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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

salvioli


pdfIl 24 febbraio, con l’invasione militare dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, il conflitto che da otto anni lacera il Donbass ha assunto proporzioni tali da prefigurare lo scoppio di una terza guerra mondiale. Passando dalla tragedia alla farsa, il dibattito italiano allestito da quotidiani e talk shows ha dato spesso il peggio di sé, quanto a diffusione di altezzose caricature, diffamazioni sfacciate e palesi strumentalizzazioni, Queste note sono rivolte pertanto a coloro che, frastornati e offesi dall’indecente gogna mediatica a cui sono state costrette le ragioni della pace, cercano strumenti filosoficamente fecondi per elaborare un pensiero alternativo al reiterato, e quantomai banale, marketing delle propagande. Può quindi essere utile rileggere alcuni scritti di Paul Ricoeur contenuti in Histoire et Vérité, dedicati alla questione essenzialmente politica del potere, con l’intento di mettere in luce le dinamiche storiche della violenza e della non-violenza, in ordine alla promozione della pace1. Il contributo che intendo qui riproporre al lettore è stato originariamente pubblicato nel fascicolo di Esprit dedicato alla Révision du pacifisme del febbraio 1949, una collocazione che appare retrospettivamente significativa, in quanto si colloca grossomodo tra l’assassinio del Mahatma Gandhi (30 gennaio 1948) e la firma del trattato istitutivo della NATO (4 aprile 1949). L’articolo di Ricoeur L’homme non violent et sa présence à l’histoire segue ai forse più noti contributi Le pacifisme des forts di Frank Emmanuel, rappresentante del Cartello internazionale della pace, e soprattutto Les équivoques du pacifisme di Emmanuel Mounier. A quell’epoca si trattava soprattutto di rivedere l’impegno per la pace, dopo le conseguenze tragiche della Conferenza di Monaco (1939), alla luce di due impulsi fondamentali: da un lato, occorreva inquadrare il “pacifismo” all’interno di una lettura realistica della storia senza spegnere cinicamente il suo costitutivo anelito ideale (escatologico o utopico, che dir si voglia) e, dall’altro, bisognava valorizzare l’efficacia costruttiva di quest’engagement tanto esigente, quanto irrinunciabile. Per disinnescare le differenti caricature, Ricoeur procede quindi dalla convinzione previa sul «valore possibile» delle «forme non-violente di resistenza» – ispirata dal Discorso della montagna (Mt 5,1-7,28) – al fine di ragionare sulle condizioni che permettono di inserirle effettivamente nella storia. L’incarnazione storico-pratica dell’ideale della non-violenza costituisce la caratteristica più evidente di quello che definirei, appunto, pacifismo «difficile»2.

 

