Seleziona la tua lingua

Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

Le nuove frontiere dell'intermediazione bancaria nella new economy

L'incalzare di banking e dell'on-line trading da parte di distributori monotematici ha modificato il tradizionale assetto competitivo aprendo una nuova frontiera dell'intermediazione bancaria e finanziaria grazie a know-how, flessibilità organizzativa, mispricing e capacità di poter contare su un rapporto costi totali/ricavi totali più contenuto rispetto al sistema bancario tradizionale.

Alle banche si richiede, pertanto, una risposta adeguata al mutamento della variabile tecnologica attraverso la diversificazione della politica della comunicazione; la valorizzazione delle competenze delle risorse umane impegnate nel contatto con la clientela; la costruzione di una matrice prodotto-cliente che rispetti i livelli di propensione al rischio della clientela; la valorizzazione dei servizi alle imprese in un'ottica di banca di riferimento.

La tecnologia assume un ruolo sempre più strategico nel governo dell'impresa bancaria e negli aspetti di reingegnerizzazione organizzativa. Le banche più attive sono pronte a cogliere le opportunità derivanti dal cambiamento, riconoscendo che le fonti della creazione di valore dei servizi finanziari non rimangono costanti nel tempo.

Gli agenti del cambiamento tecnologico sono riconducibili allo sviluppo della banca virtuale, che si è articolato in tre fasi successive. Nella prima si affermano i distributori automatici di contante (ATM), le carte di credito e debito e il canale telefonico. Nella seconda si diffonde il canale personal/computer per accedere ai servizi bancari e finanziari e al commercio elettronico: inoltre vengono introdotte le smart card e il borsellino elettronico, destinato quest'ultimo a sostituire il contante per i pagamenti di piccolo importo. Infine, nella terza ondata si sviluppa il commercio elettronico su larga scala. Il fattore fondamentale dell'avvio diffuso di quest'ultima area è rappresentato da obiettivi di razionalizzazione delle risorse, da riduzione dei costi, da qualità ed efficienza dei servizi. Tutte queste fasi hanno un fattore comune: l'essere state rafforzate dai progressi nelle capacità di processare i dati, di archiviarli e trasmetterli velocemente.

La tecnologia favorisce, infatti, la comunicazione, velocizza i processi di apprendimento e diffonde una nuova cultura della soddisfazione grazie alla possibilità di acquisire informazione in tempo reale.

I nuovi media consentono la produzione sia di informazione sui beni fisici, sia la meta informazione, ossia la valutazione qualitativa che tende a contraddistinguere una informazione come completa, puntuale, persistente consistente aggiornata e finalizzata a nuovi business, spesso a partire da bisogni latenti all'interno del mercato.

Lo scenario digitale è uno scenario globale, caratterizzato da uno spostamento del valore aggiunto dalle infrastrutture fisiche a quelle non fisiche (servizi, applicazioni e contenuto) e dal passaggio del ruolo guida del mercato dall'offerta alla domanda. Per adeguarsi alle nascenti dinamiche dei mercati digitali, anche la struttura dell'azienda tende a modificarsi. Essa è chiamata a ridefinire le proprie dinamiche interne in modo da evolvere verso modelli più snelli, orizzontali e meno burocratici, detti anche virtuali. La logica organizzativa che deve cambiare è quella fordista, identificabile sia nella sua accezione di modello di produzione, sia in quello di sistema gerarchico piramidale.

La tecnologia determina pertanto, anche per la banca, la possibilità di muovere parte dei processi produttivi, sfruttando aree di minor costo ma anche dando origine all'outsourcing soprattutto in relazione a funzioni di supporto. Si afferma pertanto il modello di impresa virtuale caratterizzato dalla de-integrazione e delocalizzazione dei processi produttivi e si schiudono per la banca nuovi ruoli come ad esempio outsourser di un vasto numero di servizi destinati al mercato aperto. Il riassetto organizzativo comporta una razionalizzazione dell'uso dei fattori produttivi e una separazione delle fasi di produzione da quelle di distribuzione dei servizi.

