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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences



Uzbekistan impressioni di viaggio1 (Giugno 2023)

 

 

Il nuovo grande gioco?

pdfLe terre sono le stesse, i Paesi dell’Asia centrale, Uzbekistan in primis. L’Impero Britannico e l’Impero Russo, protagonisti del Grande Gioco dell’800, oggi sono stati sostituiti da USA e CINA. L’oggetto del contendere non sono più le steppe e le vie commerciali, ma enormi giacimenti di gas e petrolio, miniere di oro e d’argento, di rame, di zinco, minerali di ferro, carbone e campi di cotone.

Uzbekistan, una volta e mezzo l’Italia, con città come Khiva, Bukhara, Samarcanda, culle di civiltà millenarie, oggi protette dall’Unesco, come patrimonio dell’umanità per i loro retaggi storici e artistici: le principali città carovaniere del passato divenute capitali degli imperi di Alessandro Magno e dell’Uzbeco Tamerlano.

Arrivare in Uzbekistan, oggi, non è difficile anche se si passa per Istanbul attraverso il nuovo e mega aeroporto sul Bosforo simile a quelli dei paesi del golfo.
Sbarchiamo a Urgench, dove controlli sistematici, stile sovietico, vengono fatti anche attraverso una fotocamera per verificare la coincidenza della foto del passaporto con la tua faccia attuale; un po' complicato perché l’apparecchiatura è fissa e quindi sei tu che devi, alzandoti, abbassandoti, spostandoti, inquadrare l’obiettivo della macchina. Aspettando le valige in questo minuscolo aeroporto ti guardi in giro e scopri subito come, i funzionari, gli impiegati doganali e i semplici addetti alle pulizie abbiano tratti somatici diversi, alcuni con gli occhi a mandorla, altri con gli zigomi sporgenti, altri con fisionomie medio orientali o slave. In seguito scoprirò che in Uzbekistan ci sono 100 etnie diverse. Tra le cose che mi hanno subito colpito, ho notato che le scritte sono in uzbeco, con caratteri latini e/o in russo con caratteri cirillici, mentre il personale aeroportuale tra di loro parla russo. Per calarsi culturalmente in questo paese bisogna comprendere il ruolo strategico che ha avuto nel passato e che sta avendo nel presente, basti pensare al vertice di Samarcanda (Cina, Russia settembre 2022) in cui è stato rimesso in discussione l’ordine mondiale.

L’Uzbekistan nel passato è stato governato dai persiani con grandi capacità amministrative e prestigio culturale e con forte impronta zoroastriana. Poi vennero i califfi di Bagdad e fino ad un secolo fa gli emiri turco- asiatici (Kanati di Khiva, Bukhara, Kokand /Samarcanda) autocrati crudeli e qualche volta psicopatici. Le varie fasi storiche hanno un filo conduttore che passa per il commercio. Sono le carovane che hanno fatto la ricchezza e definito l’architettura delle città; i mercati coperti a cupola per i negozi dell’oro, degli usurai, delle spezie e delle sete, e un continuo andirivieni di merci, di mercanti e compratori dalle diverse etnie, un continuo flusso di genti, profumi e colori. Possiamo solo immaginare come poteva essere la vivacità e il folklore di queste città.

La leggenda racconta che Sem il figlio maggiore di Noè vagando per il deserto scoprì un pozzo ed esclamò “Khi-va” ovvero, acqua dolce.

Khiva è la prima città che raggiungiamo dall’aeroporto, e già da lontano, all’alba, vedi brillare il turchese dei monumenti: moschee, palazzi degli emiri e minareti, protetti da alte e grezze mura di sabbia. L’impressione è da mille e una notte. La cittadella è affascinante, non ci sono macchine, non ci sono costruzioni moderne. L’albergo è un vecchio caravanserraglio restaurato con grande giardino adibito a hall, ristorante e punto di ritrovo. Non c’è ascensore, né televisione, né telefono. L’acqua da bere è solo quella in bottiglia. In compenso un trio di musicisti, un po' mesti, in abiti tradizionali, che suonano una musica melodica, un po’ monotona, con strumenti simili ad un mandolino allungato e a un tamburello arricchito da tanti dischetti di metallo.