1. La prima condizione per sviluppare una teoria-prassi della non-violenza consiste nell’assumere uno sguardo sulla storia che sia, ad un tempo, realista e critico. Ogni movimento pacifista che non dovesse maturare questa consapevolezza rimarrebbe bloccato ad uno stadio «puerile». Il primo sintomo di questa superficialità consiste spesso nel far coincidere la violenza con una delle sue forme, per opporvisi ostinatamente. Secondo Ricoeur, invece, per convincersi che «la violenza sia da sempre e dappertutto, non c’è che da guardare a come si edificano e crollano gli imperi, si stabilisce il prestigio personale, si dilaniano l’un l’altra le religioni, si perpetuano e si dislocano i privilegi della proprietà e del potere, a come poi si consolida l’autorità dei maîtres à penser o i godimenti intellettuali si appoggiano sui dolori e sulle fatiche dei diseredati». Un’«anatomia della guerra», in altri termini, dev’essere inserita nel più vasto orizzonte costituito da una «fisiologia della violenza»3. A sua volta, quest’ultima è costituita da un primo livello in cui viene messa in luce il dinamismo psicologico che – in determinate condizioni critiche, come l’invasione della patria – volge l’affettività umana verso quello che Ricoeur chiama «terrible», ossia verso quel potenziale distruttivo alimentato dalla pulsione di morte che si esprime nell’«appétit de catastrophe». Questo processo regressivo trova una prima condensazione intersoggettiva nelle reazioni ideologizzanti per cui i valori più alti vengono asserviti alle passioni più divisive, le lingue e le culture divengono strumenti per separare gli uomini anziché arricchirli reciprocamente nello scambio dialogico ed anche Dio stesso – mentre l’opinione pubblica viene orientata alla distruzione, come tutto si potesse risolvere attraverso la moltiplicazione degli armamenti in capo – viene arruolato dall’una e dall’altre parte. Per elaborare un’analisi adeguata alla storia, in cui la violenza opera in modo costitutivo, occorre tuttavia guadagnare un punto di vista ulteriore capace di comprendere il modo in cui il campo di forze psichiche si dispone in forme sociali che manifestano quelle che Ricoeur – con riferimento all’analisi marxista della lotta di classe – chiama «les structures du terrible». È qui che il pacifismo inizia a mostrarsi “difficile”, proprio a fronte del riconoscimento della dialettica per cui – non potendosi dare pace, senza giustizia – la violenza delle strutture oppressive produce incessantemente nuove rivolte violente. «A questo livello», osserva Ricoeur, «il terribile diventa storia al tempo stesso in cui la storia, in forza del pungiglione del negativo, si nutre del terribile»4. L’ultimo stadio dell’analisi ricoeuriana verte sullo Stato, in cui la violenza può conoscere la massima intensità, senza per altro esaurire in sé stesso il livello precedente5. Se le forme della politica regolano la ricerca e il conferimento stesso della legittima sovranità, cui spetta l’esercizio del potere, nel momento in cui due o più volontà sovrane si trovano a disputarsi un medesimo obiettivo o ancor più quando l’esistenza stessa di uno Stato è concretamente minacciata «la violenza prende la figura della guerra»6. Finalmente palesatasi come forza che mira più o meno esplicitamente alla morte dell’altro, la violenza si manifesta a questo livello come il principale modo in cui la storia fatta dagli uomini procede e cambia. La difficoltà del pacifismo consiste allora nell’abitare il concreto corso della storia, nella consapevolezza di provenire «da altrove», trascendendolo attraverso il giudizio ed opponendovisi eticamente. Sostenuta dal fine dell’amicizia possibile tra gli uomini, l’impegno per la pace si esprime nell’indignazione costruttiva di chi opera per delegittimare il ricorso alla logica della violenza e farne cessare l’esercizio: «La storia dice: violenza. La coscienza s’alza in piedi e dice: amore»7.

 

2. La seconda condizione riguarda l’indifferibile questione relativa all’efficacia della non-violenza. Alla luce del realismo critico ricoeuriano, la proposta di questa via risulta tanto più persuasiva quanto più si è in grado di mostrare che – agendo in conformità ad essa, senza limitarsi a contenere una forma di violenza favorendone altre per eterogenesi dei fini – è possibile imprimere un cambiamento concreto alla storia. La prima modalità attraverso la quale la non-violenza raggiunge una certa efficacia consiste nella testimonianza, attraverso la quale un uomo tra gli altri compie un gesto ben riconoscibile che «sospende» il destino apparente rappresentato dai corsi e ricorsi storici della violenza. Quest’atto coraggioso possiede di per sé un fascino tale da persuadere gli altri che un cambiamento è possibile, per quanto – non avendo la possibilità di misurarne l’efficacia – l’innesto dell’atto personale nel farsi stesso della storia resta certo un’eventualità in cui credere e sperare, che in nessun caso può tuttavia esser confusa con una mera velleità. «Agendo non solamente in direzione dei fini umanistici della storia – in vista della giustizia e dell’amicizia – ma», chiosa Ricoeur, «per mezzo della forza disarmata di questi fini, [il non-violento] impedisce alla storia di svolgersi e di ricadere. È la controparte di speranza della contingenza della storia, d’una storia non garantita»8. Avendo valorizzato l’impegno personale e testimoniale, al di là di ogni concezione deterministica della storia, viene esplorata la possibilità che si formi un vero proprio movimento di resistenza non-violento, la cui forza collettiva potrebbe avviare effettivamente un processo di riorientamento storico. Il riferimento a Gandhi diviene qui esplicito, proprio laddove Ricoeur insiste sull’esercizio di un’azione politica che coniughi intrinsecamente, nel vivere la resistenza e la disobbedienza civile, «una spiritualità e una tecnica»9. La non-violenza manifesta, a questo livello, tutta la sua forza dando vita ad esperienze capaci di integrare il piano dei fini e quello dei mezzi in un’azione che risulta ad un tempo storica ed etica, efficace nell’edificare soluzioni pacifiche agli inevitabili conflitti socio-politici.