Il problema di fondo è di individuare e realizzare una rete distributiva coerente con gli obiettivi strategici aziendali. Per il sistema bancario italiano la funzione distributiva è l'anello debole della catena di valore, poiché legata ad un approccio tradizionale e a costi elevati di gestione. A tal fine occorre sviluppare ambienti interattivi che, da un lato, facilitano la fruizione dei servizi finanziari e rendono più autonomi i clienti, dall'altro, consentono di conseguire un maggior livello di efficienza nella struttura dei costi operativi e transazionali e un alleggerimento dei carichi di lavoro.

La gestione dei canali in un'ottica di integrazione e di concorrenza è tutt'altro che semplice e implica la messa in campo di nuovi e onerosi presidi organizzativi (call center; assistenza clienti)

Diventa imprescindibile che all'interno della strategia multicanale, ciascun canale assuma un proprio ruolo e l'intero assetto distributivo sia designato con una chiara strategia che eviti cannibalizzazione tra canali.

Ciò richiede di comprendere e di sviluppare conoscenza con riferimento al proprio mercato di sbocco con l'obiettivo di identificare se le strategie di specializzazione, di diversificazione e di standardizzazione delle proposte di offerta siano la risposta ottimale per ogni canale distributivo o se invece rappresentino delle soluzioni migliori solo per certe categorie di distributori di servizi bancari e non rispetto ad altri.

Occorre, pertanto, ridisegnare il proprio sistema distributivo in un'ottica di indipendenza, oppure di integrazione, o di complementarietà.

Nel primo caso (indipendenza) si richiedono forti investimenti iniziali in un sistema informativo indipendente a fronte di una operatività a costi contenuti e di forti vantaggi di comunicazione. Tale modello concorrenziale, che risulta essere estremamente reattivo alla dinamica ambientale ma che presenta al tempo stesso rischi di selezione di clientela, è stato seguito da soggetti non bancari che hanno valorizzato il proprio portafoglio clienti attraverso una gestione remota delle relazioni di clientela .

L'approccio integrato si muove su una infrastruttura informatica capace di distribuire in circolarità le informazioni su tutti i canali al fine di un miglioramento generale del servizio di clientela, non differenziabile, però, in termini di politica commerciale.

L'approccio complementare si caratterizza da un coordinamento dei diversi canali distributivi che mantengono una indipendenza in termini di prodotto, comunicazione e prezzi; un approccio adatto alle banche di medie dimensioni con finalità espansionistiche attraverso una diversificazione dei canali distributivi.

La scelta del modello è connessa anche al concetto di organizzazione virtuale e, quindi, al quesito se una banca virtuale s'identifica in una organizzazione virtuale.

Secondo la definizione della Ernst Young, la banca virtuale è un processo evolutivo per il quale la banca distribuisce ai clienti nel modo più efficiente ed efficace possibile prodotti che sono il frutto di accordi di collaborazione tra diverse imprese leader nei rispettivi settori di attività. I costi di switching, ossia di assegnazione e di ri-assegnazione dei fabbisogni della banca con i partner e fornitori più appropriati, sono estremamente contenuti in una infrastruttura informatica.

Ciò è valido, in particolare, per la funzione distributiva che viene condivisa da più operatori economici - la grande distribuzione, le assicurazioni, le telecomunicazioni, l'informatica - che dimostrano interesse nel diversificare la propria offerta verso il comparto dei servizi finanziari.

Si può intuire che sotto tale profilo i canali virtuali sono una entità autonoma, indipendenti dal sistema distributivo della banca di appartenenza, in grado di coprire i propri fabbisogni presso fornitori esterni che non presentano legame alcuno con il gruppo; in un processo di integrazione la remotizzazione dei servizi si potrebbe tradurre in costi aggiuntivi, laddove la banca non riesca a ridurre in modo significativo i costi connessi ai canali tradizionali.