La cittadella/fortezza circondata da alte e possenti mura di mattoni crudi racchiudeva il quartiere del potere: politico, militare, religioso. Dell’esterno, popolare, non è rimasto nulla; tutto è stato distrutto nel tempo da scorribande di predoni e da popoli nomadi che hanno lasciato solo cadaveri e poi sono svaniti, come una tempesta di sabbia. Fuori dalle mura adesso trovi solo costruzioni popolari/sovietiche. D'altronde Khiva fino alla fine dell’800, oltre ad essere un punto d’appoggio per le carovaniere che dalla Cina andavano fino al Mediterraneo, era anche il maggior mercato di schiavi di tutta l’Asia centrale. Molti schiavi erano russi, ed erano i più ricercati. Questo è uno dei motivi che hanno portato gli Zar a conquistarla.

Gli edifici in città, restaurati dai sovietici, sono ricoperti da bellissime piastrelle colorate: azzurre, verdi, gialle. Sono state le dimore degli emiri e dei loro harem, all’ombra di possenti minareti e sotto la protezione delle moschee e dei mausolei. Ci sono poi delle magnifiche madrase dove studiavano gli Imam e dove riposano i santi dell’Islam.

Passeggiare per Khiva è un’esperienza estremamente suggestiva, è un museo en-plein air.

Mi ricorda i versi di Elias Canetti: Khiva, “Davvero in quel momento mi sembrò di essere altrove, di aver raggiunto la meta del mio viaggio. Da lì non volevo più andarmene, ci ero già stato centinaia di anni prima, ma lo avevo dimenticato, ed ecco che ora tutto tornava in me. Trovavo nella piazza l’ostentazione della densità, del calore della vita che sento in me stesso. Mentre mi trovavo lì ero quella piazza. Credo di essere sempre quella piazza.”

 

Fortezza AYAZ KALA

Prima di partire da Khiva per il deserto ci facciamo “benedire” da dei piccoli mendicanti che con un aspersorio, da cui esce un fumo di erbe bruciate “isriq”, contro il malocchio e le malattie.

Percorriamo strette strade bianche dissestate che consentono di procedere con sicurezza, ma lentamente. Ci inoltriamo in spazi aridi ed inospitali, nei deserti del Karakum e del Kizilkum. Incontriamo qualche villaggio di contadini e accampamenti di nomadi sparsi qua e là. A fianco della strada notiamo affioramenti di carbonati e tante pozze di acqua salata.

La fortezza Ayaz Kala faceva parte di un sistema di difesa dalle incursioni dei nomadi delle steppe del nord. Queste fortezze, attive fin dal V secolo, erano costruite da mattoni di terra cruda e comunicavano tra loro di giorno con fumi di sterco di lupo e di notte con i fuochi sulle mura. I bastioni sono in gran parte disciolti dalle rare piogge, e dalla fortezza sulla collina ci viene incontro uno spazio piatto e infinito in un silenzio totale. Non lontano ci fermiamo in accampamento di nomadi: yurte (tende), cammelli (non dromedari), donne e uomini con i tradizionali vestiti sgargianti. Ci fermiamo a mangiare con loro il plov (piatto a base di riso, verdure cotte e carne stufata). Alcuni turisti coraggiosi, si fermano qualche giorno con i nomadi. Commento di un nomade: “Guadagniamo di più affittando per qualche giorno le Yurte che pascolando capre e cammelli”.