 

3. L’ultima condizione considerata da Ricoeur procede dalla considerazione, piuttosto realistica, dei limiti della resistenza non-violenza. Il primo di essi riguarda la negatività costitutiva di questa teoria-prassi delle relazioni interpersonali e la problematicità che ne consegue nel momento in cui si tenta di passare all’azione costruttiva positiva, col rischio di reintrodurre – a dispetto delle migliori intenzioni – la logica dell’oppressione. Il secondo limite della non-violenza riguarda il fatto che essa appartiene all’«ordine del discontinuo» e all’«ordine del gesto», esprimendosi pertanto nel breve termine. Il bisogno di azioni di più ampia durata per incidere sull’andamento della storia, al di là delle risposte che la resistenza non-violenta offre a fronte di concrete situazioni conflittuali, richiede in terzo luogo che essa entri in dialogo con l’azione politica che opera sul piano istituzionale. In questo senso, per Ricoeur, «i non-violenti devono essere il nucleo profetico dei movimenti propriamente politici, vale a dire focalizzati su una tecnica della rivoluzione, della riforma o del potere»10. Ed è qui che si manifesta con più veemenza la distanza di più di settant’anni che ci separa dalla pubblicazione di questo pur stimolante contributo. Se Ricoeur scrive in un tempo determinato dalla forza trainante dei partiti politici, oggi – in Italia forse più che altrove – queste organizzazioni conoscono una crisi talmente pervasiva da renderli pressoché incapaci di contribuire a custodire la qualità della vita democratica. Lacerati dalla latitanza delle grandi narrazioni moderne e feriti in radice dall’iperindividualismo delle società occidentali, che tende a separarli dalle masse popolari, i partiti risultano a loro volta inefficaci nell’orientare l’azione politica in senso costruttivo. Ridotti a clubs in cerca di un consenso per rappresentare reti di interessi più o meno orientate, i partiti politici appaiono in realtà sempre più eterodiretti da forze non sempre evidenti all’opinione pubblica. Questa situazione di debolezza non solo impedisce alle principali organizzazioni politiche di ospitare il nucleo profetico non-violento di cui scriveva Ricoeur, ma porta gli osservatori più attenti ad interrogarsi sulla loro effettiva capacità di agire politicamente per fare la storia. Chi sono oggi gli attori politici collettivi in grado di imprimere una svolta al corso degli eventi? In che modo, oltre a quello innegabile della guerra, esercitano la violenza per raggiungere i propri scopi? Qual è, infine, il livello di permeabilità di tali apparati rispetto alla questione eminentemente etica della fraternità tra gli uomini e dell’amicizia sociale? Solo dopo aver cercato di rispondere a queste domande, sarà possibile ripensare la collocazione politica dell’impegno, ancor sempre difficile, per la pace.

 

 Marco Salvioli

 

NOTE:

1 Cfr. P. Ricoeur, Histoire et Vérité, Éditions du Seuil, Paris 19673. Per un inquadramento dei temi in esame nell’arco dell’ampia produzione ricoeuriana, si vedano L. Alici, Il paradosso del potere. Paul Ricoeur tra etica e politica, Vita e Pensiero, Milano 2007 e V. Brugiatelli, Potere e riconoscimento in Paul Ricœur, Tangram Edizioni Scientifiche, Trento 2012.
2 Cfr. P. Ricoeur, L’homme non-violent et sa présence à l’histoire, in Id., Histoire et Vérité, cit., 265-277: 265. L’aggiunta dell’aggettivo “difficile” per caratterizzare le posizioni del filosofo francese risale al fortunato saggio di D. Jervolino, L’amore difficile, Studium, Roma 1995. Al riguardo, cfr. anche A. Caputo, Ricoeur lettore dell’Amore difficile. In dialogo con Domenico Jervolino, «Critical Hermeneutics. Biannual International journal of Philosophy» II, 2 (2018), 177-203.
3 Ivi, 267.
4 Ivi, 268.
5 Per un indispensabile approfondimento che qui non possiamo offrire per motivi di spazio, si veda innanzitutto P. Ricoeur, État et violence, in Id., Histoire et Vérité, cit., 278-293 e – più recentemente – Id., Potere e violenza, «Filosofia politica» XV, 2 (2001), 181-198.
6 Id., L’homme non-violent et sa présence à l’histoire, in Id., Histoire et Vérité, cit., 269.
7 Ivi, 271.
8 Ivi, 272.
9 Ivi, 273.
10 Ivi, 276.

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