considerano la democrazia ibridata con la dittatura proprio alla luce del concetto di democrazia rappresentativa, ossia in base all’idea liberale della democrazia come sistema finalizzato alla rappresentazione parlamentare ad una gamma più vasta possibile di condizioni socio-economiche e di culture politiche. In quest’ottica, quella post-totalitaria è vista come una società totalitaria la cui struttura chiusa è incrinata e dunque in qualche modo aperta da una tendenza pluralistica che conduce all’articolazione di una più meno trasparente o clandestina opposizione sociale (ma non politica), la quale a sua volta trascina lo Stato verso il passaggio a una forma democratica di governo. Dunque, se Havel, nella sua posizione di dissidente e oppositore del regime comunista cecoslovacco, coglie per lo più l’aspetto decadente e soffocante del post-totalitarismo, Linz e Stepan, osservando il post-totalitarismo da una prospettiva post-comunista, si soffermano sul suo rovescio, cogliendone la portata pluralistica e rappresentandolo dunque come una necessaria fase della transizione democratica. Infatti, approfondendo il concetto di “polis parallela” esposto dallo stesso Havel in Il Potere dei senza potere, i due colgono nel sistema post-totalitario un costitutivo spazio di pluralismo ‒ che a sua volta si afferma come invariante del fenomeno post-totalitario e quindi come unità di misura di diversi livelli di post-totalitarismo. Più precisamente, essi definiscono il post-totalitarismo sulla base di quattro fattori fondamentali: pluralismo, ideologia, leadership e mobilitazione. Tra questi, il pluralismo si afferma come fattore primario, il fattore da cui dipende la variazione del post-totalitarismo in tre diversi gradi. È classificabile come «post-totalitarismo precoce» quel regime che rimane molto simile all’idealtipo totalitario, pur differendo da esso in virtù di qualche limite posto nei confronti del leader. Invece, in quei regimi dove, nonostante la presenza di una certa dose di pluralismo e di critica civile, il potere statale rimane monolitico, inscalfibile e capace di esercitare un controllo altamente pervasivo abbiamo per lungo tempo un «post-totalitarismo congelato», ossia un sistema post-totalitario che non riesce ad evolvere verso la dimensione democratica, cristallizzandosi, dunque, nel suo sostrato totalitario. Infine, abbiamo a che fare con un «post-totalitarismo maturo» lì dove si verificano significativi cambiamenti, in prospettiva pluralistica e democratica, a vari livelli del regime e dove la «polis parallela» si consolida sempre di più fino a manifestarsi alla società e alla cittadinanza come credibile e legittima alternativa politica.

 

3 Il post-totalitarismo di Lukashenko.

A prima vista, gli studi più accreditati dedicati alla Bielorussia di Lukashenko sembrano sconfessare la mia tesi, collocando il regime Lukashenko sotto la categoria di autoritarismo: il libro firmato da Andrew Wilson nel 2021 – sebbene ricorra impropriamente, a mio avviso, alla categoria di dittatura – dedica ben due capitoli al processo e alle tappe attraverso cui Lukashenko e il suo circolo di potere hanno costruito, secondo la prospettiva dell’autore, uno stato autoritario; invece, l’importante lavoro di Matthew Frear (2020) definisce il regime bielorusso come un esempio particolare di “autoritarismo adattativo”. In realtà, le analisi che definiscono il regime di Lukashenko in termini di autoritarismo non negano la validità della proposta avanzata da questo studio. Piuttosto, esse rappresentano per esso degli indispensabili punti di riferimento. Infatti, con questo lavoro intendo dimostrare, più precisamente, che il regime Lukashenko costituisce un caso particolare di un più generale processo di mutamento attraverso cui il sistema post-totalitario, a partire dal collasso dell’impero sovietico, si fonde con quello autoritario.

Ora, è nel campo economico che dobbiamo cercare le prove dell’anima post-totalitaria del suo regime.

Se con il concetto di post-totalitarismo Havel indica l’era post-staliniana della dittatura sovietica e se la civiltà consumistica è ovviamente la civiltà partorita dal capitalismo occidentale, allora il sistema economico dell’ordine post-totalitario visto da Havel non può essere che una forma di capitalismo di Stato.