 

Verso BUKHARA

Ci aspetta un lungo viaggio di 10 ore. Attraversiamo il Karakum che è un deserto di sabbie nere, triste, che dal lago d’Aral si estende fino alle porte di Bukhara. Niente a che vedere con i deserti africani. Terribilmente freddo d’inverno e caldissimo d’estate, i venti freddi del nord non consentono una vegetazione o un’oasi. L’unica pianta che sopravvive è il Saxaul, cespuglio che allarga le sue radici nel terreno arido e consente un minimo di habitat per la sopravvivenza degli animali selvatici. Viaggiamo lambendo le sponde del fiume Amu Darya, il famoso Oxus del Grande Gioco, che segna il confine con il Turkmenistan, altro paese ex-sovietico. L’Uzbekistan non ha sbocchi sul mare ed è circondato da altrettanti paesi senza sbocchi, che pur avendo governi simili (autoritari) non si amano molto tra loro, di fatto il Turkmenistan chiede il visto d’entrata agli uzbeki. Inoltre gli uzbeki sono presenti con forti minoranze in questi paesi confinanti - in Afghanistan con più di un milione, (16,5% della popolazione) e in Tagikistan – originando così non pochi attriti tra le diverse etnie.

 

BUKHARA Città Santa, punto d’incontro delle vie carovaniere lungo la via della seta

La parte più interessante è la città vecchia, circondata da mura di mattoni cotti, con tante moschee, madrase e mercati, tutto in un ottimo stato di conservazione. Pare che i tasselli a forma di poligoni e stelle, (girih) che ornano tutte le costruzioni, non siano frutto di pazienti artigiani, bensì di architetti/matematici che con complesse formule definivano come e dove inserire le tassellature.

La moschea Maghok-i-Attari è il centro spirituale della città. Fu costruita sopra un tempio zoroastriano e di uno ancora più antico buddista. Nei secoli fu utilizzata anche come sinagoga, vicino c’è un quartiere ebraico, non molto abitato ma ben conservato. Gli edifici di Bukhara come tutti quelli del Centro Asia musulmana sono decorati con mattoni monocromatici smaltati dai toni blu e turchesi; con Tamerlano si aggiunse il bianco, il nero, il verde e il giallo. Non potendo rappresentare figure umane, l’arte islamica si è sbizzarrita sviluppando l’arte della calligrafia e della decorazione astratta. Il tutto ha una grande fascino. È una bellezza imponente che ti prende nei continui, infiniti disegni geometrici, laici e religiosi riprodotti all’infinito su questi mattoni smaltati. Una curiosità: tutti i disegni, anche quelli sui tappeti, hanno una imperfezione voluta dagli artisti, poiché la perfezione è solo di Dio.

Il minareto Kalon doveva essere il più alto del mondo, non ultimato (pare che l’architetto se la spassasse con la regina e il re venuto a saperlo lo fece fuori, quindi non poté terminare il minareto); 48 metri di altezza e 9 di circonferenza, ricoperto da piastrelle azzurre smaltate, al suo interno, per rafforzare la struttura, vennero inserite canne di bambù amalgamate con latte di cammello e sangue di toro. La sua imponenza lo fece risparmiare da Gengis Khan che però distrusse tutta la città. Oltre a servire ai muezzin per chiamare il popolo alla preghiera, era un faro per l’orientamento delle carovane. Meno allegro era l’uso che si faceva per giustiziare i criminali che durante i giorni di mercato venivano gettati giù; pratica usata fino al XIX secolo come ammonimento del Khan ai sudditi!

La gente si incontra in piazza Lyabi-Hauz, una grande fontana circondata da alberi di gelso, con anziani che giocano a scacchi e sorseggiano tè, qualche venditore di dolci. Di fronte c’è la moschea Nadir Divanbegi, un ampio complesso costruito nel 1620, recentemente gli Imam hanno proibito la visita, perché a quanto pare durante le cerimonie religiose i turisti (russi) entravano, in canottiera e pantaloni corti. I sovietici invece hanno ristrutturato la fontana/vasca che era la più grande riserva idrica della città, depurando l'acqua stagnante che era fonte di diverse malattie. Gli studenti che passano nella piazza si soffermano, ci chiedono un selfie: ragazzi e ragazze, molto semplici ed educati. Anche le persone adulte sono contente di essere fotografate, non chiedono soldi come altrove. La gente ci sembra molto sobria, senza malizia, un po' ingenua, però tutti genuinamente curiosi.

