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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

L’etica aristotelica

L’etica aristotelica poggia sull’ordine finale dell’essere. Ogni essere vivente del mondo è nel suo intimo (metafisicamente) un composto di atto e potenza. Ciò significa che esiste realmente, ma ha la possibilità (potenza) di svilupparsi ulteriormente. Questo vale in modo particolare per l’uomo. Egli porta con sé doni particolari nella vita, che però devono ancora essere sviluppati. L’uomo, conoscendo il finalismo delle sue potenze, riconosce come suo dovere lavorare su se stesso per sviluppare le sue diverse inclinazioni innate. Quindi le singole inclinazioni devono essere esercitate. Il risultato di questo esercizio è la natura esercitata ed educata, una più alta capacità di prestazione. Gli antichi chiamavano questo correttamente ‘virtù’. La parola tedesca ‘Tugend’ (virtù) non la esprime perfettamente. Essa restringe il concetto ‘più alta capacità di prestazione’ proprio sul piano morale. Aristotele, come d’altronde gli antichi, con il termine virtù intendeva semplicemente un perfezionamento di ogni capacità naturale. Solo a partire da ciò distinguevano tra virtù intellettuale e virtù morale. In realtà l’uomo può appropriarsi di virtù morali anche senza la scienza. Aristotele però pretendeva che ci fosse una precisa virtù intellettuale come premessa di ogni comportamento moralmente buono, e cioè la prudenza. Essa indica nei particolari quale strada l’uomo deve percorrere per raggiungere la sua perfezione.

Nell’etica moderna si parla a questo proposito del dovere e del corrispondente diritto dell’uomo all’autorealizzazione. In ciò è anche contenuto il perfezionamento dei mezzi di cui l’uomo ha bisogno per la sua realizzazione, quindi del mondo esterno, nella misura in cui esso appartiene alla vita dell’uomo.

Non sfiorava il pensiero di Aristotele l’idea di separare dal complesso della vita un particolare aspetto della felicità umana, come per esempio il benessere economico, e di assolutizzarlo, operazione che invece la scienza economica moderna compie. L’uomo antico pose la filosofia all’inizio di ogni studio, in quanto scienza completa dell’essere. Egli quindi era immune da ogni tentativo di dividere conoscenza e prassi dal senso dell’esistenza. L’autorealizzazione quindi non poteva limitarsi unilateralmente ad un solo campo della vita o delle attività. Il pericolo di una tale segmentazione è particolarmente grande nel campo economico, dato che la crescita economica teoricamente non conosce confini. Il problema però riguarda cosa l’uomo - hic et nunc - ancora può sopportare senza mettere in pericolo il suo star bene completo e la sua auto-realizzazione. L’infinità della crescita materiale ha i suoi limiti nell’uomo stesso.

 

L’etica cristiana

Anche l’etica cristiana, nella sua struttura fondamentale, è ontologicamente fondata. Tommaso D’Aquino ha inserito completamente l’ordine finalistico e di senso dell’essere nella sistematica dell’etica cristiana. Il carattere d’obbligazione riceve un approfondimento. Solo che ora le inclinazioni naturali non vengono più osservate soltanto per le loro finalità, ma anche come creazione di Dio, cosicché il collegamento con lo scopo ontologico viene compreso contemporaneamente anche come collegamento con la volontà di Dio e il fine o lo scopo sperimenta, attraverso la grazia soprannaturale, un superamento inaspettato, in parte perfino un cambiamento sensibile. In determinate condizioni lo scopo semplicemente naturale deve retrocedere a favore dell’obiettivo soprannaturale più alto. Lo scopo allora non è più soltanto lo sviluppo delle disposizioni naturali, soprattutto non è la stoica felicità dei sensi, ma la perfezione che corrisponde a quella del Padre celeste. Come Tommaso D’Aquino (S.Theol. I-II 63,4) espone, in questo modo cambia anche l’oggetto. "La quantità di cibo ingerita, per esempio, viene stabilita dalla ragione umana, in una misura tale da non nuocere alla salute del corpo e non ostacolare l’attività intellettuale. Allo stesso tempo le leggi divine richiedono che l’uomo ‘castighi il suo corpo e lo riduca all’obbedienza’ (1 Cor. 9,27) attraverso l’astensione da cibo, bibite e altro. Da ciò si deduce che la virtù infusa della temperanza e quella acquisita si distinguono secondo la specie; lo stesso vale per le altre virtù."