Il capitalismo statale di epoca leninista-stalinista innescò un processo di accumulazione di capitale, con la conseguente affermazione di una classe capitalista di stato, che era privilegiata nel godimento di comfort e beni di lusso inaccessibili alla classe lavoratrice. Ciononostante, quel capitalismo di stato predilesse sempre la produzione e la commercializzazione dei beni strumentali (mezzi di produzione) rispetto a quella di quei beni di consumo concepiti per soddisfare il bisogno individuale di benessere. Infatti, se il modello stalinista aveva avuto qualche successo nella creazione di una «terza era» dell’economia industriale, esso non riuscì o non volle mai adattarsi alla «quarta era», quella delle automobili, degli elettrodomestici e dei servizi con i quali coccolare e viziare la massa lavoratrice (Chirot, 2005, p. 24). Invece, a partire dagli anni sessanta i leader sovietici esortarono i paesi est-europei a recuperare il ritardo industriale ed economico nei confronti del mondo capitalista agganciandosi al mercato occidentale (come poi la Cina fece sistematicamente a partire dal 1978). Ciò comportò il ricorso a finanziamenti esteri per acquistare tecnologia avanzata e per rivenderla poi al mondo occidentale al fine di ripianare il debito.

Tutto questo provocò un’inevitabile crescita dei prezzi, che a sua volta contribuì e generare visibili ineguaglianze sociali tra un ristretto gruppo di imprenditori e il resto della popolazione.

Pur non riuscendo a superare le rigidità del modello stalinista ancora intrinseca agli apparati economici dei paesi comunisti, questi tentativi di riforme pro-mercato iniettarono nel tessuto sociale di quei paesi un’ampia dose di individualismo, di corruzione e di idee e attitudini consumistiche proprie al mondo capitalistico occidentale (Chirot, p. 26).

Ebbene, questo processo riformatore non ha in fondo prodotto i risultati di crescita economica sperati dalle leadership comuniste. Tuttavia, esso ha, da un punto di vista antropologico, impresso uno slancio decisivo alla diffusione nel mondo sovietico, comunista, di quell’individualismo deresponsabilizzante e atomizzante che Havel stesso coglie come preminente cifra morale e politica del post-totalitarismo.

Ora, il collasso dell’Unione Sovietica e la fine dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est hanno innescato una diffusione planetaria dell’economia consumistica e finanziaria, che si è ineluttabilmente radicata anche in quei paesi dove il ruolo dello Stato è ancora forte e dove il livello di welfare state è ancora più alto rispetto al mondo occidentale. A partire da ciò, si potrebbe concludere che l’odierno capitalismo di stato abbia una natura fondamentalmente post-totalitaria.

Date queste premesse, è possibile avanzare la seguente ipotesi: se in Bielorussia si può individuare una forma moderna di capitalismo di stato, allora il regime Lukashenko può essere collocato sotto la categoria di post-totalitarismo.

 

4 Welfare e capitalismo di Stato in Bielorussia

La Bielorussia gode di un welfare state tra i più avanzati a livello globale. Al contrario di molte economie di transizione, essa è riuscita a sviluppare un estensivo sistema di sicurezza sociale (Korosteleva, 2007, pp. 231-232). Un simile livello di protezione sociale ed eguaglianza è il risultato di un rigido e capillare controllo statale della vita economica del paese.

All’inizio della sua carriera presidenziale, tra il 1994 e il 1995, Lukashenko voleva a tutti i costi apparire come un riformatore. Così, seguendo la scia del processo di liberalizzazione intrapreso nel 1992 dalle élite al potere egli sembrò, nei primi mesi successivi alla sua elezione, proseguire sulla strada delle riforme pro libero mercato. Lukashenko aveva vinto le elezioni da outsider proponendo il progetto di unificazione tra Bielorussia e Russia come uno dei pezzi forti della sua campagna elettorale populista. Inizialmente, dunque, egli avallò il processo di liberalizzazione con il reale obbiettivo di allettare la Russia liberista di Boris Eltsin (Wilson, p. 169).

La vocazione liberista di Lukashenko ebbe però vita breve. Infatti, dopo questo primo periodo di infatuazione per l’economia di mercato egli comprese che la sua base sociale più forte era costituita principalmente da pensionati e da lavoratori agricoli, che non esitarono a protestare per i primi aumenti dei prezzi dei beni di prima necessità. Così al fine di preservare quella base, e per non sgretolare il potere che stava costruendo, egli fece repentinamente marcia indietro abbandonando i propositi di riforma e le prospettive liberiste appena aperte (Wilson, p. 170). Inoltre, dopo la svolta autoritaria impressa dai referendum del 1995 e del 1996, Lukashenko individuò in una politica economica socialmente orientata il mezzo più efficace per guadagnare il consenso e la fedeltà popolare e, conseguentemente, per proteggere e consolidare il suo potere e quello delle élite del suo regime (Korosteleva, 2007, p. 223). Così, dopo più di dieci anni di transizione, la Bielorussia si affermò come una delle economie meno trasformate di tutta l’area post-sovietica e post-comunista, con solo il 25 per cento del PIL proveniente dal settore privato (Korosteleva, p. 223; Lawson, 2018, p. 126; Wilson, p. 240). Lo Stato sviluppò un pervasivo controllo e un’articolata regolazione dell’economia con interventi che si estesero ad ogni possibile campo dell’economia.

