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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

Non c’è guerra senza violenza, se non quella tanto fredda da ridursi a semplice metafora. In essa, tuttavia, la natura dei soggetti in campo e la specificità dei fini perseguiti determinano anche la forma della forza come mezzo: violenti sono gli individui o le bande,pdf mentre si è soliti parlare di guerra, in senso tipico, solo nel caso di un “conflitto armato fra due entità politiche indipendenti, per mezzo di forze militari organizzate e per il perseguimento di una politica tribale o nazionale” 1. Eserciti e soldati, dunque, gli uni di fronte agli altri come in un duello. Con ciò non si è però detto ancora nulla sul ruolo dello stato, tanto che molti uomini sono morti (e continuano a morire) per interessi appunto tribali, prima che nascessero e cozzassero fra loro quelli delle nazioni e che questi ultimi trovassero la loro cornice istituzionale tipicamente moderna. Né si comprende perché rispetto alla guerra non si rinunci facilmente allo sforzo di elaborare un diritto (lungo i due filoni dello ius ad bellum e dello ius in bello), o addirittura di argomentare la tesi che proprio essa può diventare lo strumento della sua attuazione (in particolare per restaurarlo una volta che sia stato violato). La teorizzazione delle relazioni internazionali come relazioni essenzialmente interstatali e la rideclinazione su queste basi dell’antica questione della guerra giusta possono in effetti apparire il risultato di una mera contingenza storica. Esse rinviano però anche ad una precisa opzione teorica, che trova nel Leviatano il suo esemplare, obbligato punto di riferimento.

I termini del problema sono noti. La paura forza gli individui ad abbandonare la condizione originaria del bellum omnium contra omnes, al fine di meglio garantire la propria sicurezza e aumentare il proprio benessere. Ciò, tuttavia, non è più possibile fra gli stati: la sovranità coincide con una nuova, peculiare figura dell’individualità, per la quale non valgono i limiti imposti all’orgoglio, alla vendetta e all’uso della spada, mentre la rapina può tornare ad essere motivo del più grande onore: gli stati si riserveranno sempre la più assoluta libertà di fare ciò che riterranno più rispondente al loro “beneficio” e per questo vivranno “nella condizione di guerra perpetua e in procinto di battersi, con le frontiere fortificate e con i cannoni puntati contro i vicini” 2. C’è dunque un limite preciso della condizione civile dell’umanità, oltre il quale la natura torna implacabilmente a fare il suo corso o, per meglio dire, si crea una società (quella internazionale) di fatto asociale per la mancanza di un titolare dell’uso legittimo della forza. La guerra non è semplicemente violenza perché rappresenta il paradosso di “uno status giuridico che riconosce un eguale diritto a due o più gruppi di sostenere un conflitto che richieda l’uso delle armi” 3. Ma la politica che la guerra persegue con altri mezzi è per definizione quella “dello stato” 4 e quando non coinvolgono direttamente due di questi soggetti, che si riconoscono reciprocamente il diritto all’esistenza, le guerre si definiscono imperiali precisamente perché in gioco c’è l’eliminazione dell’indipendenza e autonomia dell’avversario, oppure, rispettivamente, infrastatali (civili) e infraimperiali5. Insomma, parafrasando Roger Caillois: lo stato, nato dalla violenza e che la contiene appropriandosene l’uso in monopolio, genera la guerra6. E per fare la pace ci vorrà un tavolo intorno al quale far sedere gli stati sovrani, tentando così di contenere ciò che in linea di principio non conosce limiti e dunque regole né sui fini né sui mezzi.

È scontata l’obiezione che quello del realismo non è l’unico profilo possibile della filosofia politica. Si può però essere idealisti e arrivare, almeno a questo livello, allo stesso risultato. La determinazione fondamentale dello stato, la sua unità sostanziale, è data allora da un rapporto nel quale ogni contenuto è sì distinto, ma come momento, cosicché le parti sono da intendersi alla stregua di “membra, momenti organici”, il cui isolamento ed esistenza per sé vale una vera e propria malattia 7. Anche questo recupero alla ragione di una dimensione istituzionale che non si limita a togliere la paura conferma tuttavia il ruolo dello stato come individualità esclusiva e che come tale si relaziona alle altre individualità consimili. L’idealità dell’organico si dimostra cioè e si mantiene solo all’interno della compagine statale e della sua “costituzione”, mentre all’esterno resta una pluralità irriducibile e potenzialmente conflittuale di soggetti. Risultato: non esiste alcun “arbitro supremo e mediatore fra gli stati” che non sia tale in modo puramente accidentale e la guerra non può mai essere scartata come mezzo per decidere le loro controversie, fermo restando che ciascuno dei contendenti è libero di “porre la sua infinità e la sua dignità” in ciò che ritiene tale, a prescindere da qualsiasi mediazione 8. La possibilità sempre reale della guerra, significativamente contrapposta all’utopia kantiana della pace perpetua, va certo a sua volta interpretata nel più ampio contesto della filosofia della storia e il riconoscimento della insostituibilità politica di una individualità che è tale in quanto includente e escludente non è necessariamente il veicolo di un militarismo arrembante. Ma la guerra può diventare addirittura, per questa via, presupposto senza bisogno “di essere qualcosa di quotidiano o di normale” e restando piuttosto la cartina di tornasole semplicemente pronta all’uso di uno stato di cose, con funzione esplicativa di ciò che è e, almeno politicamente, non può non essere. L’unità presuppone un’altra unità e uno stato mondiale non sarebbe un’unità politica: “Un globo terrestre definitivamente pacificato sarebbe un mondo senza più la distinzione fra amico e nemico e di conseguenza un mondo senza politica” 9. Eppure sarà proprio Schmitt, aggiornando la sua posizione alla luce della logica bipolare della prima fase dell’era atomica e del nuovo rilievo assunto dalla figura del partigiano-guerrigliero10, a riconoscere l’esigenza di un nuovo vocabolario e di una nuova comprensione. La storia si è ormai fatta beffe di tutte le distinzioni classiche “di politica ed economia, di militare e civile, di combattenti e non combattenti” 11.