Questa svolta che la morale cristiana attua nell’etica naturale ha di per se stessa anche conseguenze che riguardano la posizione puramente umana di fronte ai progressi tecnici e alla crescita economica. Anche la sola riflessione puramente razionale sullo scopo del progresso tecnico e della crescita economica ha posto limiti tangibili, e la semplice aspirazione naturale alla felicità si deve mantenere nelle norme che gli sono state donate dalla natura. Ciò significa che progresso e crescita possono essere perseguiti solo all’interno della perfezione umana totale. La divinizzazione della natura attraverso la grazia richiede quindi dall’uomo una certa rinuncia, alla quale egli, coinvolto nel peccato originale, non potrebbe mai pensare. Il comandamento della sequela di Cristo rende tutto ciò chiaro. Esso non pretende tuttavia con ciò la rinuncia al progresso e alla crescita materiali, ma esorta ad una ponderazione prudente del desiderio di progresso e crescita, da una parte, e del pericolo incombente, dall’altra parte, di perdere l’obiettivo soprannaturale. "Che giova infatti all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?" (Marco 8,36). Quale uomo saggio non vorrebbe seguire la via più sicura, anche se la più difficile? Questo pensiero ha dominato l’etica dell’uomo antico e medievale. Solo così si spiega la difficile ascesi dei monaci, che serviva universalmente come modello. La teologia morale era indirizzata totalmente alla perfezione individuale. Da ciò si capisce anche la posizione di rifiuto verso il perseguimento dei profitti e di conseguenza anche il rifiuto dell’interesse bancario 1.

Anche se la dottrina sociale cattolica riconosce totalmente la "giusta ragione" (recta ratio), quindi il diritto naturale, però allo stesso modo lo studioso cattolico di discipline sociali dovrebbe in ogni momento avere come orientamento la dimensione soprannaturale della morale cristiana, in modo che egli nel campo naturale possa porre i giusti accenti. Dovrebbe lasciar perplessi un economista cattolico che - contro l’invito di Cristo alla rinuncia a quanto ci offre il mondo - unicamente in nome della crescita economica, spingesse all’aumento dell’offerta e della domanda e quindi dei consumi. Certamente egli vorrebbe combattere la disoccupazione. Di fronte alla disoccupazione di massa si pone però la domanda se questo tipo di crescita non sia la causa dell’attuale società del benessere, con il suo sistema a due classi: chi guadagna bene e chi beneficia dei sussidi di disoccupazione o sociali. Questa disoccupazione può essere eliminata solo se si va alla radice del problema, che si trova in profondità.

 

L’aspirazione al progresso e alla crescita nell’economia moderna

L’economia nella sua essenza è un’attività sociale, perché attraverso essa le prestazioni dei singoli vengono scambiate reciprocamente. Per questo deve essere prodotto un più grande risultato in termini di benessere materiale. Per raggiungere questo scopo deve essere incentivata la spinta di ciascuno a produrre. E questo si raggiunge solo quando si mette in moto la motivazione in qualche modo più sicura e de facto più diffusa per l’uomo: il reddito materiale che i singoli possono trarre dal proprio lavoro. Nell’interesse del benessere comune, nella misura in cui lo si considera solo dal lato materiale, esiste dunque la possibilità di realizzare un sistema in cui ognuno al confronto dell’altro contribuisce con il maggiore rendimento possibile. E questo sistema si chiama economia di concorrenza. Ciascuno è costretto a superare l’altro in base ad una prestazione migliore. La concorrenza finirebbe nel momento in cui non fosse più possibile aumentare la prestazione di entrambi. Ma questo non lo accetta nessuno, perché la crescita economica è considerata infinita. Succede così che chi si trova in concorrenza non si riposa mai. La vertenza sulla regolamentazione dell’orario di chiusura dei negozi e del lavoro domenicale lo stanno a dimostrare. Nel sistema di concorrenza ognuno deve puntare a superare la sua precedente prestazione. Per un imprenditore ciò significa che egli deve continuamente aumentare i profitti.