I bazar (toks) sono sormontati da cupole e i portici sottostanti sono fatti in modo da convogliare aria fresca all’interno. Fino al secolo scorso ogni bazar era specializzato per tipologia commerciale: gioiellieri, stoffe, cappellai, cambiavalute, banchi di pegno e prestiti, quest’ultimi gestiti da armeni e indiani che non potevano, per la loro fede, stare con famiglie musulmane; quindi si costruì un caravanserraglio ad hoc, il Caravanserraglio degli indiani. Delle vestigia del passato rimangono le strutture architettoniche, alcuni negozi di gioielli e di stoffe e molti incisori e miniaturisti che riproducono stampe e disegni, anche di figure umane e animali. L’hammam Bozori Kord fu costruito nel XIV secolo ed è tuttora funzionante: immergersi nei suoi vapori è come immergersi nel passato. È abbastanza frequentato dai locali, quindi sia l’hammam che le sale di riposo, dove si beve tè e si gustano dolciumi, sono un interessante spaccato della vita cittadina.

L’interprete mi dice che gli avventori parlano soprattutto dei problemi legati all’agricoltura: le piogge che non arrivano, prodotti pagati poco dallo stato e costi di trasporto. Questi discorsi li ho collegati ai numerosi banchi di prodotti agricoli che vedi sulle strade provinciali; vendita diretta senza intermediari. A quanto pare esiste un mercato parallelo, non registrato, a quello ufficiale; se poi aggiungiamo i trasporti delle persone effettuati con taxi collettivi, privati (ce ne sono a centinaia), allora si spiega la differenza tra PIL circa tremila dollari e il PPA (Parità del Potere D’Acquisto) di più di settemila dollari: lavoro nero istituzionalizzato.

Si racconta che Giobbe arrivato a Bukhara in un momento di siccità abbia fatto scaturire l’acqua miracolosamente; da qui il Mausoleo di Chashma Ayub (fonte di Giobbe), che Tamerlano fece ristrutturare con una cupola conica, architettura non uzbeca. Chissà da dove è arrivata. L’acqua è sempre stato un grande problema per i paesi centro asiatici. I sovietici hanno costruito canali, hanno industrializzato l’agricoltura ma hanno anche prosciugato il lago Aral per favorire la produzione intensiva del cotone (l’Uzbekistan è il quarto produttore mondiale) provocando uno dei maggiori disastri ecologici al mondo.

C’è una curiosa statua di Hoja Nasruddin, il più famoso Mullah sufi, a cavallo di un asino. Pare che si esprimesse con barzellette che contenevano pillole di saggezza come i maestri zen dell’estremo oriente, ma con l’aggiunta di humor.

Nel quartiere ebraico una famiglia ha trasformato la propria casa, piuttosto grande, in un ristorante-bazar dove ceniamo. Ci servono piatti tradizionali, riso, montone, verdure cotte e diversi tipi di tè, e, per chi lo desidera, vodka e un cognac uzbeco; non male. Durante la cena musici e ballerine si susseguono con musiche e danze tradizionali, che esprimono pienamente l’origine nomade di questo popolo.

A Bukhara troviamo tappeti e scialli fatti con lane di pecore karakul o di cammello, sono di buona qualità. I prezzi sembrano alti ma, se si considera che 1€ equivale a 11.000 Sum (moneta locale), non è così. Sorge un dubbio: inflazione o svalutazione della moneta per favorire le esportazioni? Compriamo un dopy, tipico cappello uzbeko, di forma quasi cubica, nero con ricami bianchi; tutti gli uomini di mezza età lo portano.

La strada per Samarcanda - cinque ore di viaggio - è abbastanza buona. Stanno asfaltando le strade ma c’è il problema della temperatura calda d’estate che scioglie l’asfalto e il freddo d’inverno che lo sgretola; pensano di farle di pietra ma hanno un costo elevato.