L’ipotesi che suggeriamo di mettere alla prova nasce da uno spunto ancora una volta hegeliano, anche se sviluppato in una direzione decisamente diversa, che ne fa uno strumento ermeneutico della crisi dello stato-nazione, anziché il risultato delle sue istituzioni sussistenti. Una volta alleggerita della zavorra di questa eticità costituzionale l’idea della Gesinnung come convinzione, sentimento, orientamento e in questo senso patriottismo politico può forse adattarsi meglio ad una fenomenologia frastagliata e complessa. Non solo le guerre continuano, mentre la violenza è praticata sempre più spesso da uomini senza divisa e che non agiscono in nome e per conto di una “entità politica indipendente”. La stessa finalità del rovesciamento di un rapporto di forza e di dominio torna a ricomprendere fattori di appartenenza che proprio la nascita dello stato moderno dai processi di secolarizzazione e dalla distinzione pubblico/privato come risposta tollerante ai conflitti di religione e poi il tragico consumarsi della stagione delle ideologie, ivi compreso il mito della razza superiore, sembravano aver reso definitivamente obsoleti, come motivi di esclusione. Contemporaneamente la cosiddetta globalizzazione ha aperto vistose crepe nel tradizionale argine istituzionale che consentiva di riconoscere in pólemos il “padre di tutte le cose, di tutte re”, secondo la celebre definizione eraclitea del frammento 53, neutralizzandone però gli effetti almeno al livello di applicabilità del contratto che toglie il conflitto e con esso il timore (Hobbes), che è poi lo stesso della “natura seconda” della ragione (Hegel). Il pregiudizio nazionalistico che fa oltrepassare al patriottismo il confine della virtù, quelli religiosi e la confusione fra le certezze della propria fede e la verità nella definizione del bene e del male, le differenze infine di ceto sociale e condizioni economiche fra i “borghesi benestanti” e i poveri che essi disprezzano costituivano già per l’illuminismo delle magnifiche sorti e progressive gli ostacoli principali sulla via della costruzione di un mondo che si sarebbe finalmente potuto dire buono perché in esso sarebbero diventate superflue la maggior parte di quelle che comunemente si chiamano “buone azioni”12. Oggi possiamo dire che l’orizzonte della filosofia politica si è effettivamente ampliato fino a coincidere con quello del mondo, che lo ha fatto esattamente lungo queste direttrici e che l’esito di questo percorso è il declino dello stato nazionale come unico “contenitore” includente/escludente della società, dei suoi attori e delle sue dinamiche13. E tuttavia resta perlomeno dubbia la tesi che per lo stato post-moderno proprio la globalizzazione costituisca di per sé l’occasione tanto attesa per arrivare finalmente ad un ordine internazionale di pace e di sicurezza14 e non, al contrario, l’incipit di un pericoloso rifluire della guerra verso la sua condizione di pura violenza, impermeabile a tutti i simulacri della giuridicizzazione costruiti intorno allo stato-soggetto e grazie ai quali gli individui restavano almeno nemici solo “accidentalmente, non come uomini e nemmeno come cittadini, ma come soldati”15. La domanda fondamentale, ricordando che anche Lessing contesta il patriottismo che cessa di essere una virtù e che dunque, mantenuto nei suoi giusti limiti, può ben essere tale, potrebbe essere formulata in questi termini: il cosmopolitismo rimane un’astrazione solo finché l’unica concretezza riconosciuta è quella degli stati, diventando di conseguenza la sola concretezza ideale nel momento in cui la loro sovranità si disperde? Oppure c’è una qualche forma appunto di patriottismo che non è il pendant soggettivo-sentimentale della impossibilità di imporre a priori a un popolo la sua costituzione e dunque semplice effetto di quest’ultima, una volta che in essa si sia dispiegata la reciprocità di razionale e reale16? In caso di risposta positiva a questa domanda, evidentemente, nella consuetudine che rinnova e consolida una volontà di appartenenza e si consolida in fiducia rifluiscono tutti i vettori dell’inclusione che esclude, perché non si dà comunque passaggio diretto dall’individuale all’universale, anche quando si riconosce l’importanza infinita dell’affermazione che l’uomo ha valore in quanto uomo.