L'esigenza di muovere un interscambio sistematico di esperienze e conoscenze fra i partners è alla base delle organizzazioni virtuali; circostanza questa verificabile ad esempio nel caso di prodotti e servizi standard e non estensibili ad altre tipologie di business. Le sfide provenienti dal mercato richiedono, pertanto, forme di organizzazione molteplici in grado di accrescere il ruolo di catalizzatore della banca attorno al quale concentrare gli operatori economici appartenenti a settori differenti, mantenendo il presidio delle relazioni di clientela e gestendo e controllando i canali di comunicazione e di interazione. L'obiettivo della banca sarà quello di proporsi come gestore della relazione nei confronti di pubblici molteplici tra loro differenti.

Reimpostare il sistema di erogazione dei servizi impone di rimettere il cliente al centro della propria strategia ricercando come obiettivo anche quello di permettergli di fare banca secondo le modalità di accesso che egli preferisce. In altri termini, lo stesso consumatore, in funzione delle proprie esigenze specifiche riferite a un determinato momento, potrà preferire l'uno o l'altro canale di accesso. Sarà, però, importante che la banca nel frattempo si sia attrezzata con una pluralità di canali gestiti in modo integrato o quantomeno sinergico o abbia comunicato al mercato la strategia sottostante.

La nuova struttura multicanale integrata a forma stellare si snoda, pertanto, dalla filiale tradizionale con ruolo di supervisore dello sviluppo commerciale, dello svolgimento delle attività amministrative e per il supporto logistico operativo e di presidio con i negozi finanziari e i promotori. I presidi fisici integrati con i presidi virtuali costituiscono il network commerciale.

Le trasformazioni in atto nel quadro complessivo dell'attività bancaria non possono tradursi in un semplice potenziamento tecnico operativo, come è avvenuto con l'introduzione del bancomat, ma devono comportare la predisposizione da parte delle banche di una forte innovazione delle risorse umane coinvolte nel processo.

In un contesto di così elevata incertezza, quale quello dell'E society, l'impresa banca deve promuovere il necessario turnover cognitivo e la circolazione di nuove competenze, che possono essere acquisite nel mercato esterno del lavoro o sviluppate nell'ambito del mercato interno del lavoro.

Attrarre, sviluppare e mantenere i talenti migliori in un mercato caratterizzato da una dinamica concorrenziale e da un senso di appartenenza debole degli individui alle organizzazioni pone nuove sfide al management delle risorse umane delle banche e suggerisce un profondo ripensamento in termini di elaborazione e gestione delle politiche del personale.

Alla valorizzazione e allo sviluppo delle competenze deve affiancarsi una capacità di creare contesti stimolanti tesi ad attivare le potenzialità talvolta sommerse.

La tecnologia ipermediale offre un'occasione inedita per sperimentare forme più ricche di conoscenza all'interno della banca e fra banca e clienti. La relationship technology disegna nuove modalità di informazione, consulenza e servizio per la clientela fondate sulla conoscenza e sul capitale intellettuale inteso come interazione tra capitale umano e capitale cliente.

In questa prospettiva l'avvento della cosiddetta “New Economy” va al di là della semplice riduzione dei costi delle banche, nella misura in cui si attribuisca adeguata attenzione alla centralità dell'individuo.

Come ha scritto Pierre Lèvy (1996): "L'ultima frontiera risulterà essere l'umano, ciò che non è automatizzabile: l'apertura di mondi sensibili, l'invenzione, la relazione, la creazione continua del collettivo. Al di là della loro diversità, le professioni contemporanee hanno quasi tutte in comune certe attività di cooperazione, relazione, formazione e apprendimento permanente"..".

Lo sviluppo del potenziale specifico della persona può essere foriero di una dimensione etica nella conduzione delle aziende finanziarie?