Samarcanda nella narrazione è un luogo esotico, un mondo immaginario, sollecitato dalle miniature di Shahrazad, misteriosa bellezza orientale, di grande genio e raffinatezza femminile che ha accompagnato nelle fantasie generazioni di occidentali. La particolare bellezza delle donne è dovuta al loro sangue misto: uzbeki/slavi, turkmeni/kazaki, uzbeki/tagiki, uzbeki/tartari.

Tutti i libri o carte geografiche che parlano della via della seta mettono al centro Samarcanda. Città chiave tra oriente e occidente, da qui passavano le merci più pregiate, sete cinesi, turchesi himalayani, lapislazzuli afgani, tappeti turkmeni. “Dolce color d’oriental zaffiro” scrive Dante nel primo canto del Purgatorio; senza i lapislazzuli afgani Giotto non avrebbe potuto dipingere il cielo blu della cappella degli Scrovegni e il Beato Angelico il mantello blu della Madonna del convento di San Marco a Firenze.

Arrivato a Samarcanda, Alessandro Magno, pare abbia esclamato: “Tutto quello che ho udito di questa città è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto avessi potuto immaginare” e Marco Polo “Non vi ho raccontato neanche la metà di ciò che ho visto”. Ma chi la rese immortale fu Tamerlano che ne fece la sua capitale con quei monumenti impareggiabili per grandezza. Diceva: “se non credete alla nostra potenza, guardate le nostre opere”.

La prima impressione è straniante: c’è una strana combinazione tra i monumenti del suo grandioso passato mescolati ai palazzoni di stile russo e sovietico. Però il clima è piacevole (900 m s.l.m.), le strade sono animate da tanta gente che cammina, chiacchiera, beve tè. I vestiti delle donne sono di colori sgargianti e i giardini che circondano le moschee sono pieni di famiglie che fanno picnic. Nei bar troviamo televisori accesi tutto il giorno: giochi, danze tradizionali, rock uzbeco. Il mercato coperto, restaurato “male” dai sovietici è un trionfo di voci, colori, odori. Fantastiche confezioni di frutta secca si mescolano a quarti di agnello e verdure, molte delle quali a noi sconosciute. Nel bazar non si vende alcool e carne di maiale, sono restrizioni recenti. L’Islam procede e sostituisce il comunismo.

La vista non può incominciare che dalla maestosa piazza di Registan, le tre grandi madrase che la compongono sono tra gli edifici più belli dell’architettura islamica mondiale. Una grande scenografia, un insieme tridimensionale con un enorme spazio vuoto. La costruzione di questo meraviglioso complesso (1417) lo si deve a Uluğ Bek, re filosofo/matematico, nipote di Tamerlano, che volle tre madrase e non quattro poiché il numero tre racchiude la perfezione.

La guida, una signora tartaro/uzbeca, laureata in storia che parla un ottimo italiano, ci mostra le fotografie degli anni ‘20, quando la piazza era affollatissima, piena di bazar e di cammelli che trasportavano le merci. I bolscevichi spostarono i mercati per poter usare la piazza per le adunanze pubbliche, processi, parate, e le tolsero tutta la sua vitalità. La piazza enorme è recintata e si entra con il biglietto facendo un lungo percorso nei giardini che la circondano. Le architetture delle madrase rispettano i precetti islamici ed evitano la simmetria per non arrogarsi la perfezione che è solo di Dio. Però, sulla madrasa di Sher Dor (dei leoni) questo precetto non fu rispettato, infatti sopra il portale d’ingresso sono raffigurati due leoni, tigrati, con un sole alle loro spalle. Le interpretazioni sono diverse, ma quella più accreditata è di un simbolismo zoroastriano.

Piccola sorpresa che irrita la nostra guida, nel piazzale ci sono delle donne col burka; fino a qualche anno fa era proibito. Una delle prime cose che fecero i sovietici fu quella di bruciare i burka in piazza. Prima c’era il controllo dello stato sugli imam, sulle madrase e su tutte le moschee e non si potevano costruirne di nuove. Ora imam radicali percorrono il paese predicando un islam rigido ad un popolo che è stato sempre tollerante seguendo un islam moderato. Sono in costruzione molte nuove moschee, alcune imponenti, si dice finanziate dall’Arabia Saudita. La pratica religiosa è in forte aumento, soprattutto fra i giovani. I vecchi ti salutano ancora con il vecchio saluto russo “Spasiba” (salvaci Dio), i giovani con il saluto arabo: “Salam aleikum” (la pace sia con voi). Fa una certa impressione vedere alla preghiera del venerdì partecipare più giovani che anziani.

