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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

pdfMolte persone impegnate nell’attività economica reagiscono a questa domanda o con un sorriso di commiserazione ( “Ma costui dove vive?”) o con espressioni facciali furbesche o di disagio (“Qualcuno deve pur fare questo lavoro sporco!”). Anche sul piano teoretico molti studiosi contemporanei di etica sociale e filosofia politica hanno difficoltà a trovare una risposta, che comunque vada al di là di un codice concordato di regole formali come: obbligo della trasparenza, negazione dell’insider trading, intervento statale per impedire posizioni monopolistiche ecc.

L’approccio di questo intervento parte, però, non dai codici di norme deontologiche, ma dalla considerazione che nessuna attività umana è esclusa dalla considerazione etica, poiché ogni attività è espressione della persona e del suo sviluppo. L’etica infatti consiste nell’assunzione di responsabilità, sia per noi che per gli altri, responsabilità che fin dagli albori della civiltà occidentale i filosofi hanno affermato essere oneroso e onorevole privilegio del ‘cittadino virtuoso’. L’operatore economico è chiamato ad essere oggi sempre più portatore di responsabilità nella società e quindi ad essere ‘uomo virtuoso’ nel senso che Aristotele aveva appreso dalla vita politica delle città greche del suo tempo. Con il vantaggio, però, che noi oggi disponiamo di un potente strumento di orientamento di senso globale: i circa trecento diritti dell’uomo finora codificati a livello internazionale.

1. Se la religione è essenzialmente costituita dal nostro rapporto con Dio, la morale ha invece al centro il rispetto della persona umana e del suo sviluppo, della sua libertà globale all’interno di ogni società ed epoca (parzialmente coperti dai diritti umani). Questo rapporto con la persona umana, che siamo noi stessi e gli altri, tutti gli altri, è pertanto una componente da tener sempre presente quando descriviamo o valutiamo il nostro comportamento. Il nostro bene e il bene degli altri è concretamente (e storicamente) riassunto in quel concetto collettivo che noi chiamiamo dignità dell’uomo. A dispetto delle varie teorie e dei diversi punti di vista, tutti noi vi concentriamo quelle caratteristiche ultime che competono ad ogni uomo, e che vanno rispettate sempre se vogliamo avere un atteggiamento eticamente positivo.

La Facoltà di Scienze Sociali della mia Università ha tenuto la settimana scorsa a Roma un Convegno su ‘60 anni dal Rapporto Beveridge: attualità del Welfare’. Gli interventi più significativi saranno pubblicati dalla rivista on line OIKONOMIA (www.oikonomia.it) Sono stati rievocati i 5 giganti che Sir William Beveridge voleva combattere: il bisogno, la malattia, l’ignoranza, la miseria, l’indolenza. Questi indicatori di offesa sociale alla dignità umana furono da lui in parte ripresi dalla Carta Atlantica del 1941 formulata da Delano Roosevelt e da W. Churchill. Da essa, sempre negli anni ‘40, prenderà anche l’avvio la Carta di S. Francisco e la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo.

Nel mio intervento finale a quel Convegno, che abbiamo tenuto in collaborazione con il British Council e l’Observatoire della Finance di Ginevra, io mi sono permesso di sottolineare come le riforme sociali, i grandi movimenti politici, hanno sempre un’ispirazione ideale. Ma che per la loro realizzazione servono sia teorie applicative che formulazioni legislative, come anche, infine, un feed-back sugli effetti sociali reali. Questi ultimi hanno bisogno poi di criteri valutativi, derivati dall’ispirazione ideale iniziale. In tal modo il cerchio etico si chiude ed abbiamo una visione reale di come i nostri valori morali agiscono sul nostro comportamento, come debbano guidarlo e come gli aspetti tecnici debbano essere sotto monitoraggio valoriale nelle loro conseguenze reali.

Un altro esempio di quanto voglio dire sui valori etici e sul modo della loro applicazione reale ci può venire dall’esame di alcuni tratti tipici della globalizzazione:

La ricerca di luoghi sempre più a buon mercato per la produzione, di mercati sempre più redditizi e di impieghi di denaro sempre più remunerativi, la trasmissione di sempre maggior numero di informazioni in sempre minor tempo, di per sé non sono un male, al contrario. Anzi sono l’anima dello sviluppo economico del mondo. Si ottengono così l’aumento dei beni e dei servizi a prezzi migliori. Questo però vale solo come affermazione di principio. Perché infatti tutti sappiamo che nei quattro settori sono venuti alla luce eccessi inauditi.

Prendiamo un esempio ben noto, dove la ricerca di lavoratori a basso salario, di controlli ambientali bassi ed in genere di autorità compiacenti con l’investitore ha portato allo spostamento continuo dei centri di produzione.