Le nuove modalità di informazione, consulenza e servizio per la clientela fondate sulla conoscenza e sul capitale intellettuale dovrebbero favorire una condotta corretta nei rapporti fra banca, dipendenti e clienti. Tuttavia ciò si risolve nel rispetto di comportamenti professionali deontologici o può prefigurare nuove interazioni tra dimensione etica e ottimizzazione della redditività aziendale?

La richiesta a tutti i livelli di una competenza d'avanguardia e di un accrescimento della competitività potrebbe trasformare il contesto bancario da una foresta pietrificata, quale era la realtà della banca e del sistema bancario di alcuni decenni fa, a una giungla selvaggia in cui andrà ad operare la banca della nuova economia.

Disporre di professionalità coerenti con le nuove modalità di fare banca fondate sulla conoscenza comporta comunque uno sforzo notevole, anche sotto il profilo etico, nel predisporre programmi di formazione permanente che dovranno interessare un numero considerevole di risorse umane, nel prevedere eventi per promuovere l'interazione tra le persone, nell'utilizzare strumenti in rete che comunichino valori e missioni condivisi. Una testimonianza responsabile che assicuri la necessaria crescita qualitativa del personale con l'indispensabile riduzione dei costi.

A fronte di una dimensione etica da sviluppare all'interno della gestione aziendale, in un contesto caratterizzato dall'accrescimento della produttività e dalla riduzione dei costi, in cui le imprese sono più interdipendenti e intercomunicanti all'interno di filiere virtuali, quale sarà il ruolo di una finanza etica caratterizzata, da un lato, dalla presenza di investitori attenti ai valori sociali, (ossia consapevoli delle ragioni di fondo che producono tale redditività, che vogliono essere informati delle caratteristiche dei beni prodotti, vogliono conoscere la localizzazione dell'impresa e controllare il modo in cui vengono condotti gli affari) e, dall'altro, dalla presenza di intermediari che si facciano carico di problematiche sociali attraverso una politica di investimenti etici.

 

Finanza, responsabilità sociale e new economy

Il dibattito circa la dimensione etica della finanza in prospettiva sarà intenso; spinge a tale convinzione il fatto che il mondo delle fondazioni bancarie in Italia è interessato da fenomeni di ristrutturazione istituzionale che spingono a riconsiderare gli elementi che compongono la loro filosofia di intervento. Da più parti si sottolinea che la filosofia di fondo di queste istituzioni e degli altri organismi bancari che hanno un importante ruolo sociale deve essere sottoposta a una attenta revisione in ragione dell'attuale sensibilità verso l'intera gamma di obiettivi etici in un contesto che sta subendo profonde modificazioni con l'avvento dell'information tecnology.

In generale, il tema della finanza etica va ricondotto ai rapporti di delega tra l'investitore e il gestore nella scelta degli investimenti; ai comportamenti etici necessari per il funzionamento ottimale del mercato finanziario (insider trading); alla selezione di investimenti con finalità sociali.

Soffermandosi sul concetto di investimenti etici verifichiamo che essi consistono nella selezione e nella gestione di investimenti che rispettano criteri etici e di natura sociale.

Particolare rilevanza assumono in tale contesto gli investitori, gli intermediari e le imprese, quali attori principali di una finanza etica.

Per quanto concerne gli investitori, è usuale distinguere coloro che assumono comportamenti finanziari etici conformemente al proprio stile di vita, da quelli per i quali, a fronte di comportamenti produttivistici, l'etica rappresenta un surrogato della beneficenza.

Gli intermediari etici operano un processo di trasformazione dei flussi finanziari tra investitori etici e unità in deficit, qualificabili come unità etiche sulla base di criteri positivi e negativi.

Con riferimento ai criteri positivi i soggetti affidabili sono quelli che operano, ad esempio, nella protezione dell'ambiente e nel riciclo dei rifiuti, nei progetti per il terzo mondo, nell'assistenza agli anziani, nei progetti di riscaldamento a basso livello di inquinamento.

