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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 piana



pdfLa questione ecologica ha assunto ai nostri giorni connotati drammatici, che non lasciano ben sperare per il futuro. Il segnale più evidente di questa preoccupante situazione sono i cambiamenti climatici in corso, che risultano ogni anno più consistenti – si pensi soltanto allo scioglimento dei ghiacciai, ai nubifragi, agli tsunami e ai vari cataclismi che mettono a serio repentaglio la vita di intere popolazioni. L’entità del fenomeno e il ritmo accelerato con il quale viene sviluppandosi – la crescita è in proporzione geometrica – rendono trasparente la necessità di riflettere sulle responsabilità dell’uomo e di individuare le misure da assumere per il suo contenimento.

La religione ebraico-cristiana è stata (ed è tuttora) considerata, soprattutto da parte di alcuni antropologi culturali, come una delle cause principali dell’attuale dissesto. Ad essa si addebita un’idea di progresso indefinito, motivato tanto da una visione dinamica e lineare della storia in opposizione alla visione ciclica propria del mondo greco-romano – è sufficiente ricordare qui il mito dell’eterno ritorno e la lettura fatalistica degli eventi umani – quanto dall’imperativo del dominium terrae, presente nei testi della creazione (Gen 1, 26) e confermato in seguito da gran parte dei testi del Testamento ebraico e di quello cristiano.1

 

Un mondo da custodire

02 piana 1Ma è proprio così? In realtà i testi della Genesi non presentano mai il rapporto dell’uomo con il mondo – il termine usato non è in realtà mai “mondo” o “natura” ma “creazione” ad indicare lo stretto rapporto di dipendenza dal Creatore – secondo un modello di dominio assoluto e incondizionato; adottano invece verbi come “coltivare” e “custodire” (Gen 2, 15) che istituiscono un rapporto equilibrato tra il rispetto del dato originario e la possibilità dell’intervento umano. Il concetto di creazione è infatti un concetto “aperto”: creazionale è l’atto con cui Dio dà origine alla realtà, ma creazionale, sia pure in forma diversa, è anche il processo successivo attraverso il quale l’uomo porta a compimento ciò che Dio ha inaugurato. L’espressione che meglio evidenzia questa dinamica finalistica è “custodire il giardino”, che, da un lato, comporta l’attenzione a preservarne l’identità e, dall’altro, l’esigenza di intervenire per mantenerlo in ordine e renderlo sempre più ricco e lussureggiante.2

Questo equilibrio da rinnovare continuamente è presente anche nel Testamento cristiano, dove uomo e natura creata sono tra loro strettamente interconnessi, al punto che Paolo non manca di sottolineare lo stato di sofferenza che, dopo la caduta originaria, ha coinvolto l’intera creazione: “La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà ma per la volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi” (Rom 8, 20-22). E soprattutto il Testamento cristiano non manca di evidenziare l’effetto cosmico della redenzione, che inaugura “cieli nuovi” e “nuova terra”: “E vidi un cielo nuovo e una nuova terra: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più” (Ap 21. 1). E ancora: “Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia” (2 Pt 3, 12). Anche la creazione dunque partecipa del riscatto dell’uomo in ragione della venuta del Regno “già” presente e proiettato nel “non ancora” del futuro escatologico.3 Il carattere di tessuto relazionale che qualifica per la tradizione ebraico-cristiana l’intera realtà rende trasparente che l’intervento umano debba tradursi nell’assunzione di un atteggiamento di responsabilità verso il creato.

 

Le ragioni culturali della crisi

Alla prospettiva delineata si è opposta, soprattutto a partire dalla modernità, una visione del rapporto dell’uomo con la natura, dove a prevalere è stato l’atteggiamento del dominio, dell’esercizio di un potere senza condizioni. Il famoso detto di Bacone secondo cui “conoscere è potere” ha trovato piena espressione nella forma della odierna “razionalità strumentale”, che ha nel “fare” (e nell’“avere”) il criterio di valutazione ultimo di ogni azione umana. Le radici di questa visione vanno fatte risalire all’illuminismo che attribuisce al progresso (ad ogni progresso raggiunto dall’uomo) un carattere positivo e lineare, a partire da un radicale ottimismo, che impedisce di cogliere gli aspetti di ambivalenza che accompagnano ogni conquista umana. A venire esaltate sono quelle che Leopardi definiva “le magnifiche sorti e progressive” con l’assenso a qualsiasi intervento dell’uomo nei confronti della realtà nella convinzione che esso costituisce in ogni caso la via obbligata per l’acquisizione di nuovi livelli di civiltà.4

Il progresso scientifico-tecnologico degli ultimi decenni ha largamente contribuito ad avvalorare questa tesi. Alla possibilità di manipolazione della natura offerte dall’uso di tecnologie sempre più sofisticate e pervasive si è accompagnato (e con essa ha interagito) l’affermarsi di un sistema economico mondiale neoliberista, che ha alla base la logica del mercato; un mercato senza regole e senza alcuna limitazione alla concorrenza, con la conseguenza della diffusione di trust e di monopoli, che mortificano la possibilità dell’accesso ad esso della maggior parte della popolazione e incrementano le diseguaglianze tra i popoli e le classi sociali.5