Questa corsa inarrestabile verso il profitto non viene condannata dalla visione cristiana in quanto rappresenta un valore in relazione al vero benessere generale, al quale appartiene anche lo stato spirituale della società. Ma che cosa si deve fare con i profitti e cosa deve fare il lavoratore con il suo reddito salariale? Per rispondere a questa domanda è utile la fondazione etica della proprietà privata.

 

La finalità etica della proprietà privata

La proprietà privata, che si ottiene attraverso lo sforzo individuale per guadagnare e rende possibile l’economia di concorrenza, non è - come spiega Tommaso D’Aquino 2 - giustificata perché procura al possessore un più grande vantaggio materiale, ma perché, attraverso un’attenta amministrazione dei beni, è più utile al bene comune. Questo, già in conformità al pensiero razionale, è il vero senso del sistema della proprietà privata; ma in questo modo allo stesso tempo si realizzano anche le esortazioni evangeliche. Attraverso l’economia di concorrenza fondata sulla proprietà privata, la bassa tendenza ai guadagni radicata nel peccato originale, viene nobilitata e trasformata nell’assunzione della responsabilità personale per un’amministrazione efficiente, al servizio del bene comune. I sostenitori dell’economia di mercato però non pensano assolutamente a questa ipoteca morale. Si parla solo di diritto individuale di amministrare la proprietà a propria discrezione.

Questo potrebbe essere vero secondo la pura considerazione giuridica cioè in relazione al rapporto dell’uomo con l’uomo. Nessun privato ha il diritto di rubare o di imbrogliare un proprietario di beni. Questo però non funziona più in rapporto alla morale, che è implicata nella deduzione del diritto alla proprietà privata dal bene comune. Dal punto di vista del bene comune, la privatizzazione dei beni ha il solo scopo di garantirne un’amministrazione più efficiente. Lo scopo (ad esso) superiore di indirizzare l’uso dei beni materiali all’utilità comune conserva ancora la priorità. Anche se il proprietario può avere il diritto di usare la sua proprietà secondo coscienza, sottostà comunque all’imperativo finale dell’utilità comune. Fintanto che lo Stato non emana una particolare norma giuridica che tiene conto del bene comune, il proprietario è giuridicamente libero nel disporre dei suoi beni. Moralmente però egli rimane sottomesso all’imperativo del bene comune. Questo i padri della Chiesa l’hanno espresso giungendo a dire che il proprietario non è in effetti tale, ma soltanto amministratore, e cioè amministratore in nome di Dio. Per questo Basilio ha usato l’espressione che colui che si definisce proprietario è un ladro 3.

L’uso della proprietà privata, sia quella nata attraverso il lavoro che quella nata attraverso la prestazione dell’imprenditore, sottostà quindi, come detto, all’imperativo del bene comune generale. E al bene comune appartengono molte cose, prima di tutto l’accesso al lavoro per tutti quelli che lo vogliono e all’assunzione della responsabilità dell’azienda. Inoltre tutti dovrebbero essere in grado di far fronte con il proprio reddito non solo ai costi di sussistenza, ma anche, secondo il sistema della proprietà privata, alla pensione e all’assicurazione sanitaria, per non cadere nella tentazione di addossare queste previdenze alla comunità, o di pesare sull’azienda sotto forma di costi salariali. Dai redditi da lavoro e dai guadagni di impresa dovrebbero anche essere trattenuti versamenti allo Stato per le spese di uso comune che esso sostiene. Tutto il sistema della proprietà dovrebbe stimolare il senso di responsabilità in vista di un più efficiente sfruttamento dei beni materiali, evitando ogni spreco, in favore di tutti i membri della società e anche – cosa di cui tener particolare conto – di quelli dei Paesi in via di sviluppo.

Oggi constatiamo il contrario. Le aziende investono il loro guadagno nell’azienda per risparmiare forze lavoro e abbandonano i disoccupati alle istituzioni sociali, che possono esercitare il loro compito solo con l’aiuto delle finanze dello Stato. Lo strumento dei costi aggiuntivi del salario è un segno chiaro del fatto che l’attuale sistema sociale di mercato cammina su una strada sbagliata, lasciando aperta la questione se per colpa propria o sotto la spinta delle associazioni di rappresentanza.