Con riferimento ai criteri negativi sono considerate non etiche e quindi, rappresentano prenditori non affidabili, le imprese, ad esempio, appartenenti a paesi che non rispettano i diritti civili, che operano nelle industrie degli armamenti, degli alcolici, del gioco d'azzardo, del tabacco, della pornografia, della pellicceria, dei pesticidi, dello sfruttamento dell'energia nucleare.

Infine, la strategia sociale delle imprese si ravvisa nelle responsabilità sociali dell'imprenditore, attraverso ad esempio misure a tutela del lavoratore.

In generale, possiamo osservare che l'assunzione di criteri etici positivi da parte di un intermediario può allargare lo spazio di bancabilità dei progetti imprenditoriali interessanti dal punto di vista etico, quali progetti di piccole dimensioni proposte da minoranze sociali per i quali gli intermediari convenzionali non riconoscono a priori una convenienza economica o progetti che non hanno un fine di lucro principale ma importanti per lo sviluppo sociale.

Le modalità di intervento si possono, pertanto, ricondurre a una riduzione del costo del capitale, a un allungamento della durata del piano finanziario, a soluzioni di garanzia innovativa.

Per quanto concerne la situazione italiana occorre ragionare sulla estensione dei criteri etici sul circuito creditizio, essendo ancora il circuito mobiliare, pur se interessante, ancora poco sviluppato, e sul quale si deve agire in prospettiva per maturare la sensibilità degli investitori e realizzare un progressivo coordinamento attraverso le loro associazioni.

A livello di circuiti creditizi, l'idea della finanza etica non è certo nuova: in molti mercati bancari locali si riscontra l'azione di istituzioni che sono nate proprio per fare attività finanziaria con obiettivi sociali (ex casse di risparmio, banche popolari, banche di credito cooperativo). La funzione sociale di tali banche verte sulla destinazione degli utili, sulla propensione alla conduzione di operazioni non profit, sulla astensione dagli interventi in taluni settori a contrastante interesse sociale. Tuttavia, tali istituzioni, pur disponendo di un grande potenziale hanno finito di uniformare la gestione bancaria agli standard delle istituzioni con finalità di lucro.

La privatizzazione, l'introduzione dell'euro, la globalizzazione hanno sancito questo passaggio e hanno compresso notevolmente gli spazi di manovra per perseguire certi obiettivi sociali del credito.

Tale importantissimo ruolo comunque dovrebbe essere proseguito dalle fondazioni bancarie. La grande sfida che le fondazioni dovranno effettuare è quella di trasformarsi da semplici enti eroganti sulla base di una pluralità di progetti benefici che la collettività propone a enti promotori ed organizzatori di specifici nuovi e propri progetti a beneficio della collettività. Questa nuova impostazione presuppone un ruolo più attivo delle fondazioni nel ricercare gli obiettivi dell'azione, in modo da rendere più incisiva la destinazione dei fondi disponibili.

Sebbene la cosiddetta legge Amato del 1990 e l'emanazione del Testo Unico in materia bancaria del 1993 abbiano favorito ampi processi di aggregazione e di riallocazione proprietaria, una quota rilevante del sistema bancario italiano è ancora sotto il controllo delle fondazioni.

A una prima analisi della normativa che ha disciplinato le fondazioni, risulta che la direttiva Dini del 94 disponeva che le fondazioni, entro un quadriennio, dovessero soddisfare una delle due alternative:

  • finanziare più del 50% delle spese, ivi comprese le erogazioni nei campi di attività prescelte, con redditi diversi dai dividendi erogati dalla banca conferitaria;
  • allocare non più del 50% del loro patrimonio in azioni della banca conferitaria.

L'insuccesso di dismettere il controllo proprietario ha portato a un nuovo tentativo legislativo, la cosiddetta legge Ciampi del maggio 1999 che persegue due scopi :

  • indurre la graduale uscita delle fondazioni dagli assetti proprietari delle banche;
  • delineare l'attività delle fondazioni, che diventano enti di diritto privato nel settore non profit.

