La Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università San Tommaso e l’Istituto Superiore per la Comunicazione e l’Opinione Pubblica, Iscop, Associato alla Facoltà, in collaborazione con British Council, Osservatorio della Finanza di Ginevra e la nostra rivista Oikonomia, hanno organizzato a Roma, il 22 novembre scorso, il Convegno internazionale “60 Anni dal Rapporto Beveridge: attualità del Welfare”. In attesa della pubblicazione degli atti del Convegno, si pensa di fare cosa utile offrendo ai lettori una breve nota sull’evento. Sulla parte storica, la nota tiene conto, in particolare, delle relazioni di José Harris e Luigi Troiani, e delle comunicazioni di Jean-Michel Bonvin e di John Shepherd, Ambasciatore britannico a Roma. Per i riflessi sull’attuale stato del dibattito sul Welfare, i riferimenti vanno soprattutto ai contributi offerti al Convegno dal Rettore dell’Università Francesco Compagnoni O.P., dal Decano della Facoltà Helen Alford, O.P., dai leader imprenditoriali e sindacali Innocenzo Cipolletta, Morena Piccinini (Cgil), Albino Gorini (Fai, Cisl). Oikonomia ringrazia British Council e Fai Cisl per la collaborazione all’organizzazione del Convegno.
Il 20 novembre ’42 è consegnato al Paymaster-General di Sua Maestà britannica, a firma Your obedient servant W. H. Beveridge, Chairman, un documento di 300 pagine. E’ il risultato dei lavori del Comitato Social Insurance and Allied Services, costituito per “indagare sul vasto raggio d’anomalie sorte come risultato della crescita a casaccio e a pezzi del sistema di sicu-rezza sociale nel cinquantennio precedente”. Lord Beveridge, un liberale che dirige con prestigio la London School of Economics, e che ha presieduto i lavori del Comitato, ne assume la paternità esclusiva. Il testo, infatti, non ha ricevuto il sostegno dei membri del Comitato.
Si è in piena guerra. La battaglia di El Alamein è stata appena combattuta. Il 31 gennaio i tedeschi si arrenderanno a Stalingrado; in luglio Mussolini sarà estromesso dal potere.
Nonostante manchi qualche anno alla fine del conflitto, gli alleati stanno cercando come far ripartire economia e relazioni internazionali. Guar-dano al dopoguerra e si chiedono quali garanzie offrire al sistema internazionale per un futuro di equilibrio e sviluppo.
Gli affari sociali, in tale contesto, non sono considerati la minore delle questioni. Gli alleati sanno che la propaganda nazista ha giocato molto sul sistema di benessere materiale conferito dal regime hitleriano al popolo tedesco. Sullo sfondo, lo “stato sociale” ereditato dalla riforma realizzata da Bismarck nel secolo precedente. Non casual-mente la Carta atlantica, pubblicata da Churchill e Roosevelt nell’agosto 1941, aveva definito la sicurezza sociale “libertà umana essenziale”.
Il Rapporto Beveridge sembra voler dare applicazione concreta alle enunciazioni della Carta. Il Regno Unito, vedendo in un ordinato rapporto tra stato capitale e lavoro, una delle chiavi della stabilità futura, punta al riordino complessivo delle politiche sociali. Le misure suggerite fanno di Beveridge il “padre del Welfare state contempo-raneo”. Si propongono assistenza sociale all’intera popolazione; copertura minima di tutti i bisogni legati al sociale con l’innalzamento dei benefici per istruzione, sanità, disoccupazione, vecchiaia, infor-tunio; contributi collegati alla disponibilità di reddito; sostegno all’occupazione. Si cerca d’evitare gli eccessi di povertà postbellica, e nell’immediato spuntare un’arma di persuasione di massa del nazismo: il vantaggio nell’assistenza sociale ereditato da Bismarck.