Tutto questo è stato causato dall’interpretazione materialistica ed individualistica del benessere. Sia di fronte a domande ecologiche che a valori sociali, culturali e morali, e altri, l’industria spinge sempre all’espansione e alla crescita economica. Questa politica economica materialistica viene rafforzata dalla minaccia: "Altrimenti ci minaccia una ancor maggiore disoccupazione". Raramente o mai vengono calcolati i costi sociali che nascono dalla decadenza culturale e morale. Nelle statistiche americane dei disoccupati non vengono calcolati i molti che si trovano in carcere. Anche le cifre che si riferiscono ai disoccupati da lungo tempo che non hanno più una possibilità di occupazione non vengono considerate: essi vivono dell’aiuto delle istituzioni sociali, che evidentemente non hanno niente a che fare con l’economia. Dell’indescrivibile situazione dolorosa delle molte persone che vorrebbero lavorare nessuno si può prendere cura. L’unica preoccupazione, come si constata, è di portare avanti l’espansione, nella illusoria speranza, che l’aumento dei profitti crei nuovi posti di lavoro.

 

Dov’è l’errore di ragionamento?

L’errore fondamentale è di tipo gnoseologico. La scienza economica in sé è una scienza della ragione teoretica. Diventa pratica solo quando è chiamata in causa la responsabilità. E questo succede nella determinazione dell’obiettivo delle regole della concorrenza. In effetti queste hanno già uno scopo intrinsecamente determinato, l’efficienza economica, ma essa deve indirizzarsi alla totalità del benessere della società. In se stessa non ha ancora questo fine; deve essere affrontato dal politico. Solo così diventa oggetto della ragione pratica.

Prima di tutto quindi il politico deve definire il bene comune all’interno del quale prende il suo posto l’economia. Questo è un compito proprio del raziocinio pratico. L’economista comunque risponderà che egli considera suo unico compito quello di produrre una grande quantità di beni, capace di attirare i cittadini all’acquisto. Tutto il resto è compito di quell’ambito che si chiama società. Se questa risposta fosse valida, allora la politica economica non sarebbe compito del raziocinio pratico, ma una prestazione puramente tecnica, un calcolo intelligente. Ciò significherebbe che la politica economica non è una parte della politica sociale. Ma proprio questo è fondamentalmente sbagliato. L’economista resta responsabile delle conseguenze della separazione dell’economia dall’ambito della società. Il benessere della società è sostanzialmente unico e al suo interno l’economia copre solo una parte.

Nelle scienze sociali oggi - in buona parte sotto l’influsso del neokantismo - nell’ambito del pensiero pratico si è affermato il formalismo. La politica viene definita come lotta per l’influsso sul potere statale, e in questo modo il bene comune è stato escluso anche da questo campo ed è stata eliminata la responsabilità morale, che è l’elemento essenziale di una scienza pratica. Nella giurisprudenza ci si impegna solo nella costruzione logica delle norme sociali (Kelsen) obbligatoriamente applicabili, così che, dal punto di vista giuridico, è irrilevante se si tratta di un sistema legale sovietico o liberale. In questo modo oggi ogni scienza sociale può evitare di dare una definizione di bene comune, a meno che si decida seconda la volontà della maggioranza, anche se a certe condizioni si prevede che la maggioranza si possa esprimere a favore di un sistema di violenza. Non si può più parlare dell’integrazione in un concetto universalmente umanistico della ragione pratica. La nostra vita sociale è dominata da regole formali dell’azione umana. Il filosofo della vita è condannato al silenzio.

 