Per realizzare quest'ultimo scopo, la legge prevede che le fondazioni concentrino almeno una parte della loro attività senza fini di lucro in 6 settori di utilità sociale (arte, assistenza, beni culturali e ambientali, istruzione, ricerca scientifica, sanità) e destinino l'altra eventuale parte al perseguimento di fini statutari, comunque coerenti con gli ambiti più generali di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico. Per rafforzare tale specializzazione vieta alle fondazioni di detenere il controllo in imprese non strumentali ai sei settori.

Per quanto riguarda l'operatività delle fondazioni a differenza di altri enti operanti nel campo del non profit, le nostre fondazioni dispongono di patrimoni derivanti dallo scorporo delle società bancarie conferitarie. Nel breve termine non sembrano attrezzate per trasformarsi in fondazioni operative che gestiscono direttamente le imprese strumentali ai loro settori istituzionali di intervento.

Pertanto l'ordinaria attività delle fondazioni si riconduce:

  • all'asset allocation dei propri patrimoni vincolati a un livello di rischio non eccedente i criteri prudenziali imposti dalla natura stessa della fondazione;
  • all'impiego dei proventi ottenuti da tale allocazione patrimoniale così da massimizzare, compatibilmente con il vincolo di bilancio, i benefici sociali nei campi selezionati non profit.

L'esercizio di tali attività presuppongono il perseguimento simultaneo di tre criteri:

  • allocazione ottimale del patrimonio attraverso adeguati livelli di diversificazione e una relazione positiva fra rischiosità e rendimento;
  • l'efficienza gestionale della società non profit attraverso limitazioni nel reinvestimento dei redditi conseguiti ai fini dell'autoriproduzione (1/3 del loro reddito per le fondazioni bancarie );
  • correlazione temporale tra la durata dei finanziamenti e quella del progetto di investimento.

Per avere una dimensione della ricchezza delle fondazioni, alla data del 1997, le 90 fondazioni detenevano un patrimonio superiore a 50.000 miliardi di lire; di cui il 70% di appartenenza delle fondazioni derivanti dalle ex casse di risparmio. L'80% del patrimonio delle fondazioni delle ex casse era concentrato nelle mani di 20 fondazioni di maggiore dimensione.

Purtroppo tutte non hanno risposto ai criteri menzionati, operando in presenza di inefficienze gestionali ed allocative che si traducono in una perdita di benessere sociale.

Per quanto concerne il primo criterio, fino al 1996, il patrimonio non era stato diversificato essendo concentrato in holding bancarie e le performance, nel periodo 1992-1997, sono risultate, secondo uno studio di Messori (1999), inferiori a quelle conseguite in asset privi di rischio.

L'ammontare delle erogazioni effettive nel periodo 1992-1997 è risultato inferiore al 50% dei redditi incassati. A ciò ha fatto riscontro un elevato accantonamento per mantenere una forte presenza nella struttura proprietaria del sistema bancario.

Si è riscontrato, inoltre, che gli interventi non profit sono caratterizzati da una durata inferiore a quella dei progetti.

Il nuovo contesto di mercato ha posto in evidenza come di fatto le aziende bancarie hanno difficoltà di operare direttamente con criteri sociali per la incisività del fine di lucro, anche in considerazione di una scarsa conoscenza di metodologie finanziarie volte a scegliere imprese che considerano l'impatto sociale. Questa situazione ha definito, da un lato, un nuovo interesse per un'attività bancaria "specializzata" che si riconosce in primo luogo nei principi di tipo solidaristico e, dall'altro, il diffondersi di fondi comuni che scelgono i titoli azionari di industrie che operano con criteri sociali.