Londra mette in moto una vasta azione di propaganda di guerra, fondata sul fattore sociale: il Rapporto perde la caratteristica di documento della routine parlamentare e diventa il “Beveridge Plan”. Complice lo stesso autore, che ha spiccata voca-zione all’autopromozione, è venduto alle opinioni pubbliche, e non solo nelle isole britanniche. Si fa la coda per acquistarlo, nonostante sia pieno di cifre, considerazioni attuariali e altre diavolerie per specialisti. In un mese se ne vanno più di 100mila copie, e presto s’arriva al mezzo milione di testi venduti.
La ricaduta internazionale
Se ne stampa un’edizione economica per la distribuzione tra i soldati impegnati al fronte e nella difesa nazionale, mentre traduzioni clandestine si diffondono tra le fila dei movimenti antifascisti e antinazisti nei paesi occupati dal Reich. Gli agenti germanici cercano di limitarne l’impatto, dichiarando che si tratta di “frode plutocratica al popolo inglese”, “una prova del tutto ovvia che i nostri nemici stanno assumendo le idee nazional-socialiste”, disponendo che gli organi di stampa in Germania e nei paesi occupati evitino di commentare il Rapporto. In pubblico i tedeschi dichiarano che gli inglesi sono cinquant’anni indietro in materia sociale; nelle comunicazioni classificate scrivono che il piano è “superiore, in quasi tutti i punti, all’attuale assicurazione sociale tedesca”. Persino nel bunker di Hitler, a Berlino, saranno trovate carte e documenti sul Rapporto.
Su sollecitazione dell’Ambasciata britan-nica a Washington, la Fondazione Rockefeller invita Beveridge negli Usa: tre mesi di discorsi, conferenze, interviste e foto sui giornali, 50mila copie del Rapporto vendute. E’ una delle poche occasioni del Novecento in cui la vecchia Europa offre agli Stati Uniti un’alternativa anche culturale alle sue abitudini. La lezione di Beveridge non sarà appresa dal sistema sociale statunitense, che sulla strada della “privatizzazione a tutti i costi” del sistema di sicurezza e dell’assistenza pubblica, e del contestuale rifiuto del modello europeo, costruirà un aspetto non secondario della sua “way of life”.
Sfugge alla cultura politica statunitense che da Beveridge in poi, mercato e democrazia andranno a coniugarsi con i concetti di giustizia redistributiva e di equità nell’utilizzo delle risorse. La democrazia sociale diviene parte della democrazia formale, un fenomeno che è etico innanzitutto, e che ha immediate conseguenze sul piano delle scelte politiche e di politica economica. L’individualismo viene limitato a favore del solidarismo, la spesa pubblica indirizzata verso ragioni sociali, distraendo su obiettivi di sicurezza collettiva e benessere somme che altrimenti sarebbero destinate, come nelle migliori tradizioni statolatriche, al culto della potenza statale (sicurezza militare e poliziaria).
Giustamente José Harris, massimo biografo di Beveridge, ha definito l’uomo politico inglese “profeta della rivoluzione sociale pacifica, campione di nuove forme d’altruismo collettivo”. Un profeta utopista, ma così attento alla compatibilità tra bilancio e ispirazioni sociali, da far esclamare ad Harold Wilson, politico piuttosto familiare con i conti del budget pubblico, che si trattava del “più grande genio amministrativo del Novecento e uno dei più grandi riformatori sociali nell’intera nostra storia”.
Certo Beveridge non può essere ancora attuale al cento per cento, e sarebbe poco saggio tentare di realizzare ai giorni nostri quanto da lui scritto nel ponderoso “Rapporto”. L’autore agiva in tempi grami, quando la maggioranza delle famiglie era povera o miseranda; la vista del dopoguerra doveva necessariamente influenzarne il pensiero. Tuttavia il suo resta un lavoro “fuori dal tempo”, che tende a un riordino generale onnicomprensivo che faccia giustizia di decenni di crescita disordinata del sistema britannico di Welfare.