Nel Mausoleo di Gūr-i Amīr, tomba del re, è sepolto Tamerlano e due dei suoi figli. La tomba è molto semplice, un blocco di giada verde scuro, con una grossa spaccatura in mezzo. Si narra che nel 1740 fu trafugata e portata in Persia, ma il ladro ebbe tante disgrazie che temendo di essere perseguitato dalla maledizione di Tamerlano la riportò indietro. Né a Bukhara, né a Samarcanda, ho visto un’organizzazione per le pulizie delle strade e per la raccolta delle immondizie e ovunque è tutto pulito. Pare che fin dai tempi dei Khan la popolazione fosse obbligata a tenere pulite le strade e a gettare le immondizie negli appositi centri di raccolta. Quindi la gente sapendo che deve pulire, non sporca.

Ci avviamo verso Shakhrisabz (nome impronunciabile), città della nascita di Tamerlano, con macchine adeguate poiché è una strada di montagna e i bus non possono percorrerla. Stiamo andando verso il confine con l'Afghanistan. Il percorso è costellato da piccoli villaggi rurali, con abitanti di etnia prevalentemente tagika e con i locali si parla russo, poiché non conoscono l’uzbeco. Sono vestiti con abiti molto colorati e sono molto socievoli. Scendendo dai tortuosi tornanti, nei pochi spazi pianeggianti, incontriamo numerose bancarelle che vendono frutta, verdure, tè e formaggi di capra mescolati a erbe e spezie. Un’economia parallela che si paga in Sum, euro e dollari non sono accettati. Stanno transitando alcuni furgoncini carichi di gente che recitano “litanie” vanno a un santuario di un maestro sufi. Li seguiamo. Entriamo in questo piccolo villaggio, fuori dal mondo. È una realtà di case e gente semplice, povera: fino ad ora abbiamo visto monumenti che ignorano l’aspetto della vita quotidiana, popolare. Ci guardano con curiosità. C’è un'antica moschea molto semplice, sembra essere del XIV secolo, con bellissime colonne di legno intarsiato, dipinta a calce con tappeti di fibre vegetali. Ci sono alcuni anziani che pregano, mi unisco a loro, un amico nello Yemen mi aveva insegnato tutto la gestualità e le formule, nel tentativo di convertirmi all’Islam. Ci fermiamo nel patio della piccola moschea, su dei divani rialzati beviamo il tè, mi chiedono da dove veniamo, perché siamo lì etc. quindi convengono che siamo francesi, pare che tutti gli occidentali siano francesi. Alla domanda se sono musulmano dico di no, ma aggiungo che Dio è uno solo per tutti; rimangono perplessi, ma poi annuiscono. Mi accompagnano sulla collina dove c’è la tomba del maestro/santo Sufi. Nonostante l’interprete, tagico/russo/italiano non afferro tutta la storia del maestro, che aveva predicato un Islam, meno rigido e più tollerante, che consentiva un sincretismo con le religioni precedenti. Inoltre la centralità assegnata dal Sufismo all’individuo si è rivelata molto adatta per dei nomadi. L’Imam/guardiano della tomba mi stupisce un po'. I sunniti pregano con le mani vicino al viso, tenendo i pollici vicino alle orecchie, mentre gli sciiti pregano con le mani all’altezza del petto con i palmi rivolti in alto. Questo Imam si toccava la fronte, le guance e poi alzava le braccia. Mi spiegano che hanno sempre pregato così. Dopo aver fatto un’offerta che l'Imam ha rifiutato, scendiamo dalla collina e vediamo due persone intente a macellare una grande pecora nera. La settimana successiva vi sarà una festa e verranno tanti pellegrini.