L’economia non ha funzionato come medium della pacificazione mondiale. Questa speranza era nata con la rivoluzione industriale, per poi giocarsi fra il massimalismo di chi concludeva senz’altro che “l’effetto naturale del commercio è di portare alla pace”17 e la più modesta fiducia che l’industria, la conoscenza e l’umanità, proprio perché destinate a crescere insieme, avrebbero reso almeno le rivoluzioni “meno tragiche” e le guerre “meno crudeli”18. Su questo ottimismo convergeranno la prospettiva sociologica del passaggio da una società militare a quella in cui, raggiunto finalmente lo stadio positivo dell’evoluzione dell’uomo, la guerra semplicemente sparirà 19 e la rivisitazione del motivo tucidideo dell’utile, con l’amore per la gloria e la paura uno dei tre istinti fondamentali che condurrebbero alla guerra, sotto il segno appunto dell’opzione per una via diversa e più efficace della conquista con le armi per arrivare a “possedere ciò che si desidera”20. Siamo sulla linea di Clausewitz, che aveva sottolineato precisamente l’analogia fra la guerra e il commercio come conflitto di interessi e attività umane, ma per dichiarare conclusa, sotto l’impulso del secondo, la storia della prima. A questa prospettiva di pace si contrappone però la sottolineatura delle motivazioni essenzialmente, insuperabilmente economiche della guerra, che sarebbe in primo luogo, al di là delle giustificazioni di difesa nazionale o di crociata, partigiane o dinastiche, “sempre questione di proprietà dei mezzi di produzione fondamentali, a partire dalla terra come “mezzo generale” e come “condizione oggettiva” della produzione sociale […] Il che significa, in altri termini, che fino a quando esisteranno problemi di appropriazione, in forma più o meno esclusiva, di mezzi di produzione fondamentali, la guerra sarà sempre possibile”21. Così come essa è sempre stata per i sostenitori anche non crudamente neo-darwiniani del suo fondamento naturale, che senza inclinare necessariamente verso la celebrazione della vertiginosa sacralità di “una prova che fortifica e che esalta”, perché “la guerra e il coraggio hanno operato cose più grandi che l’amore del prossimo”22, o l’apologia della lotta come estremo rifugio della bellezza e “sola igiene del mondo”23, prendono atto di una funzione tipicamente umana dell’aggressività, che è precisamente quella per la quale essa serve ai gruppi “per disputarsi la terra e le risorse”24. Giova peraltro ricordare come proprio Kant vedesse la garanzia della pace perpetua nell’azione della grande artefice Natura, capace di far germogliare la concordia da quell’istinto della guerra seguendo il quale i più forti cacciano i deboli dalle terre più ricche, con il risultato che vengono abitate e coltivate regioni che resterebbero altrimenti abbandonate e i popoli si costituiscono in stati, appunto per far fronte alla minaccia che proviene loro dai vicini: la guerra, questa “impresa sconsiderata degli uomini (suscitata dalle loro passioni sfrenate), forse nasconde profondamente qualche disegno della saggezza suprema”25. Disegno che può magari secolarizzarsi all’interno di una filosofia della storia, fino all’interpretazione rivoluzionaria dell’imperialismo come fase suprema del capitalismo: proprio perché il capitale ha ormai raggiunto la fase conclusiva del suo sviluppo si sono create “le premesse obiettive per l’attuazione del socialismo” e la “guerra civile” contro la borghesia nella quale trasformare quella imperialista per l’asservimento di nazioni straniere al fine di depredarne le ricchezze può essere davvero l’ultima, dopo la quale si dovrà “necessariamente realizzare la completa democrazia”26.

Nella guerra non ci sono sempre e soltanto mezzi di produzione da appropriarsi, scarsità da compensare o eccessi di accumulazione di capitale umano da bilanciare giocando sull’alternativa di conquista e sacrificio27. Viceversa, è fin troppo chiaro non solo che il mercato globale non ha affatto tolto le distanze materiali che comunque facilmente alimentano prima il risentimento, poi l’odio e infine il conflitto. È vero che negli ultimi decenni la povertà in termini assoluti si è ridotta anche nei paesi che occupano gli ultimi posti nella scala della ricchezza, ma sono appunto aumentate le disuguaglianze: per la distribuzione del reddito pro capite fra le venti economie più ricche e le venti più povere, per esempio, dal 1960 ad oggi il differenziale è raddoppiato28. La logica industriale si è nel frattempo dimostrata capace di integrarsi pienamente con quella militare, trovando anzi in essa una delle maggiori e più stabili fonti di profitto. Se un effetto c’è stato (e non necessa-riamente moderatore), esso va cercato proprio nello spiazzamento degli stati-nazione ad opera di una spinta che rompe inesorabilmente le loro strette cornici e realizza un’internazionalizzazione della vita economica “nella quale non soltanto l’esportazione delle merci, ma anche l’esportazione di capitali ha la massima importanza sostanziale” 29. Per Lenin si prepara così, come abbiamo detto, l’avvento del socialismo. Ma anche la fede intransigentemente liberista di Cobden aveva chiesto “meno relazioni possibili tra i governi, quanti più rapporti possibili tra le nazioni 30. Da questi rapporti sarebbe infatti nata spontaneamente quella cooperazione, quasi una sorta di governance endogena ai mercati finanziari e commerciali, che doveva rappresentare la risposta autenticamente cosmopolita dell’economia ai paladini dell’imperialismo. Resta il dubbio che, se è vero che quest’ultimo era stato generato dalla necessità per la borghesia moderna di oltrepassare le tradizionali frontiere della sovranità politica 31, essa potrebbe semplicemente essersi adattata al suo tramonto. Il “nodo tuttora irrisolto dei limiti d’azione dello stato nazionale nell’epoca dell’economia e della comunicazione «globali»” 32, coinciderebbe allora con il rischio che interessi che sono appunto ormai ben altro che nazionali, sottraendosi ad ogni circuito di rappresentanza e visibilità istituzionali, finiscano col muoversi al di fuori di ogni controllo. Gli stati continuerebbero insomma a mettere in campo gli eserciti, ma le ragioni sarebbero ormai di altri.