Come succederà a Keynes qualche mese dopo, Beveridge sa che il consenso di cui i paesi alleati necessitano per stabilizzare la loro visione democratica del futuro, ha bisogno della diffusione di un certo livello di benessere tra gli strati popolari: nazismo e fascismo erano riusciti a farsi tollerare e anche approvare, nonostante le politiche illiberali, grazie alle misure sociali che avevano saputo assumere, dall’istruzione allo sport, alla sanità, alle pensioni.
Cinque sono, secondo il Rapporto, i “giganti” da abbattere per consentire alle popolazioni di riprendere la strada della crescita economica e sociale nella democrazia: Want (bisogno, in particolare quello di lavoro), Ignorance (mancanza d’istruzione), Disease (la malattia, specie quella da povertà cronica), Squalor (condizione irrimediabile, Idleness (inerzia e accidia dei senza speranza). Il bilancio pubblico non può sottrarsi dal suo dovere, etico oltre che politico, di ristabilire un minimo di condizioni per cui la gente possa lavorare dignitosamente e produrre ricchezza per l’insieme della società.
Se l’area scandinava, dove decenni di socialdemocrazia stanno costruendo una propria originale formula di socialismo democratico, e quella renana dove il modello di economia sociale di mercato fa da propellente al miracolo tedesco, guardano con simpatia al messaggio di Beveridge, il resto dell’Europa e diversi luoghi fuori dal vecchio continente, proprio al “piano” del politico britannico devono, nell’immediato dopoguera, il lancio delle loro politiche sociali. Negli anni Trenta e Quaranta il peso del sociale sui bilanci pubblici era stato in genere ancora piuttosto contenuto. In paesi come Stati Uniti e Canada aveva mostrato valori irrisori. All’inizio degli anni ’50, la spesa sociale pubblica si colloca tra il 10 e il 20 per cento del Pil; alla metà degli anni Settanta, nell’Europa del welfare state, tra ¼ e più di 1/3 del Pil saranno destinati ad attività di welfare.
Viene introdotto, nel glossario del dibattito politico, il concetto di “cittadinanza sociale ed economica”. Il cittadino, da soggetto di soli diritti civili e politici, diventa soggetto di diritti economici e sociali. Beveridge, come ha scritto P. Baldwin, diventa “uno dei grandi architetti internazionali di ciò che è stato chiamato il modello di cittadinanza sociale dello stato del benessere”.
Non è un salto di poco conto. T.H. Marshall, interpre-tando nel 1949 il concetto di “social citizenship welfare state” anticipato da Beveridge e trasferito in normativa dal governo Attlee, lo definirà il “culmine di secoli di progresso sociale, un evento di statura eguale alle Rivoluzioni francese o russa”, una “risposta storica nella storia euro-occiden-tale alla Rivoluzione russa e alla nascita del socialismo nell’est”.
Anche grazie alla lezione di Beveridge, l’art. 40 della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo rilasciata nel 1948 dalle Nazioni Unite, avrebbe affermato: “Chiunque ha diritto a un livello di vita adeguato alla salute e al benessere suo e della sua famiglia, inclusi cibo, vestiario, casa e assistenza medica, e i necessari servizi sociali, e il diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, disabilità, vedovanza o altre carenze nel tenore di vita per circostanze fuori dal suo controllo”.
Attualizzazione della a proposta Beveridge
Si è detto che il documento portato all’attenzione del governo di Sua Maestà britannica non è un compendio di leggi o di regole. Piuttosto ha stabilito principi sui quali richiamare all’azione:
- la sicurezza sociale può coprire chiunque, non soltanto chi ha lavoro regolare,
- i fondi per la sicurezza sociale vanno unificati, per razionalizzare la spesa e creare maggiore equità nelle prestazioni,
- il bene salute è un diritto naturale e l’assistenza sanitaria va estesa a tutti i cittadini,
- contro la disoccupazione va allestita la politica attiva del lavoro,
- va fissato, al livello della sussistenza, il minimo indispensabile di reddito pro capite, la cui percezione va garantita dal bilancio pubblico e da una soglia di sussistenza nazionale,
- va riassunto in un solo Ministero l’insieme di compe-tenze e iniziative attinenti le politiche sociali.