Il ricorso all’etica cristiana

Nella visione cristiana il proprietario è tenuto ad una severa moderazione nel consumo. Egli quindi si pone di fronte alla crescita dei consumi col massimo scetticismo. L’economista invece stimola la domanda, perché altrimenti la produzione non avrebbe senso. Ebbene la domanda non deve essere identificata con il desiderio di consumo. Anche il monaco più austero che si dedica alla scienza ha bisogno di mezzi di produzione, almeno di una ricca biblioteca. Questo oggi, nell’epoca dell’informatica, vale ancora più di prima. Francesco d’Assisi comunque proibì ai suoi fratelli anche di possedere opere scientifiche, perché lui voleva far nascere soltanto un movimento di povertà, per il quale non prevedeva neanche un’organizzazione. Solo attraverso Bonaventura è stata aperta la via al possesso (non alla proprietà 4) di immobili e mezzi di produzione da parte della Comunità. In modo diverso Domenico ha reso la scienza un dovere per il suo Ordine, cosicché la proprietà (collettiva) dei mezzi di produzione era ovvia. Naturalmente è stata conservata una stretta povertà riguardante i beni di consumo in senso stretto, e ciò riguardava anche i mezzi di trasporto. Così Alberto Magno, quando è diventato Superiore generale dell’Ordine e ha guidato un Capitolo Generale, ha confiscato i cavalli, sui i quali erano arrivati alcuni Priori Provinciali. Anche se, come abbiamo appena detto, il monachesimo aveva un certo influsso sulla valutazione comune dei beni materiali, non è stato riconosciuto come norma per gli altri cristiani. Nei libri di morale però è stata prescritta moderazione e modestia nei consumi, non per ultimo allo scopo di mettere a disposizione dei poveri ciò di cui non si aveva bisogno. Da qui l’ammonimento continuamente ripetuto: il superfluo appartiene ai poveri. "La legge degli uomini non può rompere con l’ordine naturale o con la legge divina. Secondo l’ordine naturale voluto dalla Provvidenza divina, le cose inferiori sono state fatte per servire alle necessità umane. Perciò la distribuzione e la presa di possesso delle cose - un’opera del diritto umano - non impediscono di impegnare queste stesse cose per lenire le necessità umane. Quindi ciò che alcuni possiedono in sovrappiù, a causa della legge naturale è dovuto ai poveri per il loro sostentamento" 5.

Al contrario il rappresentante dell’economia di mercato conta sull’avidità dei suoi concittadini. Questa deve addirittura essere stimolata, affinché l’offerta trovi il suo sbocco. E’ vero che la pubblicità dovrebbe provare in prima linea l’utilità finora sconosciuta di un prodotto, però si fa conto, soprattutto per i beni di consumo, dell’insaziabilità dei consumatori. Questo serve nel mercato attuale anche, così si dice, a creare posti di lavoro.

Questa però non è la politica occupazionale che l’etica cristiana consiglia attraverso l’esortazione alla moderazione e alla vita semplice in favore del fratello. La prima legge della politica economica recita: lavoro per tutti, non in quanto diritto individuale al lavoro, ma come diritto ad una politica di piena occupazione. In sé anche l’economista aderisce al dovere della piena occupazione però la sua concezione è pensata fin dall’inizio a livello mondiale nel senso di una economia di mercato estesa a livello internazionale. Egli può facilmente sorpassare i confini nazionali per il fatto che, a causa di una interpretazione del benessere puramente materiale, può del tutto dimenticare il mondo etico e culturale dei lavoratori. Si giustifica con la proposta della globalizzazione del processo economico. L’etico e soprattutto il cristiano questo non lo può accettare. L’uomo ha bisogno di una patria come ambiente del suo matrimonio e della sua famiglia. E questo è garantito solo all’interno di una nazione. La posizione riguardo alla dimensione del benessere materiale è infatti diversa in ogni nazione. Il lavoratore non si lascia globalizzare come il capitale. Il Cristianesimo è certamente orientato anche all’universale e al globale, ma l’azione cristiana parte sempre dalla patria (Heimat), dove risiede la famiglia.

La richiesta di una piena occupazione ispirata allo spirito cristiano si rivolge quindi prima di tutto allo Stato nazionale. Questa politica non significa un restringimento degli orizzonti. La vita semplice, a cui invita l’etica cristiana, deve prima di tutto essere al servizio di quelli che non hanno ancora raggiunto lo stesso standard di vita. In altre parole, dobbiamo cercare all’interno della nostra economia nazionale quella piena occupazione sociale e culturale che è stata prevista e, in questo contesto, dobbiamo parimenti fare attenzione ad una amministrazione il più efficiente possibile, per evitare ogni spreco e con l’intenzione di poter investire in altre economie nazionali rimaste ancora indietro. Siamo quindi obbligati, nella misura in cui è possibile, a realizzare concretamente il principio di concorrenza nella nostra economia nazionale, il quale contiene anche la responsabilità dei singoli di far fronte alle proprie necessità e di non pesare sulle istituzioni sociali.

La politica economica ispirata all’etica e soprattutto quella cristiana non è contro, come si vede, né la proprietà privata né la concorrenza, ma ha un carattere totalmente diverso, più umanitario, della concezione di crescita corrente, per la quale l’unico scopo è il puro benessere materiale.