Roberto Savio in una conferenza del 1998 per la ACCRI (Associazione di Cooperazione Cristiana Internazionale) ci propone un esempio scioccante, quello delle fabbriche di scarpe XY, scarpe da ginnastica molto belle che tutti usiamo.”La XY, che è proprietà di una compagnia diretta da un signore che si chiama ZT, aveva le sue fabbriche negli Stati Uniti. Ad un certo punto però, il signor ZT ha chiuso tutte le fabbriche del Nord America e le ha trasferite in Indonesia, dove pagava agli operai lo stipendio minimo di due dollari e dieci centesimi al giorno lavorato. Due dollari e dieci centesimi sono con il cambio attuale della lira sulle tremilaseicento lire. Quando il ministro della famiglia dell'Indonesia ha detto che due dollari e dieci rappresentano l'82% del livello di sussistenza, e che pertanto bisognava portare lo stipendio minimo da due dollari e dieci a due dollari e trentasette, il signor ZT ha detto: "Non c'è nessun problema: io chiudo le fabbriche in Indonesia e le porto tutte in Vietnam", cosa che poi effettivamente ha fatto. Quindi, per una differenza di ventisette centesimi al giorno che sono grossomodo 400 lire, avete un'impresa la quale con tutta tranquillità chiude tutto, e si trasferisce in un altro Paese, che è il Vietnam attuale, dove paga i lavoratori un dollaro al giorno. Sul giornale di ieri c'era tra l'altro scritto che dopo alcuni anni di lavoro questi lavoratori vietnamiti sono stati licenziati, con un indennizzo di dodici dollari per persona, che sono diciottomila lire attuali. Le fabbriche XY vendono le scarpe qui in Europa sulle 140/180.000 lire. Allora uno va alla XY e dice: "Ma questo è uno sfruttamento indegno!"; ma l'impresa risponde: "No, noi abbiamo delle spese di marketing e oggi le spese di marketing rappresentano da sole l'80% delle spese di un prodotto, le spese di produzione equivalgono soltanto al 20%." E allora uno va a controllare e vede che la XY ha fatto un contratto con un giocatore di basket, M.J., di 20 milioni di dollari. Il pagamento di tutti gli operai che durante un intero anno avevano prodotto tutte le scarpe XY era di 12 milioni e mezzo di dollari: un contratto di pubblicità con uno dei personaggi pubblicitari è costato 20 milioni di dollari.” Lasciamo all’autore la responsabilità dei dettagli dell’esempio, ma ciò che vuole mostrare è incontrovertibile: è avvenuto qualche cosa di umanamente perverso!

Della sicurezza sociale e un salario equo e soddisfacente ne parla la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo del 1948:
“art. 22 Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità e al libero sviluppo della sua personalità;
art. 23, 3 Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente, che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale.”

Mi si dirà: ma queste sono utopie; non si potrà mai realizzare un simile stato paradisiaco di benessere minimo per tutti a livello mondiale; a questo debbono pensarci il governo e le organizzazioni internazionali. Ed è tutto vero, ma è altrettanto vero che non è accettabile che un operatore economico agisca senza curarsi della conseguenze sugli altri.

Tutti ricordiamo la distinzione di Max Weber, nella sua lezione La Politica come Professione, tra l’etica della convinzione e dei principi e quella della responsabilità delle conseguenze. Weber accusava i sostenitori della prima posizione di essere immorali, anche se pensavano di essere persone per bene. Penso che in un certo modo anche nell’economia, nella finanza, nella politica economica sia necessario applicare sia un’etica della convinzione (secondo i nostri principi morali) ma anche quella della considerazione delle sue conseguenze.

2. The Economist, la Bibbia mondiale delle élites economiche e politiche, sui diritti dell’uomo sostiene una strana teoria, strana in quanto assolutizzata. Bisogna avere rapporti con i paesi che non rispettano i diritti umani, come la Cina, perché una volta che si sia ottenuta la loro apertura economica si otterrà anche la loro apertura politica e sociale. E quindi tali stati in futuro rispetteranno i diritti umani. Il punto debole del ragionamento è quello di essere innanzi tutto Cicero pro domo sua, quindi di scaricare gli operatori attuali da qualsiasi responsabilità, ma soprattutto di non considerare la corte di tutte quelle persone che per un’apertura futura vedranno la loro dignità calpestata ancora per anni. Infatti ai diritti umani fondamentali non si può applicare il criterio utilitarista della maggior quantità di un bene per il maggior numero possibile di individui. I diritti umani fondamentali sono indivisibili. Valgono sempre e per tutti!