Crescita illimitata della produzione e del consumo e massimizzazione del profitto sono i paradigmi ai quali tale logica si ispira, facendo dell’utilitarismo il criterio valutativo di ogni processo di sviluppo. L’ideologia del mercato diviene così “pensiero unico”, il quale tende a conformare al criterio segnalato ogni decisione. Questo non si riflette soltanto a livello umano, dove istruzione e cultura vengono finalizzate alla crescita produttiva, ma coinvolge anche la natura che da habitat in cui l’uomo si situa, ricavandone alimento materiale e arricchimento spirituale, si trasforma in semplice contenitore di risorse a disposizione dello sfruttamento dell’uomo. Da fattore costitutivo della soggettività umana in forza della relazionalità ricordata, la natura diviene un oggetto esterno che può essere dall’uomo indiscriminatamente utilizzato in vista del perseguimento degli obiettivi ricordati. Ottimismo illuminista nel progresso ed economicismo sono, in definitiva, i paradigmi ai quali si ispira una prospettiva di accostamento alla “natura”, che la riduce a semplice “cosa”, e che pertanto la svilisce; paradigmi che nella loro concreta esplicazione, danno luogo ai dissesti ambientali cui si è fin dall’inizio alluso e che ci hanno condotto all’attuale deriva.

 

Quali le vie per uscire da questa situazione

02 piana 2Indicazioni preziose per uscire da questa situazione sono contenute nella enciclica Laudato sì di papa Francesco. La proposta papale ruota attorno all’idea di “ecologia integrale” che muovendo dalla considerazione dello stretto rapporto esistente tra “questione ambientale” e “questione sociale” evidenzia la necessità che ci muova su due versanti: quello delle scelte personali e quello delle strutture economico-sociali e politiche (capitolo IV).

Il primo versante – quello delle scelte personali – implica un profondo cambiamento degli stili di vita, uscendo dalla logica dominante del consumismo per fare proprio il valore della sobrietà. La quale consiste nella riduzione dei bisogni e nella limitazione dell’uso delle risorse, sia per evitare il fenomeno dell’inquinamento sempre più preoccupante per gli effetti drammatici ricordati, sia per limitare gli sprechi di risorse, molte delle quali non rinnovabili ed arrestare, o quanto meno contenere, il processo entropico in atto. Per i credenti questo modo di agire coincide con l’adesione al valore della povertà evangelica, la quale non è la miseria o il rifiuto dei beni elargiti da Dio all’uomo, ma neppure il possesso esclusivo e totalizzante di essi, possesso che genera diseguaglianze e conflitti sociali.

L’autentica povertà, nella sua dimensione orizzontale, è condivisione dei beni destinati a tutti. Essa implica, per essere messa in atto, l’adozione di un’ampia serie di pratiche, che riguardano sia la gestione della vita quotidiana che l’attivazione di serie opzioni di ordine sociale. Al primo livello – quello della gestione della vita quotidiana – si va dall’uso parsimonioso dell’acqua a quello della luce; dalla riduzione degli eccessi relativi al riscaldamento e al raffreddamento all’adozione di un utilizzo moderato dell’automobile; dal riciclo di contenitori di plastica (e di altre sostanze non biodegradabili) a una corretta raccolta e distribuzione dei rifiuti; dall’eliminazione degli sprechi alimentari ancora molto consistenti alla scelta di prodotti con confezioni ridotte.

Al secondo livello – quello delle opzioni sociali – tra le molte iniziative adottabili, vanno segnalate il ricorso alle energie rinnovabili, la moltiplicazione delle case di paglia che favoriscono il risparmio energetico, il privilegio dato alle automobili elettriche, fino all’adesione ad associazioni di consumo che offrono i beni alimentari a condizioni rispettose dell’ambiente.6

Non meno importante è il secondo versante – quello economico-sociale e politico – dove si rendono necessari profondi cambiamenti strutturali. Se è vero – come si è ricordato – che la ragione principale dell’attuale dissesto ideologico è l’economia di mercato, fondata su una forma di liberismo selvaggio, dove ad avere il sopravvento è un mercato senza regole, che si affida a una visione prometeica del potere dell’uomo e aderisce a una concezione illimitata e lineare del progresso che non fa spazio alle ambivalenze e alle contraddizioni che le sono connaturali. La situazione gravemente preoccupante in cui ci si trova mette in evidenza con chiarezza i limiti e la negatività del modello di sviluppo perseguito e la necessità di ricercare una vera alternativa ad esso.7

A dover essere messa sotto processo è anzitutto la logica quantitativa dominante, che fa della massimizzazione della produzione e del profitto il paradigma esclusivo di riferimento, determinando l’accentuazione costante delle diseguaglianze e il dissesto ambientale. L’alternativa è allora l’introduzione di un criterio qualitativo, che conferisca il primato ai beni relazionali e alla qualità della vita. Questo non significa necessariamente rinuncia a una crescita quantitativa, come vogliono i sostenitori della crescita zero o della “decrescita felice”8, ma comporta una svolta radicale in due direzioni.