Rientriamo a Samarcanda. Un treno ci aspetta per portarci a Tashkent, sulla strada incontriamo un enorme monumento, recente, di Tamerlano in trono. Alla base vediamo mazzi di fiori freschi. L’identità, come diceva un filosofo, non scivola come l’acqua sotto la pancia delle anatre.

Tashkent è stata distrutta completamente da un terremoto nel 1966. Ora è una grande città moderna, grandi spazi, con giardini estesi e ovunque tanti alberi che separano edifici dalle linee sobrie e decorazioni spartane. Dell’antico passato non è rimasto niente. È una città vivace, tanti autobus (cinesi) e tante macchine, tutte uguali. Ultimamente la General Motors ha stipulato una joint-venture con la compagnia statale UzAuto per la produzione di 250.000 automobili che soddisferanno il mercato interno e saranno esportate nei paesi limitrofi. Le macchine sono quasi tutte dello stesso modello; sembra una ripetizione fordiana: un motore, un modello di carrozzeria, un colore (bianco). Auspicio del governo che ogni famiglia ne abbia una.

Il centro islamico Hast-Imam espone il corano più antico del mondo, fu portato da Tamerlano da Bagdad. Si tratta di un libro enorme conservato in una teca climatizzata e frutto di venerazione dei musulmani. Pare che ci siano tracce del sangue del califfo Othman assassinato nel 656 mentre leggeva il testo sacro. Si stanno costruendo tante ed enormi moschee, dicono che il modello politico è la Turchia: trono e altare.

I palazzi del potere sono di stile sovietico però ben ripuliti, ordinati e circondati da tanti giardini, c’è sempre un via vai di funzionari e di delegazioni straniere, cinesi in primis. Il paese sta cercando nuovi spazi per l’esportazione del cotone e delle materie prime. Essendo senza sbocchi sul mare e circondato da paesi a loro volta senza sbocchi sul mare, le esportazioni sono difficili, il prezzo viene fatto dall’acquirente. Negli ultimi anni il PIL è cresciuto del 6/7% grazie all’aumento del prezzo del cotone e dell’oro nei mercati internazionali, ma a quanto pare la popolazione non ne ha tratto grande beneficio. Le statistiche parlano del 27% dei cittadini a livello di povertà, ma le statistiche non tengono conto dell’economia parallela, frutto del lavoro nero. Ai quadri del partito comunista si sono sostituite delle élites “familiari” che gestiscono l’economia. I contadini che coltivano il cotone sono i più poveri: lo Stato, i commercianti, legati alla politica, definiscono il prezzo di acquisto del prodotto. C’è un forte sfruttamento, i tentativi di distribuzione delle terre, non hanno portato a sostanziali cambiamenti. Il turismo sta diventando una nuova forma di entrate. È stato tolto il visto a molti cittadini dei paesi occidentali, si interviene ovunque per conservare monumenti e tradizioni. Gruppi musicali e folcloristici sono invitati continuamente. L’Uzbekistan sta cercando di uscire dal suo isolamento. C’è un vasto programma di produzione di energia solare, il paese ha 330 giorni di sole all’anno. Sono in atto finanziamenti internazionali per la produzione di energia verde e per le infrastrutture lungo la vecchia via della seta.

Al centro della città c’è una grande statua di Tamerlano a cavallo, sembra voler correre verso le colline del Tajikistan, rinnovare le epiche scorrerie della gioventù e voler uscire dalla dimensione sedentaria, per l’irrefrenabile spirito delle cavalcate senza limiti. Il sangue mongolo è mescolato all’istintivo calcolo matematico dello spazio del nomadismo. In Tamerlano, la carismatica ascesa di un sufi islamico si è sovrapposta alla figura primordiale dello sciamano delle steppe.

“Laggiù all’orizzonte dove la steppa si unisce al cielo” Poeta uzbeko del XIV Secolo

“Star così muta in sul deserto piano, che il suo giro lontano al ciel confina” Leopardi.

 

Antonio Fraccaroli

1 Giugno 2023

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