In un simile quadro economico, l’impresa privata è stata sistematicamente minata, soffocata e dunque assorbita dall’organismo statale. Dopo il 1995, infatti, l’originario programma di privatizzazione si trasformò in un più modesto piano di parziale decentralizzazione, che consistette nel trasformare le imprese statali in società per azioni in cui lo Stato conservava una quota di maggioranza, o almeno superiore al 25 per cento. Ciò garantì allo Stato stesso un illimitato diritto di veto su ogni decisione riguardante la vita delle società (Korosteleva, p. 225).

Accanto a questo meccanismo di privatizzazione centralizzata, il regime ha strutturato un sofisticato sistema burocratico di autorizzazione statale per la nascita di nuove aziende, che si è rivelato uno strumento di limitazione dell’impresa privata, e di conseguente neutralizzazione di potenziali rivali dello Stato in campo economico. (Frear, p. 49; Korosteleva, p. 226).

Ebbene, se la politica di Lukashenko possiede i caratteri del capitalismo di Stato, possiamo dedurre, allora, che in Bielorussia vige un ordine dal carattere post-totalitario. Infatti, nell’era del mercato globale, ovunque (fatta salva forse qualche eccezione) il capitalismo di Stato non può conservare l’originaria natura leniniana e staliniana, e dunque assume inevitabilmente i tratti consumistici e individualistici del capitalismo occidentale, determinando conseguentemente quell’intersezione tra statalismo e civiltà dei consumi che risulta, come abbiamo appreso da Havel, nel post-totalitarismo.

Nella misura in cui neanche il capitalismo di Stato bielorusso è immune da fattori tipici della civiltà dei consumi, è possibile affermare che il regime Lukashenko costituisca una forma di post-totalitarismo, o meglio un caso particolare del mutamento del post-totalitarismo successivo alla fine del mondo sovietico e comunista: l’ordine di Lukashenko potrebbe essere definito come l’effetto di un incrocio tra post-totalitarismo e autoritarismo.

A questo punto, è proprio dalla definizione lukashenkiana dell’economia bielorussa come “economia sociale di mercato” che possiamo e dobbiamo muovere per fare luce sul livello di compromissione del capitalismo di Stato bielorusso con il capitalismo di marca occidentale, il capitalismo globale e finanziario, e per fare dunque luce sulla natura post-totalitaria dell’ordine politico e sociale stabilito da Lukashenko. L’economia sociale di mercato prevede, in contrapposizione rispetto al liberalismo classico del laissez-faire, uno Stato forte, orientato a proteggere il mercato dalla voracità dei monopoli e dalla speculazione finanziaria. In nessun modo, tuttavia, essa promuove una pianificazione economica centralizzata o una politica statale interventista (Felice, 2008 pp. 22-23). È per questo che non è corretto sussumere sotto quel paradigma la politica economica di Lukashenko, che piuttosto si rifà alla summenzionata «economia socialista di mercato» di matrice cinese. Quest’ultima consiste in un sistema ibrido in cui la pianificazione statale si combina con il libero mercato, che a sua volta conserva inevitabilmente tratti e tendenze del mondo occidentale, capitalista, in cui originariamente sorge e continua a espandersi. Pertanto, lungi dall’essere alternativo al capitalismo, lo Stato bielorusso, così come quello cinese, si fonde in realtà con esso, se ne appropria e lo gestisce, lo influenza, lo manipola. E impossessandosene, dirigendolo, esso assimila, rielabora e diffonde, lungo i diversi strati dell’economia e della società, gli elementi più propriamente utilitaristici ed edonistici ‒ consumistici ‒ insiti nello stesso capitalismo, anche laddove quest’ultimo sia “di Stato” (Kurlantzik, 2016).

Se ci chiediamo in che modo il regime Lukashenko sia riuscito negli anni a sostenere l’alto livello di welfare e di dirigismo statale, scopriamo che la pianificazione centralizzata dell’economia e la solida protezione sociale sono state alimentate, in realtà, dai profitti che il regime ha ottenuto grazie alle sue relazioni con il mercato globale, dal quale ha inevitabilmente assimilato elementi di liberismo e pratiche di limitazione dei diritti dei lavoratori.
Innanzitutto, l’economia di Minsk, così come l’intera economia mondiale, è inevitabilmente legata al credito estero, e dunque alle logiche finanziarie del capitalismo globale. I finanziamenti elargiti dalla Russia costituiscono il 40% del debito estero bielorusso, mentre il secondo maggiore finanziatore è la Cina, nei cui confronti la Bielorussia ha accumulato il 26% del suo debito. Nel 2019, i principali investimenti stranieri arrivavano dalla Russia (44,2%), poi dal Regno Unito (19,7%), Cipro (6,6%), paesi che registrano una significativa presenza di capitale russo (Cadoppi, 2020, p. 84).