Il percorso dei diritti umani non appare meno accidentato. Proprio il fatto che l’organizzazione più importante nata con ambizioni sovranazionali con lo scopo di garantire la pace abbia cercato prima di tutto di arrivare ad un riconoscimento universale di tali diritti 33 dimostra come non ci sia cosmopolitismo istituzionale che possa prescindere da una qualche forma di legittimazione morale. Di qui una lunga serie di problemi fin troppo noti e discussi, che riguardano da una parte le questioni connesse alla effettiva giustiziabilità delle controversie in questa materia davanti a un tribunale mondiale al quale affidare l’ipotesi kelseniana di un giudice senza legislatore, senza cioè l’immediato, traumatico risucchio verso l’alto di tutti i parametri della sovranità, dall’altra la definizione di ciò che deve essere tutelato in presenza di concezioni del bene che non sempre consentono margini di sovrapposizione per consenso operativamente utili. Quali, in primo luogo, le forme e i limiti dell’eventuale ingerenza umanitaria da parte della comunità internazionale o di alcuni dei suoi membri? Almeno alcuni regimi democratici possono alla resa dei conti risultare diffidenti non meno di quelli totalitari, come ben dimostra il caso recente della Corte criminale internazionale, nei confronti di operazioni che comunque comportano una messa in circolo dei rapporti di forza, ai quali più facilmente si appoggiano la difesa dell’identità e la tentazione del dominio. Anche senza entrare nel difficile dibattito sulla possibilità o meno di considerare la guerra uno strumento legittimo per arrivare ad una pace giusta, non si può inoltre non prendere atto della attuale, strutturale asimmetria delle condizioni di applicabilità di un principio equivalente all’azione della polizia giudiziaria negli ordinamenti giuridici nazionali. La mancanza di una credibile forza militare delle Nazioni unite è l’effetto non meno che la causa di quella permanente dislocazione sugli stati della potenza di azione e reazione che resta la migliore assicurazione d’impunità per violazioni anche sistematiche dei diritti umani, che un inevitabile realismo è per questo costretto a considerare come motivi certo necessari, ma mai sufficienti, per un intervento armato. L’apologia del bene, insomma, può paradossalmente costituire il più forte incentivo al riarmo di chi ancora non si sente abbastanza forte. Nel frattempo, per quanti hanno raggiunto questa condizione, la tutela degli imprescrittibili diritti dell’uomo resta una scelta di politica interna.

E ancora: ogni volta che si individua uno stato-canaglia si fa evidentemente appello all’antica certezza appunto morale che, senza giustizia, i regni non sono altro che grandi brigantaggi, così come le bande di briganti non sono altro che piccoli regni 34, ma la giustizia che si reclama non è mai una questione semplicemente procedurale e dunque chi può garantire che il suo contenuto sostanziale non resti oggetto di divergenze e conflitti? Che sono più gravi e pericolosi quando, proprio fissando il limite dell’assolutamente intollerabile, la giustizia riconosce di non potersi fondere con l’ideale della pace perpetua. Ritorna per questa via, evidentemente, il motivo del diritto di resistenza, fino al sacrificio di sé e forse oltre. E allora “prima di tutto la giustizia, fino al sangue, al nostro sangue. Poi si vedrà” 35. E allora la crisi di tutti coloro che arrivano a rimproverarsi amaramente di non aver capito per tempo che c’era un male troppo grande per non essere combattuto, ad ogni costo 36. Ma ciò non significa illudersi che la democrazia imposta con la forza debba necessariamente suscitare in chi la subisce una reazione diversa da quella delle vittime della guerra che per Aristotele era naturalmente giusta, perché condotta contro quegli uomini che, nati per essere schiavi ed obbedire, rifiutavano di sottomettersi 37. Il bene e il male si definiscono sempre all’interno di patrie morali e così ogni forma di cosmopolitismo che salti la difficoltà di trasformare i valori in diritti è destinata a scivolare nel paternalismo interculturale che pretende, magari in buona fede, “di imporre uno stile di vita nel suo complesso a chi non l’abbia ereditato per tradizione e storia” 38. E non c’è bisogno, perché la differenza si espliciti, che la patria si caratterizzi per un particolare grado di omogeneità etnica, culturale e religiosa, che pure la rende certamente più esposta al rischio di chiusura e intolleranza 39. Tradizione e storia sono tutto ciò che mantiene l’identità localizzata in una cultura, personalizzata in una rete di relazioni fiduciarie, ritualizzata nello stile e nei gesti di una quotidianità diffusa 40. Patria, in questo senso, può essere anche quella in cui si impara ad apprezzare il libero sviluppo della personalità come il primo bene da perseguire, a diffidare dell’opinione e del sentimento dominante, a proteggersi dalla tendenza della società a costringere tutti gli individui a conformarsi ad un modello dato 41. Come si può pensare, però, una giustizia immanente all’orizzonte strutturalmente plurale dei soggetti che coinvolge? Questa immanenza non vale forse la rinuncia ad ogni pretesa normativa e dunque la ricerca sempre solo di fatto delle convergenze possibili?