Il sistema di welfare viene a divenire onnicomprensivo. Non è la “carità” volontaria (e altalenante) a battere il ritmo della sussistenza, ma misure regolari e pubbliche equivalenti a diritti acquisiti. La contribuzione generalizzata, unita a un elevato livello di tassazione, dà allo stato capacità d’intervento per tutti i cittadini, a prescindere dalla documentazione dei bisogni. Anche chi non lavora, anche chi non contribuisce, ha diritti da spendere: allo studio di base per i propri figli, a cure sanitarie, a un minimo di garanzie per la vecchiaia. Il contributo finanziario del cittadino, presiede all’intensità e alla modalità di fruizione del diritto, non alla sua disponibilità.
Il che non significa che lord Beveridge si opponga a misure d’intervento volontaristico e solidaristico. Tutt’altro. Esaurita la sfera del dovere pubblico, viene raccomandato il riconoscimento dell’azione volontaria, sollecitata la soggettività autonoma del corpo sociale che si esprime attraverso movimenti caritativi di ispirazione filosofica, religiosa, sociale.
E’ comunque evidente che il “piano” di Beveridge s’incapsula nella tendenza di un Novecento che, con le rare eccezioni documentate soprattutto negli ultimi decenni, tende ad ampliare il più possibile gli spazi d’azione dello stato.
Cosa può apprendere dal rapporto, un tempo come il nostro, che sta ricercando il modo di tagliare le prerogative del Welfare, diminuire la presenza pubblica in detto settore della politica economica e sociale? Si può rispondere che l’alternativa “più o meno” stato nel Welfare sia una falsa alternativa.
Il problema, semmai è “quanto stato per fare cosa”, o, se si vuole: “quanto meno stato possibile, per fare bene più cose possibili”. E un altro problema è: se si possa rimettere in movimento la “solidarietà universalistica”, ferma da troppo tempo al capolinea dell’egoismo sociale standardizzato. Va ristrutturato e rilanciato, non annullato, il ciclo stato (politiche pubbliche socio-economiche) – mercato – società – individuo, con l’insieme dei rapporti virtuosi interni che è riuscito ad instaurare in altre epoche storiche. In quest’ambito, la lezione della “Centesimus Annus” non sembra fuori luogo, nel richiamo a ciò che “è dovuto all’uomo in quanto uomo”, un “univer-salismo delle prestazioni” che fa ripensare al cuore della lezione di Beveridge.
Il fatto che in molti paesi sia in crisi la finanza pubblica, non significa necessariamente che sia in crisi lo stato sociale, bensì politiche finanziarie non più in grado di far fronte agli impegni assunti, magari perché sono stati distorti e prestati ad usi impropri (dalla demagogia del confronto politico alla ricerca di consenso facile) i meccanismi di welfare. Un paese come gli Stati Uniti, non certo campione di comportamenti sociali del tipo di quelli proposti da lord Beveridge, dispone di finanze pubbliche (e non solo a livello federale, ma anche statale e locale) tra le più sbilanciate al mondo...
La sfida da raccogliere, è stata sintetizzata dall’Ambasciatore britannico, nel suo intervento alla celebrazione romana del sessantesimo del rapporto Beveridge: “abbiamo superato il concetto che lo stato possa o debba far fronte a tutti i bisogni, anche a causa delle implicazioni economiche e di finanza pubblica. Siamo più coscienti dei rischi di dipendenza e dell’importanza di incoraggiare ognuno a provvedere a se stesso laddove sia possibile. Ma siamo ancora alla ricerca del giusto equilibrio fra individuo, stato ed altri soggetti, quali i datori di lavoro e le organizzazioni non governative”.