La Federazione Russa agisce come il principale investitore straniero in Bielorussia; più precisamente, il suo investimento può essere considerato come l’originaria condizione di possibilità delle efficienti politiche sociali bielorusse. Cioè, il regime Lukashenko è riuscito negli anni a garantire un alto livello di welfare-state all’interno grazie alle relazioni finanziarie e commerciali intrattenute, all’esterno, con la Russia, e grazie ai vantaggi che, in virtù di queste stesse relazioni, la Bielorussia ha potuto ottenere dal mercato globale.

Inizialmente, la pianificazione dell’economia bielorussa fu resa possibile per lo più grazie a una serie di strategici favori economici concessi dalla Russia alla Bielorussia. In effetti, lo scambio commerciale con la Russia si intensificò notevolmente durante il primo periodo della presidenza Lukashenko. Nel corso del tempo, poi, la Bielorussia definì un doppio modello di export dipendente dalla Russia: quello industriale e agricolo diretto verso la Russia e quello di materiale grezzo diretto verso l’Unione Europea, ma favorito da una produzione a basso costo resa possibile, a sua volta, dall’acquisto di energia russa a prezzi assai convenienti. Inoltre, il successo di questa attività di export rese possibile lo sviluppo di una nuova economia di consumo, che diede frutti fino allo scoppio della crisi economia del 2008 (Wilson, p. 241).

Accanto al gas anche il petrolio ha giocato un ruolo decisivo. Infatti, con Lukashenko la Bielorussia si è affermata, tra il 2003 e il 2006, come uno Stato offshore del petrolio grazie a uno schema che ha garantito un enorme quantità di profitti: la Bielorussia riceve greggio dalla Russia ad un prezzo molto basso, lo raffina e riesce a realizzare un guadagno altissimo grazie alla vendita, a tariffe assai competitive, del prodotto raffinato sul mercato europeo e mondiale (Cadoppi, p. 85; Wilson, p. 245). Nel tempo, un simile schema ha garantito a Lukashenko un ingente quantità di denaro cash utile ad accontentare le élites e a finanziare la sua politica economica fatta, come sappiamo, di semi-pianificazione e di elevata protezione sociale (Wilson 2021, p. 245). È stato così, allora, che lo statalismo bielorusso si è incontrato e si è compromesso con il capitalismo globale, generatore inarrestabile di consumo e di diseguaglianze. È proprio sulla base di questa intersezione che, proprio come accade in Cina e del resto nell’intero mercato mondiale, in Bielorussia sono state create delle zone speciali dove gruppi multinazionali, provenienti soprattutto dal nord Europa, possono agire liberamente in deroga alla legislazione nazionale.

Dal mercato globale lo statalismo bielorusso non poteva non importare, assimilare, la vocazione liberista alla violazione dei diritti dei lavoratori, violazione che in un contesto autoritario viene esacerbata e perfezionata dalla violenza di brutali metodi repressivi. Infatti, nel corso degli anni di presidenza Lukashenko, l’Organizzazione internazionale del Lavoro ha più di una volta denunciato gli abusi sui lavori perpetrati in Bielorussia. Non possiamo fare a meno di soffermare lo sguardo sulla dura repressione subita da quei lavoratori bielorussi che nel 2020 hanno preso parte alle proteste contro il regime. Molti sono stati picchiati, perseguitati, arrestati e licenziati per aver partecipato alle manifestazioni seguite alle elezioni manipolate di quell’agosto.

L’implicazione della centralizzante autorità statale bielorussa con settori del capitalismo globale, consumistico, costituisce, se osserviamo tutto ciò da una prospettiva haveliana, il nucleo post-totalitario del regime politico bielorusso. Tuttavia, se il regime Lukashenko è post-totalitario lo è in quanto effetto di un processo di mutamento che ha condotto lo stesso sistema post-totalitario a combinarsi con quello autoritario. Più precisamente, potremmo concludere che il sistema post-totalitario, il quale è già in sé stesso un fenomeno ibrido ed evolutivo, è evoluto verso un secondo grado di ibridazione, quella tra esso stesso (che è totalitarismo comunista combinato alla democrazia capitalista) e la gestione autoritaria del potere. E allora la Bielorussia di Lukashenko può essere compresa come un caso particolare di quest’evoluzione, di questa nuova intersezione.

 

 Riccardo Paparusso

 

 

 

Fonti e riferimenti bibliografici

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