Nella società-mondo il vettore economico ha scardinato le appartenenze territoriali e davvero in Borsa si parla un unico linguaggio e “l’ebreo, il maomettano e il cristiano trattano l’un l’altro come se fossero della stessa religione” 42. Eppure questa forma di liberazione dal gioco reciproco di inclusione ed esclusione è illusoria non meno di quell’oblio della distanza fra come si vive e come “si doverebbe vivere” che è la causa sicura della rovina dell’uomo buono “fra tanti che non sono buoni” 43. La tensione di identità e alterità è ineliminabile, non fosse altro perché, come ci insegna la fenomenologia del desiderio, l’uomo, desiderando intensamente, non sa esattamente cosa desidera e “attende dall’altro che gli dica ciò che si deve desiderare, per acquistare tale essere” 44. Per questo lo stesso diritto riesce a proteggere una comunità dalla violenza che sempre la minaccia solo attraverso una strategia di immunizzazione, grazie cioè al fatto che esso la porta conficcata “nel cuore stesso del proprio funzionamento”: il sistema giudiziario prosciuga la violenza nel momento in cui la pratica impedisce così il reduplicarsi all’infinito del bisogno di vendetta 45. A questo livello, probabilmente, si trova già uno spunto anche per comprendere perché l’esigenza di giuridicizzare la guerra si sia mostrata nel tempo almeno altrettanto forte di quella della sua giustificazione morale 46. Ma soprattutto si percepisce come nella solitudine del cittadino globale, sballottato nel flusso di immagini che hanno scompaginato frontiere e memorie collettive e pronto ad attaccarsi anche alle “comunità-gruccia” che durano lo spazio di un mattino 47, possa incunearsi la seduzione di quei surrogati della trasformazione “dell’altruismo personale in un egoismo nazionale” 48 che dal grande dizionario di metafore della guerra riprendono la pratica della sovversione dell’ordine quotidiano come necessaria premessa per aprire almeno un varco verso l’unità e l’ideale che la modernità ha disperso, letteralmente liquefatto. Questo varco è spesso quello della festa, del ritrovarsi in piazza per scambiarsi il gesto inclusivo della comunione. Quando questo gesto manca la ricerca della purezza può però rendere l’identità armata non meno della paura, spingendola a “schiacciare, far scomparire dall’orizzonte l’alterità”, a rifiutare di riconoscere che essa è fatta anche di quest’ultima e la incorpora nei propri “processi formativi e metabolici”. Con l’effetto di mancare sempre l’obiettivo, perché l’alterità, per quanto respinta, riaffiora 49.

L’alleggerimento dello stato è probabilmente inevitabile, ma una frettolosa rinuncia ad esso potrebbe aprire scenari potenzialmente più inquietanti e soprattutto meno governabili di quelli dai quali proveniamo. Anche la psicoanalisi, seguendo la traccia della freudiana deflessione all’esterno dell’istinto di morte, ha riconosciuto appunto nello stato “una strana agenzia di import-export di distruzione”, con la quale scaricare su un pezzo di mondo esterno angosce interiori che possono così essere aggredite e del tutto impropriamente curate. Proprio il potenziamento della minaccia reale fino alla prospettiva pantoclastica dell’era atomica avrebbe tuttavia messo in crisi questo meccanismo (paranoico) di stabilizzazione dell’identità, imponendo l’abolizione della sovranità dello stato come attributo precipuamente legato all’istituzione guerra e il ritorno ai singoli individui della aggressività che essi vi avevano depositato come in una banca; lo stato deve essere liberato dall’ingorgo della violenza privata da esso “monopolizzata, capitalizzata ed eventualmente atomizzata” 50. Tale monopolio della violenza può certo essere vissuto come atto d’amore inconfutabile e indimostrabile, dunque assoluto e mortale: “Io amo la Germania e voglio per questo che viva” 51. Ma questo amore, in quanto corrisponde ad un’energia comunque da investire, difficilmente resterà senza oggetto e l’improvvisa chiusura della banca potrebbe non bastare a rendere gli investitori più razionali. Molti potrebbero anzi orientarsi su titoli ad alto rendimento, ma a rischio altrettanto elevato. Non c’è dubbio, d’altra parte, che la difficoltà principale nelle relazioni internazionali è legata in questo momento proprio all’impossibilità di far fronte a gran parte delle crisi in atto – prima fra tutte quella aperta dall’azione terroristica dell’11 settembre2001 – lavorando sulle opzioni ancorate all’identificazione di sovranità e potenza. Non funziona il vecchio modello dell’equilibrio, che presuppone il reciproco, almeno temporaneo riconoscimento del diritto ad esistere e il calcolo utilitaristico della differenza fra i vantaggi di un ordine più o meno concertato e i costi del conflitto sempre possibile e che proprio per questo, come equilibrio del terrore, ha garantito un lungo periodo di pace: quel saldo era sempre negativo, una volta computata sulla colonna dei costi la minaccia della distruzione totale e azzerato il carattere contingente e variabile delle relazioni di forza. Oggi anche la più devastante capacità di risposta militare ad un attacco può non proteggere dalla frustrazione della più grande impotenza, quando il nemico è infinitamente più piccolo, ma semplicemente non si lascia vedere (con la giustificazione che la guerriglia e lo stesso terrorismo sono la risorsa estrema di fronte all’impossibilità di affrontare la battaglia in campo aperto per manifesta superiorità dell’avversario). Per lo stesso motivo anche l’impero ha i piedi d’argilla, con l’aggravante che l’inclusione può essere facilmente avvertita come un’esclusione mascherata, che non può più essere esternalizzata e dunque non lascia spazi di fuga fra l’omologazione e la ribellione.

