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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

Id.,
Israele e Palestina. Un conflitto lungo un secolo,
(Strumenti per la didattica 3),

Edizioni Plus – Università di Pisa, Pisa 2003, 256 pp.

 

La miopia politica, la logica dell’uovo oggi, o ancor più, forse, lo stordimento dinnanzi a fenomeni storici incontrollabili, permettono talvolta ad un conflitto di cronicizzarsi. È allora che le parole crisi, risoluzione, conflitto, perdono ogni significato. Un «conflitto lungo un secolo», recita il sottotitolo del secondo di questi contributi alla conoscenza del Vicino Oriente Mediterraneo presentati, in contemporanea, da Arturopdf Marzano, giovane coordinatore in Palestina dei progetti UCODEP –Unità e Cooperazione per lo Sviluppo dei Popoli, ONLUS italiana ispirata all’U.CO.JU.CO dell’Abbé Pierre– e collaboratore alla cattedra di Storia Contemporanea all’Università di Pisa. Un low intensity conflict di tal genere non è più un incidente storico fra quelli che di solito conducono al costituirsi dell’identità di una regione (come la Guerra di Secessione, per intenderci), ma un elemento fondante di tale identità.

Lo storico biblista potrebbe aggiungere che Gerusalemme è pur sempre la città dei 32 assedi (tanti ne contava il p. R. Tournay), la zonah, prostituta (secondo Geremia e gli altri profeti) che ad ogni baal, padrone-marito-idolo ha fatto credere d’essere esclusivamente sua e per sempre.

Ne scriveva Geremia e se ne scrive ancor oggi: i due volumi che qui presentiamo, pur unificati dal tema generale e dalla prospettiva, non potrebbero essere più distanti nella metodologia.
Il primo, anticipato da un lungo contributo apparso due anni prima nella rivista dell’Associazione Milanese Amici Don Giuseppe de Luca, Bailamme (“L’emigrazione degli ebrei italiani in Palestina: dall’emarginazione delle leggi razziali allo scoppio della guerra”, 27/5 (2001) pp. 35-200), è la rielaborazione della tesi di dottorato ed ha carattere storico - prosopografico: i protagonisti ed i loro scritti, privati o pubblici, raccontano la storia dell’ebraismo italiano prima ed immediatamente dopo la promulgazione delle leggi razziali. Attraverso le testimonianza dirette di una «vicenda di emigrazione fino ad oggi trascurata» (Cavaglion nella Prefazione) impariamo a conoscere i viaggi in Palestina, i campeggi e le haksharot destinati a preparare i giovani alla vita del kibbutz, il ruolo del sionismo nel loro vivere il rapporto con la modernità, la famiglia, il socialismo o la religione, il confrontarsi della tradizione, soprattutto sefardita (cittadina, mobile secondo il vento dell’opportunità e delle persecuzioni, economicamente rivolta al terziario), col “lavoro produttivo” e con la benedizione/maledizione della terra. In altri termini, possiamo renderci conto di quanto il sionismo mitteleuropeo abbia influenzato la trasformazione di quello delle comunità ebraiche italiane (Roma, Firenze, Trieste, Milano, Torino) da movimento filantropico a progetto nazionale.

Poiché l’intento dell’autore è «coniugare la “storia” con le “storie”» (p. 5), la sezione Documenti occupa quasi la metà del libro (pp. 189-378 chiusa da un interessante Allegato con l’elenco dei circa 500 immigrati in Palestina negli anni 1920-1940): lettere, raccolte da vari archivi e fondi, talvolta a carattere ufficiale, talaltra più private. Il lettore non mancherà di notare come, oltre all’interesse che tali documenti rivestono per una storia dell’auto-coscienza ebraica, essi descrivano anche una tappa del pensiero politico europeo del primo Novecento, intriso di ideali, quali lo stato, la nazione o il lavoro produttivo, che oggi possiamo considerare con maggiore distanza critica, fra l’altro a partire dall’esperienza storica dello stato di Israele. Molti dei nodi che, a cinquant’anni dalla creazione dello stato, sono venuti al pettine della politologia critica israeliana, erano già presenti, come dubbi se non come contraddizioni, nel pensiero di quegli immigrati non ancora spinti dallo sterminio.