Lo stesso settimanale britannico, quando i Vescovi cattolici della GB presentarono un documento sul Bene Comune (The Common Good and the Catholic Church's Social Teaching 1996), con sufficienza lo squalificò in un editoriale come una petitio principi: Nessun infatti non vuole il bene comune, quindi i cattolici debbono smetterla di sbandierare questo concetto vuoto, in quanto lapalissiano. Ma questo è un sofisma. Il concetto di bene comune come lo formulò Pio XII e il Concilio Vaticano II infatti afferma: “Dall'interdipendenza sempre più stretta e piano piano estesa al mondo intero deriva che il bene comune cioè l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente oggi vieppiù diventa universale, investendo diritti e doveri che riguardano l'intero genere umano.” (GS 26)

Ora il criterio di verifica se una politica, un’azione economica, un movimento sociale va verso la giusta direzione, va verso il bene comune, sono il rispetto e lo sviluppo del diritti umani. Come quelli che abbiamo citati sopra.

Non è che io non mi renda conto che quanto ho detto fin’ora possa suonare ad un auditorio come il loro come un appello vuoto, astratto, per nulla realistico e quindi non interessante. O peggio: noi lavoriamo, rischiamo, paghiamo, e questo (e altri predicatori sociali) parlano e vivono di quello che noi produciamo.

Non credo di essere ingenuo: sono stato per sei anni Preside di una Facoltà di Scienze Sociali, piccola ma internazionale, dove l’economia e l’etica sono la materia principale. E tra l’altro sono figlio di un piccolo consulente fiscale: ricordo l’introduzione dell’IGE (importo generale sull’entrata) ma soprattutto ricordo quanto rispetto avesse mio padre, e me lo ha trasmesso fin da bambino, per chi lavora duro, in proprio, dannandosi la vita e, se i predicatori hanno ragione, anche l’anima.

No, il mio intento non è savonaroliano, accusatorio. L'aspetto etico dell'economia, della finanza, della politica monetaria non la possono sviluppare che i gruppi di addetti al lavoro con l'appoggio e la critica degli etici. Nel libro Managing As If Faith Mattered, scritto da una docente inglese della mia università insieme ad un collaboratore degli Stati Uniti, è interessante vedere i risultati di un'indagine su 2000 managers negli Stati Uniti che si consideravano cristiani. Più dell’80% diceva che la propria fede influiva sul loro comportamento sul lavoro, ma quando furono poste domande precise su se, secondo loro, la morale cristiana influirebbe su una decisione di chiudere o aprire una fabbrica, la percentuale scendeva al 16%. Un'etica degli affari costruita senza gli addetti al lavoro rischia di diventare astratta e utopistica, ma una creata solamente da tali addetti rischia di diventare miope e monca, limitata al livello del comportamento personale. Invece, un'etica delle virtù e del bene comune, che coinvolge i principi della sussidiarietà, la solidarietà e la partecipazione, ha molto da dire sulle strutture e sulle politiche dell'impresa; però per agganciare tale etica al livello delle politiche (di marketing, di risorse umane, di pianificazione finanziaria ecc) ci vuole una riflessione approfondita fra esperti nei due campi, come nell'ambiente di una scuola di business. Sembra che oggi la vera sfida sia di costruire un'etica dell'impresa che prende in mano e sul serio l'aspetto organizzativo e non resta al livello del comportamento personale.

3. ‘Persone eccellenti capaci di grandi passioni’. E’ il motto che appare sulla Home Page del sito Profingest. E’ ben scelto, non c’è dubbio. Il manager deve avere delle capacità di spicco, che lo elevino al di sopra del quotidiano banale, affinché possa avere una visione più amplia soprattutto per il futuro, per poter speculare, vedere con attenzione. E deve fare questo con piacere (passioni). Ma secondo Aristotele il piacere è la risonanza soggettiva di un bene oggettivo raggiunto, secondo l’attuazione delle nostre capacità. Il manager quindi ha piacere nel successo del proprio progetto che consiste nell’inventare, prevedere, essere adattabile, guidare altri uomini alla meta. Per questo deve anche essere eccellente e avere passione per la persona umana, capire più degli altri i suoi bisogni, essere un umanista, un filantropo, come in realtà molti grandi manager ad una certa età sono diventati.pdf

Mi auguro che gli allievi della Profingest tendano a diventare così fin dall’inizio, per iniziare la loro avventura imprenditoriale, che si ricopre con la loro stessa vita, in modo umanamente eccellente. Un manager italiano nel mondo non dovrebbe distinguersi per le sue cravatte o le sue scarpe, ma per il suo stile di vita e di operare.

Ricordandosi delle nostre figure rinascimentali di manager/imprenditori, come Francesco Datini (mercante europeo e fondatore dell’Ospedale del Ceppo di Prato) ed un certo Cosimo de’ Medici, banchiere e mecenate in Firenze.

Intervento al Convegno: Valore senza valori? Comportamenti e autoregolazione in economia organizzato dalla Profingest, Management School, e dal Centro S. Domenico al Palazzo degli Affari a Bologna il 30.11.2002

 

 

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