La via d’uscita dal modello Westfalia, che l’Europa ha esportato con successo per alcuni secoli, passa allora per l’ingresso di altri soggetti e soprattutto di più complessi e policentrici livelli di aggregazione sulla scena delle relazioni internazionali. Occorre però imparare a sganciare il cosmopolitismo delle regole dalla sua ipoteca morale, includendo in esso uno spazio flessibile e sufficientemente aperto per il patriottismo (il gruppo), oltre che per il politeismo (l’individuo) dei valori. Gli stati diventano transnazionali, cioè aperti alla coesistenza di diversificati codici identitari e capaci di “dividersi le lealtà dei loro cittadini, da un lato con altre autorità regionali ed espresse dalla società mondiale, dall’altro con autorità substatali, subnazionali. Questa “nuova medievalità” significa che le identità e i legami sociali e politici devono essere sovrapponibili, pensando a punti di riferimento e a progetti d’azione globali, regionali, nazionali e locali” 52. L’esigenza di superare il deficit di democraticità dei poteri che si formano nella globalizzazione dei mercati e dei saperi apre d’altronde alla costruzione di una dimensione politica interna mondiale, in grado di sottrarsi ai fantasmi di un’umanità ad una dimensione proprio grazie all’articolazione di un nuovo e flessibile livello istituzionale universale 53. È chiaro che alla definizione di quest’ultimo può senz’altro giovare - posto che la guerra è l’antitesi del diritto 54, ma il diritto è come abbiamo visto lo strumento più efficace per la terapia della violenza - l’allargamento anche progressivo e graduale della giuridicizzazione delle relazioni attraverso le quali una società che era nata anarchica perché funzionalmente indifferenziata e giocata su rapporti di forza fra soggetti formalmente riconosciuti di pari dignità riorienta quei rapporti al principio del dialogo e del consenso 55, verificando l’ipotesi che una sovranità condivisa non comporta una riduzione dei propri margini di sicurezza. La cautela è però d’obbligo, perché il “pacifismo istituzionale” sconta come abbiamo visto un eccesso di idealismo, se non di ingenuità, nello stabilire un’analogia troppo stretta fra l’evoluzione dei sistemi giuridici arcaici e quella del sistema internazionale 56.

Retrocedere dagli stati e tornare ai popoli può essere un modo per sottolineare e difendere l’idea che la causa della giustizia non si colloca fra sovranità chiuse, ma fra appartenenze che sono, nella loro particolarità, culturali e morali, oltre che istituzionali. Purché non si coltivi la pretesa di distribuire con troppa facilità patenti di decenza 57 o addirittura quella di un dispotismo dei valori che costituirebbe l’eco appena ingentilita di quello politico che si autoproclamava legittimo quando il fine era il progresso e si aveva a che fare con razze considerate ancora minorenni 58. Così si alimenterebbe solo il fondamentalismo di tradizioni assediate, “figlio della globalizzazione, a cui reagisce e di cui nello stesso tempo si serve” 59. La legge di questi popoli deve restare una forma di relazione senza sussunzione e per questo eminentemente politica, come tale probabilmente costretta, in qualche occasione, a tornare a cercare l’equilibrio prima della giustizia e a farlo utilizzando una tastiera più ampia di quella della forza che scoraggia l’aggressione a viso aperto, ma può poco contro la violenza in abiti civili. Certo, perché ciò che è realisticamente ragionevole non rimanga ostaggio della costellazione empirica e intrecciata delle appartenenze occorrerà mantenere perlomeno la tensione a ciò che, anche nelle relazioni internazionali, può proporsi come incondizionatamente meritevole di essere realizzato. Si tratterà però di una valenza normativa che poggia meno sulla universalità dei principi e più sulla esemplarità di relazioni capaci di stabilizzare il riconoscimento reciproco e quindi il consenso ad istituzioni comuni 60. Fra la patria e il mondo c’è sempre una discontinuità, che però può diventare catalizzatore dinamico di integrazione e dunque virtù. Discontinuità, perché il mondo contiene le differenze degli interessi, delle culture e delle fedi nella forma della negazione, posto che tale resta ogni determinazione e l’identità è una determinazione. E tuttavia potenzialmente virtuosa, perché nessuna di quelle differenze è in grado di assolversi dal suo significato essenzialmente interlocutorio, riflesso dell’idea regolativa della giustizia nell’unica forma che, a questo livello, può portarci ad una almeno parziale immunizzazione dal male oscuro della storia.


