Seleziona la tua lingua

Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

pdf 

Marco Stefano Birtolo

I diritti umani tra occidente e oriente. Storicità di un'idea e tentativi di fondazione filosofica

Rubbettino, 2023

 

I diritti inalienabili non appartengono agli stati ma agli esseri umani 

Luigi Troiani 

 

Birtolo 1Nelle prime battute del suo libro sui diritti umani, Marco Stefano Birtolo - assegnista di ricerca in Filosofia del diritto all'università del Molise - si chiede se vi sia contraddizione tra il definire universali i diritti umani e al contempo proporne interpretazioni e declinazioni le più diversificate. Risponde di no, e spiega che la "centralità così rilevante nella cultura giuridica mondiale e così simbolica nell'arena geopolitica internazionale" della questione, mostra che è in corso un movimento storico per la condivisione del concetto dei diritti umani ma che al tempo stesso questa non appare ancora universale e, soprattutto, univoca. 

Tuttavia, risulta dal libro, nonostante si assista allo stillicidio quotidiano della violazione di quei diritti, le diversità e contraddizioni tra approcci filosofici e giuridici i più disparati potrebbero, a certe condizioni, essere superate in un tempo non troppo lungo, così da garantire alla persona tutela e protezione davvero universali.  

L'autore diffida dal semplificare la materia, perché non siamo ancora al punto da poter assumere una lista condivisa dei diritti e portarla ovunque ad applicazione. Nella sua interpretazione, il lavoro da compiere sul piano filosofico e culturale al fine di dare "razionalità" alle azioni politiche favorevoli ai diritti umani è anzi vasto. Il che non sorprende, visto il sottotitolo di copertina su storicità e fondazione filosofica dei diritti. A fugare ogni dubbio sulla sua posizione, Birtolo dice ai fautori dell'espansione dei diritti umani che muoversi solo sul piano della politica non rappresenta la scelta migliore, in quanto è ancora necessario convincere governi e opinioni pubbliche della giustezza della causa. Sarebbe stato "l'abbandono del tentativo di giustificazione dei diritti umani su un fondamento filosofico" a indebolire l'universalizzazione della loro applicazione, con la riduzione, di fatto, alla sola platea occidentale del tentativo di praticarli. Si spiegherebbero così le concezioni relativistiche dei diritti umani radicatesi, particolarmente in Asia, nel tempo delle nuove idee politiche seguito alla caduta dell'Unione Sovietica.

In realtà, come lo stesso autore riconosce, il relativismo rispetto a diritti che sono imprescindibili in quanto consustanziali alla natura umana e, per i credenti, donati da Dio e come tali intoccabili da ogni umano potere, era stato avviato da taluni già nel dibattito del 1948 in sede di risoluzione dell'Assemblea Onu 219077A, Dichiarazione universale dei diritti umani. In quella sede non erano mancati, in particolare da parte dei paesi di religione islamica, distinguo superati grazie alla comune tensione di principio delle nazioni - in quel sofferente dopoguerra - a favore della giustificazione dei diritti umani, via riconoscimento del loro fondamento universale. Distinguo avrebbero anche animato molti dei dibattiti della guerra fredda, con i due blocchi a tirare dalla propria parte una coperta - quella dei diritti umani - sempre troppo corta rispetto alle incessanti violazioni che la specie riprendeva a collezionare. 

Se le posizioni del 1948 venivano da comprensibili obiezioni a carattere religioso e morale, ora vi era un uso strettamente politico - quindi strumentale rispetto agli interessi polari da salvaguardare - di diritti che smettevano di essere considerati universali, per assurgere a dato ideologico e culturale di parte, quindi estraneo alla logica internazionale di tipo sistemico. Inaspettatamente anche peggio sarebbe andata, in termini di mancata universalizzazione dei diritti umani, nel dopo guerra fredda. Non solo il principio dell'universalità dei diritti si sarebbe trovato sotto il fuoco incrociato delle diverse interpretazioni nazionali o regionali, ma non si sarebbero più date condizioni di politica internazionale che consentissero che esso venisse rilanciato quale fondamento comune per la costruzione del sistema post bipolare, come pure avrebbe potuto essere. 

È qui che, nella ricostruzione storica offerta da Birtolo, si sono andati ad innestare i relativismi espliciti e le loro divergenti interpretazioni dei diritti umani. Soprattutto in Asia e Russia sono state così generate condizioni critiche legali di offesa ai diritti umani, con l'avanzarsi in consistenti parti del globo di un modello molto rischioso nel quale l'efficienza fa premio sul rispetto dei diritti umani. Si è arrivati a interpretazioni dei diritti umani che, come scrive l'autore "hanno messo in dubbio la loro stessa ragion d'essere". 

Il consenso politico generalizzato era risultato eroso già nel 1993 a Vienna, in occasione della Conferenza Mondiale sui Diritti Umani di metà giugno organizzata dalle Nazioni Unite. 171 stati ribadirono il loro impegno, adottando una Dichiarazione e un Programma d'azione volti a promuovere e tutelare ovunque i diritti umani, ma non tutti coincisero nel significato attribuito all'espressione "diritti umani".  Le diversità erano sorte già alla vigilia, nelle Conferenze regionali in Asia (Bangkok), Africa (Tunisi), America Latina (San Josè di Costarica). Nei documenti approvati comparivano principi e indirizzi distanti da quelli fissati nel 1948, a causa delle differenze culturali e dei contesti storico-politici e storico-economici nei quali si erano ritrovate ad essere redatte. 