Naturalmente anche questa politica economica umanitaria deve inserirsi nella concorrenza internazionale. Anche la politica salariale deve quindi mantenersi nei limiti. Nel suo insieme però questo sistema è più economico perché abbatte tanti costi sociali dell’attuale sistema di mercato. Soprattutto cadono gli alti costi aggiuntivi di lavoro; non per ultimi i costi procurati dalla criminalità, che una società socialmente pacificata non avrà bisogno di sostenere.

 

Il compito dello Stato

Un maggiore impegno dello Stato è comunque inevitabile. Evidentemente lo Stato, nella misura in cui è possibile, deve usare politiche adatte al mercato. Quando queste non sono più efficaci, resta però come alternativa soltanto, o la capitolazione davanti al concetto materialistico di una crescita senza fine, con la conseguenza di grande disoccupazione e rafforzamento della società a due classi, oppure l’accettazione delle condizioni macroeconomiche del mercato finanziario e del lavoro, che la direzione politica deve continuamente definire in modo nuovo. Il calcolo economico generale migliora se manteniamo modestamente la massimizzazione nei limiti della politica di piena occupazione.

Non è compito dell’etica definire le singole misure della politica economica. Ma è suo compito indicare l’ordine dei valori. Al primo posto, ancora prima della proprietà privata, è la definizione concreta di bene comune, la sua dimensione materiale e spirituale. E’ quindi importante stabilire che tutti hanno il diritto di partecipare al processo economico, sia come prestatore di lavoro, sia come imprenditore. Quindi si pone la domanda, quale sia il modo più sicuro per motivare il desiderio di produzione senza mettere in pericolo lo sviluppo spirituale della società, il suo ‘capitale umano’. Si tratta quindi di capire in quale misura si può considerare regola la concorrenza nello scambio economico. In questo modo è esclusa fin da principio l’economia di mercato teorica, pensata al tavolino come unica valida, non influenzata dal sistema di regole statali. Ciò che viene richiesto non sono regole applicabili meccanicamente, ma saggezza che viene da un ethos morale contenuto nelle anologhe applicazioni del principio: "Così tanta proprietà privata e libera autodeterminazione quanta è possibile e così tanti interventi statali quanti necessari".

 

 

NOTE

1 L’interesse d’altronde, dal punto di vista puramente razionale, è stato considerato riprovevole, nella misura in cui una cosa fosse definita un prestito esauribile attraverso l’uso, come per esempio nel caso del prestito di una pagnotta di pane. Per esso non si può pretendere in cambio la restituzione di due pagnotte o il pagamento di interessi. Il quinto Concilio Lateranense (1512-1517) nella sua decima seduta ha così definito il prestito di soldi. I soldi vengono considerati un puro mezzo per lo scambio, consumato già nel suo primo impiego. Da questo punto di vista è usura il prestito di denaro in cambio di interessi. In modo diverso ci si comporta quando invece che pane si presta una patata che viene usata come seme. In questo caso la patata è un mezzo di produzione, per il cui prestito si può calcolare un interesse perché il proprietario avrebbe lui stesso potuto usarla come seme. Quindi il denaro diventa capitale solo quando il creditore con esso può comprare un mezzo di produzione. E questo è quanto succede in una società dello scambio. L’interesse acquista un significato diverso dalla sua funzione nella società. I teologi del medioevo avevano già riconosciuto questo sviluppo, dato che parlavano di "mancato profitto" (lucrum cessans), quando si presta il proprio denaro a qualcun altro senza risarcimento.

2 S. Teol. II-II 66,1+2.
Cfr. il mio commento a proposito in: Tommaso D’Aquino, Recht und Gerechtigkeit, Bonn 1987.
3 Cfr. il mio commento citato nella nota precedente.

4 Proprietario degli immobili doveva essere la Santa Sede.

5 Tommaso D’Aquino, S.Teol. II-II 66,7. Nell’edizione "Legge e giustizia", pag.122.

Traduzione dal tedesco di Simona Di Ciaccio

 

B. Vinaty: La magia è magica

T. Di Bonito, G. Sciamplicotti, A. Urso: Prosocialità e altruismo: una strada da percorrere

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