Note


1 Cfr. R. Aron, La politica, la guerra, la storia, ed. it. a cura di A. Panebianco, Bologna, il Mulino, 1992, p. 410. La definizione è ripresa da Malinowski e Pear.
2 T. Hobbes, Leviatano, Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 210.
3 Q. Wright, A Study of War, Chicago 1942, I, p. 8.
4 C. von Clausewitz, Della guerra, ed. it. a cura di G.E. Rusconi, Torino, Einaudi, 2000, p. 9.
5 Cfr. R. Aron, Paix et guerre entre les nations. Trad. it. Pace e guerra fra le nazioni, Milano, Edizioni di Comunità, 1970.
6 “Se lo stato è nato dalla guerra, esso le rende la pariglia, generandola a sua volta. I loro progressi vanno di pari passo” (R. Caillois, La vertigine della guerra, Roma, Edizioni Lavoro, 1990, p. 106).
7 Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. di F. Messineo, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 275 (§ 278).
8 Ivi, pp. 207 (§ 209) e 324-325 (§§ 333-334).
9 C. Schmitt, Le categorie del politico, ed. it. a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, il Mulino, 1998, pp. 116-118 e 137.
10 L’incarnazione dell’opposizione autoctona all’invasore straniero aveva peraltro sollecitato l’attenzione dello stesso Clausewitz. È la “guerra di popolo” condotta in Spagna contro Napoleone a fornire l’esempio di una particolare forma di ampliamento e intensificazione “dell’intero processo di fermento che chiamiamo appunto guerra”, ferma restando l’insostituibilità di un esercito e dunque la necessità per lo svolgimento di queste operazioni di non materializzarsi mai in un corpo compatto che il nemico potrebbe facilmente distruggere e di seguire piuttosto l’esempio di quelle nuvole minacciose dalle quali può improvvisamente scoccare “un fulmine potente” (C. von Clausewitz, op. cit., pp. 183 e 187).
11 C. Schmitt, op. cit., pp. 99-100. La Theorie des Partisanen esce nel 1963 (trad. it. Milano, il Saggiatore, 1981), lo stesso anno della riedizione de Il concetto di “ politico”.
12 Cfr. G.E. Lessing, Ernst e Falk. Dialoghi per massoni, in La religione dell’umanità, ed. it. a cura di N. Merker, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 106-7 e 99.
13 Cfr. per esempio U. Beck, Che cos’è la globalizzazione, Roma, Carocci 1999, che distingue per questo il globalismo del mercato mondiale, la globalità della società-mondo e la globalizzazione che apre i confini dello stato nazionale.
14 Come sostenuto per esempio, prima dell’11 settembre, in R. Cooper, The Postmodern State and the World Order, London, Demos, 2000.
15 J.J. Rousseau, Del contratto sociale, in Opere, ed. it. a cura di P. Rossi, Milano, Sansoni, 1993, p. 282.
16 Cfr. G.W.F. Hegel. op. cit., pp. 207, 251 e 273 (§§ 209, 268 e 274).
17 C. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Torino, Utet, 1952, p. 528.
18 D. Hume, Of Refinement in the Arts, in The Philosophical Works, edd. T.H. Green e T.H. Grose, vol. III, Aalen 1964, p. 303.
19 Cfr. A. Comte, Corso di filosofia positiva, Torino, Utet, 1967, p. 427.
20 B. Constant, De l’esprit de conquête et de l’usurpation, in Œuvres, Paris, Gallimard, 1979, p. 959. Citato, come Montesquieu e Comte, da L. Bonanate, La guerra, Roma-Bari, Laterza, 1998.
21 Guerra, in Enciclopedia del Novecento, p. 1008.
22 Cfr. R. Caillois, op. cit., p. 91 e F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano, Mursia, 1978 (8), p. 49.
23 F.T. Marinetti, Manifesti del futurismo, cit. da S. Guglielmino, Guida al Novecento, Milano, Principato Editore, 1971, II, 99.
24 I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, Torino, Boringheri, 1983, p. 191.
25 I. Kant, Per la pace perpetua, in Scritti politici, ed. it. a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Torino, Utet, 1965, p. 306 e Critica del giudizio, ed. it. a cura di V. Verra, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 310.
26 Lenin, La guerra imperialista, trad. it. di F. Platone, Roma, Edizioni Rinascita, 1950, pp. 175 e 18.
27 Il ruolo primario del fattore demografico è sostenuto da G. Bouthoul, Le guerre. Elementi di polemologia, Milano, Longanesi, 1982 (1961).
28 Cfr. L. Becchetti e L. Paganetto, Finanza etica. Commercio equo e solidale, Roma, Donzelli, 2003, pp. 28-45.
29 Lenin, op. cit., p. 20.
30 R. Cobden, The Political Writings, London-New York 1867, vol. I, pp. 282-283.
31 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, Edizioni di Comunità, 1976, pp. 171 sgg.
32 G. Sadun Bordoni, La crisi politica della modernità, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 16.