I 180 e più conflitti armati in corso a fine 2023, i ribaditi comportamenti assertivi e muscolari di stati ben armati come Cina Russia Turchia Israele, le repressioni inumane interne contro oppositori e minoranze da parte di decine e decine di regimi politici, lasciano capire che, a distanza di trent'anni il consenso generalizzato sui diritti umani non sia ancora stato costruito, e che alle diverse interpretazioni che se ne sono via via fornite, vada opposta una sorta di "scolarizzazione" che riparta dai fondamentali da tutti condivisibili per costruire un consenso che - almeno in questa stagione - appare perduto. Come scrive Birtolo non si può sfuggire alla constatazione che le troppe diverse interpretazioni dei diritti "hanno messo in dubbio la loro stessa ragion d'essere".

Tra le questioni che per l'auspicato consenso universale occorrerebbe risolvere vi è la (falsa?) alternativa tra diritti umani come conferimento della natura e diritti umani come conferimento della dignità umana. Chi optasse per i diritti come portato di natura, secondo l'autore, involontariamente finirebbe per penalizzare le condizioni per il mantenimento del livello di consenso generato dalle orribili offese alla dignità umana della Seconda guerra mondiale. Sarebbe stata la convergenza sui diritti umani come derivazione dalla dignità della persona, a consentirlo. In buona sostanza il riferimento alla "natura" renderebbe irto di ostacoli di carattere religioso, morale e ideologico la condivisione globale della giustezza dei diritti umani, a causa della prevedibile spaccatura tra il supposto "occidente" cristiano favorevole alla genesi "di natura", e quasi tutti gli altri. Secondo quella tesi, i diritti umani di filiazione "occidentale", risulterebbero appartenere culturalmente e politicamente solo all'evoluzione di una piccola area del pianeta e non potrebbero essere qualificati come "universali".  

L'autore ricorda che già in occasione della conferenza di Vienna, fu in particolare dall'Asia che arrivarono posizioni critiche rispetto alla gestione dei diritti umani che sarebbe stata fatta dalle Nazioni Unite a partire dal 1948. Nel brodo culturale e politico asiatico, l'assenza di liberalismo e la scarsa diffusione del cristianesimo non hanno consentito le condizioni storiche per l'attecchimento di una cultura dei diritti umani simile a quella in genere condivisa in Europa, che ha radici nel giusnaturalismo e prevalente attenzione ai diritti civili e politici connaturati ai singoli umani a prescindere da ogni altro loro titolo.

Al contrario, come analizza Birtolo in un capitolo ad hoc, gli asiatici muovono da un assunto relativistico (adattare il linguaggio dei diritti alle specificità locali derivate da storia e tradizioni) che rifugge dal considerare universali tutti i diritti umani, dando priorità ai diritti sociali ed economici, a partire da quelli collegati allo sviluppo. Quando, negli anni '80, con campione il primo ministro musulmano della Malaysia, Mohamad Mahatir, l'Asia arriverà a teorizzare i "valori asiatici" in opposizione a quelli "occidentali", la partita dei diritti umani si troverà collocata sul crinale scivoloso del confronto tra regimi politici. In ballo la formula democratica di governo, per gli uni a carattere "sociale", per gli altri a carattere "liberale", insieme al primato dell'individuo.

Con la formula Asian values, osserva Birtolo, si è negato ai diritti umani di aspirare alla funzione di   lingua franca dell'etica e del diritto nel nostro mondo. L'organicismo sociale e disciplinato proposto dal confucianesimo ha trovato nella tradizione solidale e produttiva fondata sull'autorità e la famiglia la piattaforma per l'arricchimento economico e la costituzione di società coese e armate, dove prevale l'ethos comunitario, avverso all'individualismo "occidentale" e alla visione universalistica dei diritti umani. Con il nuovo millennio e lo sviluppo impetuoso cinese, che faceva seguito a quello dei Nic, paesi di nuova industrializzazione, quella proposta sarebbe diventata un modello che avrebbe esso stesso tentato di proporsi come universale, imbellettando con i lustrini del successo materiale l'oppressione dello spirito dei regimi dispotici asiatici.

Correttamente nel libro viene evocata l'analisi di Daniel Bell, che già negli anni novanta aveva coniato per le forme di governo di molti paesi dell'Asia orientale il termine "democrazia illiberale" (nel frattempo utilizzato dalla pubblicistica anche per taluni paesi membri della Nato!), evidenziando come in quelle realtà politico-filosofiche non vi fosse spazio per i diritti umani, certamente non per come sono pensati in occidente. Pescando in Asia, Birtolo richiama le critiche che, ai "valori asiatici" avrebbe avanzato Amartya Sen. Un vero peccato che abbia dimenticato la figura di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace 1991, che già nel periodo londinese e poi nel corso della sua prigionia birmana, ha sempre coerentemente affermato che i diritti umani travalicano i regimi politici e i confini delle nazioni.

BORSE DI STUDIO FASS ADJ

B01 cop homo page 0001Progetto senza titolo

 

 PCSTiP FASS

foto Oik 2

Albino Barrera OP  -  Stefano Menghinello  -  Sabina Alkire

Introduction of Piotr Janas OP