Trattasi di banche etiche in cui solidarietà, cooperazione e attenzione all'ambiente sono diventati i principali ispiratori dell'attività. In Europa, la prima banca etica nasce nella seconda metà degli anni 70 in Olanda per sostenere lo sviluppo di imprese impegnate nella produzione agricolo-industriale ecocompatibile, estendendo successivamente la propria operatività nell'arte, nella cooperazione internazionale e nel commercio equo-solidale. In Germania nel 1986 si costituiva la banca etica per aiutare le attività legate all'ambiente sostenendo progetti ecocompatibili e socialmente utili; infine, in Svizzera l'Alternative Bank Suisse nasce nel 1990 sulla spinta del movimento verde. Nel Bangladesh ha incontrato un notevole successo la Grameen Bank che si colloca al 4 posto tra le banche di quel paese con tassi di sofferenza di gran lunga inferiori a quello delle altre banche, soprattutto nel finanziamento di piccoli gruppi di persone per microrealizzazioni.

In Italia, l'8 marzo del 1999, la banca Etica apre a Padova il primo sportello dando avvio alla sua attività finanziaria etica. L'iniziativa nasce dalla pluriennale pratica positiva della raccolta di risparmio tra i soci effettuata dalle Mutue autogestite per la promozione e il sostegno delle imprese non profit con particolare attenzione alle realtà piccole vicine ai bisogni della gente che dimostrano impegno responsabilità e capacità di progettazione.

La banca costituisce un'offerta di intermediazione finanziaria a carattere nazionale finalizzata all'economia sociale che consente al risparmiatore di manifestare concretamente la sua sensibilità verso temi etici e solidaristici e il suo interesse verso forme di risparmio alternative.

Limitatamente alla dimensione di tale attività bancaria, ad eccezione delle esperienze della Grameen Bank, viene confermata come la ricerca di uno spazio di mercato per investimenti etici non possa passare che attraverso la crescita della cultura del risparmio etico volto a finanziarie le iniziative imprenditoriali sulla base degli effetti sociali delle attività produttive.

Potenzialmente il 40% degli investitori sono interessati ai temi etici in linea, però, di principio. Si rileva, inoltre, come individualmente essi non sono in grado di curare la dimensione etica del proprio profilo finanziario per cui aderiscono a schemi di investimento collettivo.

Recentemente analisi di mercato hanno evidenziato una forte appetibilità di fondi etici, avendo realizzato livelli di performance migliori di altri comparti.

Da una ricerca di Mair Statman, pubblicata sul Financial Analyst Journal nel 2° trimestre del 2000, risulta che l'indice costruito con il criterio della capitalizzazione relativo a 400 titoli appartenenti a imprese etiche statunitensi, ha registrato, nel periodo maggio 1990-settembre 1998, variazioni incrementative annue del 17,5% a fronte di una crescita dello S&P 500 del 17,31% nello stesso periodo.

Da una analisi comparativa di 31 fondi comuni definiti socialmente responsabili da Morningstar con 62 fondi comuni standard, simili per dimensione a quelli precedenti, si evidenziano livelli di performance dei primi migliori dei secondi.

Per quanto concerne le politiche di investimento perseguite dai fondi, nel rapporto del 1999, il Social Investment Forum di Washington (Report on responsable investing trends in the United States) sostiene che negli Stati Uniti dai portafogli dei fondi etici sono stati esclusi per l'84% imprese legate al settore del tabacco; per il 72% quelle che esercitano attività connesse al gioco d'azzardo; per il 69% alla produzione delle armi e per il 68% alla produzione di alcolici.

La selezione dei titoli secondo i criteri etici s'incentra, quindi, per i fondi statunitensi nella eliminazione del vizio; mentre nella realtà europea la selezione si muove su criteri di sviluppo sostenibile - secondo quanto è stato elaborato nella costruzione dei rating di società etiche da parte della SAM Substainability Group, un intermediario svizzero specializzato nell'asset management - che include variabili come l'impatto dei processi produttivi sul consumo delle risorse naturali e il grado di efficienza nell'utilizzo delle energie.