33 Solo cercato, visto che alcuni paesi, come l’Arabia Saudita, significativamente non accettarono la Dichiarazione occidentale del 1948.
34 Agostino, La Città di Dio, Torino, Einaudi, 1992, p. 147.
35 E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, Milano, Edizioni di Comunità, 1955, p. 283. Fermo restando naturalmente che la spada dello spirito alla quale qui Mounier si riferisce è quella della forza non dell’aggressività, ma della generosità.
36 Come Simone Weil, che dopo aver scritto nel 1938 che l’eventualità di una guerra le faceva preferire l’ipotesi di un’egemonia della Germania in Europa, che poteva, “in fin dei conti, non essere una sventura”, riconobbe qualche anno dopo che perseguire la distruzione di Hitler, con o senza speranza di successo, era in realtà l’unica cosa da fare: “Forse ho assunto questo atteggiamento troppo tardi. Credo che sia così e me ne rimprovero amaramente” (S. Weil, Sulla guerra, Milano, Nuova Pratiche Editrice, 1998, pp. 92 e 19-20).
37 Cfr. Aristotele, Politica, ed. it. a cura di C.A. Viano, Milano, Rizzoli, 2002, p. 105.
38 S. Maffettone, Etica pubblica. La moralità delle istituzioni nel terzo millennio, Milano, il Saggiatore, 2001, p. 309.
39 Le patrie, per intenderci, alle quali non intenderebbe ispirarsi il neo-patriottismo repubblicano. Cfr. M. Viroli, Repubblicanesimo, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 80-81.
40 Cfr. F. Casetti e C. Giaccardi, Tradizione e comunicazione nell’era della globalità, in Globalizzazione. Comunicazione. Tradizione, “Quaderni della Segreteria generale Cei”, VI (2002), nr. 21, p. 36.
41 Cfr. J.S. Mill, Saggio sulla libertà, Milano, il Saggiatore, 1999, p. 7.
42 Voltaire, Lettere filosofiche, in Scritti politici, a cura di M. Fubini, Torino, Utet, 1964, p. 234.
43 N. Machiavelli, Il Principe, in Opere, vol. I, Torino, Einaudi, 1997, p. 159.
44 R. Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1980, p. 193.
45 Cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002, pp. 12-13 e 48.
46 Per la quale “ciò che la maggior parte di noi vuole, persino in guerra, è agire o dare l’impressione di agire moralmente; e il motivo per cui lo vogliamo è, semplicemente, che sappiamo cosa significa moralità – almeno sappiamo cosa generalmente si ritiene che sia” (M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Napoli, Liguori, 1990, p. 36).
47 Cfr. Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000, Voglia di comunità, Roma-Bari, Laterza, 2001 e Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002.
48 R. Niebhur, Uomo morale e società immorale, Milano, Jaca Book, 1968, p. 23.
49 Cfr. F. Remotti, Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, 2003 (1996), pp. 61-63.
50 F. Fornari, Psicoanalisi della guerra, Milano, Feltrinelli, 1988 (3), p. 21.
51 G. Simmel, Sulla guerra, a cura di S. Giacometti, Roma, Armando, 2003, p. 63.
52 U. Beck, op. cit., p. 137.
53 Cfr. J. Habermas, La costellazione postnazionale, Milano, Feltrinelli, 2000.
54 Cfr. N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, il Mulino, 1979, p. 111.
55 Cfr. K. Waltz, Teoria della politica internazionale, Bologna, il Mulino, 1987, cap. V e H. Bull e A. Watson, L’espansione della società internazionale, Milano, Jaca Book, 1994, p. 3. Di Bull si veda anche lo studio ormai classico su The Anarchical Society. A Study of Order in World Politics, London, Macmillan, 1977.
56 Cfr. per esempio le osservazioni sulla proposta sviluppata da Kelsen in La pace attraverso il diritto, Torino, Giappichelli, 1990, di P.P. Portinaro, Il realismo politico, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 120-124.
57 Su The Law of Peoples di Rawls, sullo sfondo appunto di una rilettura dei paradigmi della giustizia internazionale e del dibattito fra cosmopolitismo e nazionalismo come forma della più generale controversia fra primato dell’individuo e del gruppo cfr. F. Viola, Problemi filosofici di giustizia internazionale. A proposito di The Law of Peoples di John Rawls, in “Ars Interpretandi”, 2001, nr. 6, pp. 115-155.
58 Cfr. J.S. Mill, op. cit., p. 13.
59 A. Giddens, Il mondo che cambia, Bologna, il Mulino, 2001, p. 65.
60 Cfr. A. Ferrara, Neutralità e giustificazione politica nel liberalismo degli anni Novanta tra perfezionismo, proceduralismo e ragione pubblica, in AA.VV., Libertà, giustizia e bene in una società plurale, a cura di C. Vigna, Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 350-353.

 

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