Il secondo saggio, anch’esso preceduto da studi di un certo peso, ha indole riassuntiva e didattica. Va subito detto che volumi di tal genere, più o meno profondi nell’analisi delle cause e delle prospettive di soluzione, sono legione e che tutti, qual più qual meno, hanno indole didattica come ogni opera di storiografia contemporanea: si cerca il bandolo della matassa per insegnare a districarne i nodi.

Il volume è sintetico, discorsivo e sostanzialmente preciso nell’informazione. Contiene tuttavia qualche ingenuità pericolosa. Definisce, ad esempio, il sionismo in questi termini (p. 21): «da Sion, la terra promessa da Dio ad Abramo e da cui gli ebrei erano stati cacciati nel 70 d.C.». Sion non è una terra, ma il nome biblico della collina su cui sorge Gerusalemme; nel 70 d.C. gli ebrei non sono cacciati da quella terra e neppure da Gerusalemme, città della quale furono privati nel 135 d.C., ed allora il Consiglio si stabilì in Galilea; la promessa di Dio ad Abramo non è un “fatto” storicamente valutabile, ma un’idea agente nella storia. Si perdoni la severità storica, ma ingenuità (nec peius dicam) di tal tipo sono spesso all’origine di molti malintesi e corti circuiti ideologici, soprattutto nel lettore europeo o americano, di tradizione cristiana.

La cosa che più stupisce il lettore non politologo o economista, ma sufficientemente al corrente delle problematiche locali, è una sistematica inversione nell’ordine delle cause, che potrebbe sembrare dettata da una volontà minimizzatrice. La debolezza politica dei governi di Barak e di Clinton, i quali non potevano garantire l’attuazione della «generosa offerta» fatta ad Arafat nel 2000, è definita «problema centrale», ma risolta in quattro righe al termine del capitolo dedicato al fallimento delle trattative in quel periodo (p. 201), fallimento attribuito da quasi tutti alla cecità politica della parte palestinese. Al problema del controllo delle falde acquifere e delle sorgenti, in buona parte situate nei territori occupati, si dedicano due scarse paginette (pp. 227-230 con inserzione di una pianta) al termine del libro, mentre è una delle cause principali della cartina “a macchia di leopardo” di ogni proposta di autonomia fatta ai palestinesi: gli israeliani non contano di cederne il controllo perché da esse fanno dipendere il loro approvvigionamento idrico.

Questo fenomeno è dovuto, probabilmente ad un duplice fuoco nella prospettiva dell’autore. Il primo: lasciate sullo sfondo (grazie a Dio) le problematiche religiose, Marzano sembra molto più interessato alla psicologia collettiva. Tornano spesso termini quali “frustrazione”, “angoscia” ecc. Forse a ciò lo preparano studi come quello di cui parliamo nella prima parte di questa recensione e chi conosce la regione (in fondo popolata da pochi milioni di persone) sa che il sentire collettivo conta parecchio. Il secondo, meno comprensibile: si ha l’impressione che le cause ideologiche remote (il sionismo, l’ideale nazionale arabo, o palestinese) e i sentimenti del presente contino di più che i giochi della macro-politica. Ciò suona strano da parte dell’autore di studi in tal senso (ad esempio, “La politica inglese in Mesopotamia e il ruolo del petrolio (1900-1920)”, Il politico 179 (1996) pp. 629-650). Alla presenza degli statunitensi nell’area, dalla fine del mandato britannico alla attuale egemonia politica, sono dedicate poche righe. Oggi che di tale influsso siamo molto più coscienti, come del fatto che coinvolge sempre di più anche i nostri stati nell’area vicino e medio orientale, non sarebbe male che un testo didattico ne tenessepdf più conto.

Ma anche a questo siamo abituati: i Libri dei Maccabei raccontano la rivolta ebraica contro i Seleucidi di Siria, successori dell’impero di Alessandro Magno nel controllo della regione. Ne parlano come di un conflitto religioso regionale, che oppone un piccolo popolo oppresso a un grande impero. Solo in un paio d’occasioni i Libri parlano della potenza determinante nella politica d’Oriente, in quel secondo secolo a.C.: Roma.

 

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