Interessante sarebbe, quindi, approfondire metodologie ed indagine di mercato al fine di selezionare investimenti finanziari economici di aziende che rispettano criteri sociali

Questi confortevoli dati confermano come per le nostre fondazioni la quantità, la qualità e la frequenza delle informazioni a disposizione per sostenere le decisioni aumenteranno in modo esponenziale con l'evolversi delle relazioni e per gli stessi fondi pensione gli investimenti in fondi etici possano costituire un canale preferenziale al fine di perseguire investimenti con finalità sociali.

La tecnologia ipermediale potrebbe, da un lato, consentire di produrre informazioni sugli investimenti che considerano l'impatto sociale, stimolando la divulgazione di valutazioni qualitative e quantitative mirate a soddisfare i bisogni latenti dei potenziali risparmiatori etici, e di informatizzare le reti di vendita degli intermediari specializzati, dall'altro, costituire un'arena importante in cui discutere le priorità della società per offrire agli utenti scelte più variate e qualità più alta attraverso la diffusione di cultura e conoscenza a tutti i livelli e l'affermazione di una nuova etica della cooperazione.

I problemi economici sociali, che dovrebbero avere soprattutto soluzioni culturali, richiederebbero una riprogettazione in modo integrato dei grandi sistemi i cui attori principali dovrebbero essere il governo, le banche e le aziende.

D'altro canto, l'aumento esponenziale della quantità, qualità e frequenza delle informazioni con l'evolversi delle relazioni telematiche se , da un lato, consente ai fruitori di essere più interdipendenti e intercomunicanti con il mondo esterno, dall'altro, tende al tempo stesso a ridurre l'interazione tra le persone, all'interno di uno stesso gruppo, diluendo la coesione sociale.

A conclusione di tale breve nota, il pessimismo della ragione indurrebbe a pensare come nel futuro possa non esserci più distinzione tra umani e computer, ma l'ottimismo della volontà ci indurrebbe a ipotizzare che in prospettiva si avrà un migliore sistema mondiale dei valori sociali, della cultura e delle relazioni umane.

 

 

Relazione tenuta al convegno “New Economy e Finanza. Un approccio etico per una economia della solidarietà”, Roma, 12 maggio 2000. Il testo pubblicato è l’originale presentato al convegno.


Bibliografia

Desario V. (1997), “Solidarietà ed etica nella finanza: rapporto tra sistema finanziario e Terzo Settore”, Milano, 17 marzo 1997, in Documenti, Banca d'Italia, n. 558.
Faletti C., Marcandalli R., Pacchiardo E. (1999), La Banca virtuale. Le nuove opportunità di business elettronico, Bologna, Zanichelli.

Lèvy P. (1996), L'intelligenza collettiva. Per un'antropologia del cyberspazio, trad. it., Milano, Feltrinelli.

Messori M. (1999), “Banche e fondazioni bancarie”, Bancaria, n.9, 33-52.

Omarini A. (1999), Internet banking. “Dalla strategia multicanale alla ridefinizione della value proposition in banca”, Economia & Management, n.1, 105-124.

Pucci L. (1998), “Dalla globalizzazione dell'etica all'etica della globalizzazione”, Il Pensiero Economico Moderno, n.1-2, 1999, 53-63.

Tagliavini G. (1996), “Gli investimenti etici”, Bancaria, n.9, 78-89.

Tieghi M. (1998), “Le fondazioni bancarie: finanziatori "etici"”, Non Profit - Diritto - Management - Servizi di Pubblica Utilità, vol.4, n.4, 607-633.

Yunus M. (1998), Il banchiere dei poveri, Milano, Feltrinelli.

BORSE DI STUDIO FASS ADJ

B01 cop homo page 0001Progetto senza titolo

 

 PCSTiP FASS

foto Oik 2

Albino Barrera OP  -  Stefano Menghinello  -  Sabina Alkire

Introduction of Piotr Janas OP