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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences



Giulio Prosperetti, Ripensiamo lo stato sociale, Wolters Kluwer, Cedam, (Milano 2019) Riflettendo sullo stato sociale: la proposta di un giudice costituzionale

 

 

pdfGià avvocato e giudice vaticano, professore emerito di Diritto del Lavoro, dal dicembre 2015 giudice costituzionale, Giulio Prosperetti raccoglie nelle duecento e passa pagine di Ripensiamo lo stato sociale, i suoi migliori interventi su temi come il welfare e le forme di protezione sociale pubblica. Benché coprano un arco di tempo che va dal 1994 al 2019, i saggi risultano di forte attualità, restando irrisolti i problemi con i quali si confrontano.

La tesi centrale del libro è che occorra un generale ripensamento culturale e giuridico delle modalità dell’intervento pubblico nei bisogni sociali, partendo dalla consapevolezza che la globalizzazione ha stravolto assetti politici ed economici – quindi sociali – che sembravano consolidati e inattaccabili. In particolare è diventato prassi corrente il dumping sociale, non solo nella competizione produttiva e commerciale tra le economie avanzate e quelle in sviluppo o emergenti, ma tra gli stessi paesi dell’Unione Europea. A ciò si aggiunga una realtà demografica che, in particolare in Italia, da tempo pone interrogativi pesanti sulla sostenibilità delle garanzie sociali. Inevitabile, secondo Prosperetti, rivedere i principi che presiedono al finanziamento dei sistemi previdenziali.

In discussione innanzitutto il concetto corrente di “retribuzione”, perché l’autore ritiene che sia saltato il meccanismo della società industriale che prevedeva l’incontro nel punto d’equilibrio, tra la pretesa di esborso minimo dell’impresa e l’esigenza d’incasso massimo di chi all’impresa vendeva la prestazione lavorativa o professionale. In discussione anche il riferimento al concetto di “lavoro”, visto che nella società del logaritmo e dell’intelligenza artificiale, il non-lavoro e il lavoro precario, le ripetute astensioni volontarie dal lavoro, e il “nuovo lavoro” tendono ad estendersi.

Prosperetti avanza una ricetta che, all’apparenza, può sembrare troppo radicale, mentre intende semplicemente corrispondere alla sfida reale che ci troviamo davanti. La constatazione di partenza è che le risorse pubbliche in ogni paese sono andate, storicamente, a sostenere i processi di creazione della ricchezza collettiva, attraverso il finanziamento di infrastrutture e opere pubbliche, e il varo di misure di supporto alle imprese. Era sottinteso che i due fattori – intervento pubblico diretto e iniziativa privata tutelata dallo stato – avrebbero generato lavoro, e garantito, attraverso la massa salariale distribuita da stato e imprese, pace collettiva e dividendi sufficienti al finanziamento dello stato sociale. Valido nei tempi di piena (o quasi) occupazione, il meccanismo non ha i presupposti per funzionare dinanzi agli accennati fenomeni che riguardano il mercato del lavoro.

Da qui la proposta di un modello di politica economica pubblica che metta al centro il lavoro, anche quello meno remunerativo, finanziandolo attraverso la commistione di due filoni d’intervento: salario e retribuzione collegati alla produttività della prestazione, elargizione assistenziale. La sommatoria di reddito da lavoro e reddito assistenziale, congegnata sulla base di indicatori pubblici tesi a conferire equità e razionalità all’innovato sistema retributivo, eliminerebbe – fatte salve le situazioni di comprovato bisogno – le sacche delle marginalità attualmente generate dal non lavoro o dall’accesso a forme perverse di assistenzialismo pubblico.

C’è un postulato giuridico di forte contenuto etico, nella proposta, visto che essa prefigura uno stato sociale che sposti le tutele dal lavoratore alla persona, qualunque essa sia, che lavori o non. Si tratta di un salto dottrinario che scardina i principi illuministici del contratto sociale fondato sulla reciproca utilità. Prosperetti avverte che, così come stanno le cose, “il bene primario della vita non sarebbe formalmente tutelabile in via diretta dall’ordinamento come diritto primario ma, solo indirettamente, come interesse al corretto funzionamento della società civile”. Contestando questo portato della cultura giuridica dello stato moderno, chiede che venga impostato “un sistema di tutele non più impiantato sul rapporto di lavoro ma sulla diretta tutela della persona”. Anche perché – come evidenziato – “lavoro” non è più, e sarà sempre meno, ciò che è stato nel novecento, consentendo a un numero minore di “persone” di accumulare le prerogative che consentirebbero di accedere alle provvidenze del welfare. Logico – in Prosperetti – caldeggiare il superamento della concezione dell’occupazione quale accesso alla sicurezza sociale, sostituendovi la tutela diretta dei bisogni vitali del cittadino, diritto inviolabile della persona nell’ambito del diritto primario alla vita, e a una vita degna.

Non si abbia l’impressione che, in un welfare siffatto, il lavoro trovi scarsa considerazione. Tutt’altro: esso viene ad assumere la pienezza originaria di realizzazione della persona, pur senza negargli la caratteristica di prodotto dell’homo faber, “venduto” al miglior acquirente, acquisita nel tempo della società industriale. Prosperetti valorizza esplicitamente il diritto al lavoro fuori dal “lavoro nel mercato”, includendovi le attività di volontariato e le opere sostitutive del lavoro “di scambio”. La dignità della cittadinanza attraverso il lavoro viene, in questa visione, estesa ad ogni forma di impegno e fatica per il bene comune, il cui valore sociale riscuota il giusto apprezzamento e trovi collocazione in un regime giuridico che lo riconosca come attività utile e meritevole di retribuzione. Da giudice costituzionale, l’autore rileva come lo schema da lui proposto, qualora fosse adottato, porterebbe l’Italia a superare definitivamente i residui corporativisti presenti nel vigente sistema giuslavoristico, completando l’allineamento del giuslavorismo repubblicano al contesto fissato dalla carta costituzionale.

 

Luigi Troiani

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