La prima è la creazione di una equa distribuzione dei beni: i beni attualmente prodotti sarebbero di fatto sufficienti a soddisfare i bisogni di tutti se non venissero in larga misura accaparrati da pochi. La seconda chiama in causa la stessa attività produttiva: si tratta di interrogarsi su ciò che si produce: beni destinati a soddisfare i bisogni di tutti o beni superflui talora indotti dalla semplice pressione sociale? E ancora: a quali condizioni tale produzione avviene: nel rispetto dell’ambiente e nella promozione di un’attività lavorativa umanamente dignitosa o passando sopra a tali condizioni e alimentando, di conseguenza, il dissesto ambientale e l’alienazione dei lavoratori?

 

E la politica?

Ultima questione (ma non in ordine di importanza) è la definizione del ruolo della politica. Che si tratti di ruolo di primo piano è fuori discussione. Alla politica spetta infatti la promulgazione di regole che limitino i processi di inquinamento in corso ed evitino l’insorgenza di accumulazione di capitali e di ricchezza, impedendo in tal modo la nascita di trust che rendono il mercato libero per pochi e attentano di conseguenza alla crescita della democrazia. Il che purtroppo oggi non avviene (o avviene in misura del tutto insufficiente), sia per la debolezza delle organizzazioni internazionali, Onu compresa, costrette a sottostare a forti condizionamenti che ne limitano la libertà di azione; sia per la soggezione della politica a poteri forti – economia e comunicazione in primis – che fanno di essa una variabile dipendente, sia, infine, per la persistenza anacronistica degli Stati-nazione, che non hanno (e non possono avere) il potere di gestire fenomeni che vanno ben oltre le loro frontiere.

La restituzione di centralità alla politica come perno fondamentale della vita sociale che la indirizza al bene comune è allora indispensabile alla soluzione della crisi ecologica, in quanto induce all’assunzione di misure (anche drastiche) destinate ad arrestarne gli sviluppi accelerati attuali. Perché questo avvenga è tuttavia necessario che la politica esca dall’attuale stato di debolezza, ricuperando la credibilità perduta – gli scandali corruttivi l’hanno purtroppo gravemente compromessa – e acquisendo una seria autorevolezza che le consenta di imporsi ai poteri dominanti ricordati. Riuscirà la politica ad uscire dall’odierno stato di impotenza? La risposta a questo interrogativo acquista oggi un peso cruciale. Ne va del destino dell’umanità presente e futura e delle stesse sorti del pianeta.9

 

Giannino Piana

 

 

 

NOTE:

1 Sono molti i filosofi, gli etnologi, gli antropologi e gli scienziati in genere che hanno sostenuto in passato e tuttora sostengono questa tesi. Ci limitiamo a ricordare qui LYNNE TOWNSEND WHITE, che è più volte intervenuto a ribadirla (Cfr. The Historical Roots of Ecological Crisis, Science 1967).
2 A proposito della concezione cristiana del rapporto dell’uomo con l’ambiente cfr. tra i molti testi: F. EUVE’, Principi per un’ecologia cristiana, in: Aggiornamenti sociali, dicembre 2012, pp. 860-871; A. GESHE, Dio per pensare, 4: Il cosmo, Edizioni S. Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1997; J. MOLTMANN, Dio nella creazione. Dottrina ecologica della creazione, Queriniana, Brescia 1986; E. THEOKRITOFF, Abitare la terra, Qiqajon, Magnano (Bi) 2012.
3 La concezione della salvezza propria del Testamento cristiano include con chiarezza il cosmo in tutte le sue articolazioni. Questo in quanto la redenzione è interpretata come “nuova creazione”.
4 Il concetto di “ragione strumentale” è stato introdotto dalla Scuola di Francoforte, cfr. M. HORKHEIMER, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino 1972.
5 TH. PIKETTY, Capitale e ideologia, La nave di Teseo, Milano 2020.
6 Tra i vari testi che affrontano tale questione, cfr. A. SELLA, Cambiamenti a Via 0. L’opzione del quotidiano, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 2020.
7 Un interessante contributo alla concreta ricerca di un nuovo modello di sviluppo si trova in: A. AGOSTI, Un nuovo modello di sviluppo per uscire dalle crisi climatiche, in: Green Planner Magazine, 21 luglio 2020.
8 Tra le molte opere di S. LATOUCHE, cui si deve l’idea di “decrescita felice”, cfr. La scommessa della democrazia, Feltrinelli, Milano 2006; Limite, Bollati Boringhieri Torino 2012; La decrescita prima della decrescita. Precursori e compagni di strada, Bollati Boringhieri, Torino 2016.
9 Per una visione positiva dell’evoluzione della crisi politica, cfr. L. BECCHETTI, Crisi politica, non abbandoniamo l’ottimismo, in: Vita, 26 luglio 2022.

 

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