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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

 

Esiste un “pensiero religioso” sulla guerra? O più precisamente: quale è la concezione della guerra nel pensiero religioso? pdfPerché indubbiamente le grandi religioni universali di redenzione non hanno potuto, né voluto, ignorare le questioni ed i problemi che la guerra poneva al loro messaggio di salvezza. E spesso hanno risposto a questo problema nei termini - per anticipare una possibile ipotesi di lettura – di una assunzione della guerra stessa nel proprio messaggio di salvezza. Facendo cioè della guerra uno strumento (ad un tempo doloroso e necessario) di affermazione e di diffusione della propria via di salvezza. Come dire? - una subordinazione della vita umana alla più ampia missione redentrice religiosa, la cui affermazione andava oltre le singole esistenze umane. Forse nasce da qui l’idea della guerra santa, un paradosso che oggi offende la sensibilità contemporanea ma che trovava ampio consenso nella mentalità di numerose culture dell’antichità, come alcuni esempi possono meglio chiarire.

 

Guerra e religioni

Per gli ebrei antichi, ricorda Max Weber1 Jahvè stesso era il vero e proprio capo supremo e condottiero in una guerra federale (ghedah). Ed in questo senso “una guerra confederale era perciò una guerra santa”2 L’arca stessa di Jahvè costituiva il “santuario portatile da campo” (idem) e, secondo la traduzione sacerdotale, Dio era ritualmente invitato a levarsi da essa e mettersi a capo dell’esercito; dopo la battaglia lo si invitava a riprendere il suo posto3.

Nota Weber che questo Dio guerriero dell’alleanza (cherem), verrà ad assumere col tempo e lo svilupparsi del giudaismo in una piena confessione religiosa, un “principio fanatico secondo cui il nemico del paese doveva essere semplicemente annientato”4. Un simbolo di questa ideologia guerresca è Sansone, il “guerriero furioso” dalla “lungondeggiante capigliatura” propria degli uomini che si consacrano alla guerra (hithnadeb) che quando è posseduto dallo spirito di Jahvè “fa a brani leoni, incendia campi, abbatte case, percuote a morte con qualsiasi strumento qualsiasi massa di uomini e compie altri atti di selvaggia furia guerresca”5.

Tuttavia, questa estremizzazione costituisce per Weber solo un aspetto del pensiero religioso del giudaismo antico, il quale si nutriva, insieme “del comandamento della clemenza verso i deboli e i meteci che impronta molte parti della Sacra Scrittura”6. L’atteggiamento verso la guerra mostra così, già a partire dalla tradizione a noi più prossima, quella giudaica, il suo fatale condizionamento storico – culturale che produce un dinamismo interno tra i toni del fanatismo e quelli del pacificismo, secondo le mutevoli vicende sociali e politiche del popolo che esprimeva tale religiosità.

In questo senso dunque, Gerardus Van der Leeuw7, afferma senza indugio che “l’ospitalità e la guerra sono, l’una non meno dell’altra, attività religiose, destinate a vincere la potenza straniera o a neutralizzarla”.

E’ interessante cogliere questa duplice possibilità, dell’ospitalità e della guerra, dell’accoglienze e del rifiuto dell’altro, come mezzi egualmente religiosi per vincere la potenza straniera. Rivelano la possibilità di una scelta sempre presente; di una risposta culturale “aperta”, che le società possono elaborare per far fronte alle proprie tensioni e contraddizioni storiche, interne ed esterne.

Storicamente, questa scelta è stata purtroppo una scelta in favore del proprio particolarismo, un tratto costitutivo di ogni gruppo locale, per il quale gli altri sono sempre stranieri; estranei la cui presenza va combattuta, anche per (ri)affermare la coscienza della propria identità.
Al riguardo, Pierre Clastres8 analizzando la guerra nelle sue “forme elementari”, cioè in società “primitive” e “selvaggie”, secondo l’insegnamento di Durkheim9 ha riscoperto ed evidenziato con forza nell’archeologia della violenza questa matrice sociogenetica “originaria”, che è alla base del conflitto intraspecifico organizzato umano.

La guerra, cioè, nelle sue forme “elementari” non appare riconducibile (come pure molto spesso si dice e si pensa) ad una presunta matrice biologica, etologica o comunque innatistica (lo spirito sanguinario ed aggressivo attribuito a certe etnie). No, per Clastres la guerra primitiva nasce dalla “struttura stessa della società selvaggia: il suo particolarismo produce e dà senso alla guerra”.

Per ogni gruppo locale gli altri sono sempre degli stranieri, ma è anche e solo la figura dello straniero che conferisce ad ogni gruppo la coscienza della propria identità: il noi comunitario”10. E’ questo etnocentrismo, che fonda il vincolo sociale. Un vincolo che viene mantenuto ed alimentato attraverso una animosità permanente11 contro gli altri, per dare esistenza, vita e continuità ad un noi altrimenti precario, evanescente, a rischio di labilità e di disintegrazione interna, da esorcizzare costantemente e ri-generare proprio attraverso l’attività bellica. La cui funzione - occulta ma primaria - diverrebbe allora quella (altamente simbolica) di ricostituire il senso stesso dell’identità comune e del legame sociale attraverso una costante dinamica noi-loro, cui Francesco Remotti ha dato più recenti ed illuminanti contributi12.

Questa scelta etnocentrica in favore della potenza della propria identità collettiva, ha trovato storicamente livelli di relazione impliciti con una analoga caratteristica delle grandi religioni mondiali, caratterizzate anch’esse, secondo Van Deer Leew, dalla ricerca della potenza13 finalizzata peraltro ad accrescere la loro capacità redentrice.

La potenza delle grandi religioni mondiali, sarebbe funzionalmente legata alla forza salvifica del loro messaggio.

Questa forza salvifica da dispiegare nel mondo non attiene tuttavia alla vita (umana), la quale è data14, ma alla salvezza (spirituale), che è invece più problematica da guadagnare e da conservare.

La distinzione non è da poco: perché la priorità della salvezza (spirituale) sulla vita, giocherà un ruolo strategico proprio nella concezione della guerra, il cui effetto distruttivo umano, veniva in qualche modo subordinato all’affermazione di un disegno di salvezza (collettiva) che paradossalmente, trascendeva l’uomo e poteva immolare in numerevoli vite umane.

 

Guerra e cristianesimo

Se la cultura ebraica antica identificava l’attività della guerra con l’appartenenza religiosa, per cui i fedeli erano l’esercito e Jhavè il condottiero, anche la religione cristiana mostra - nelle sue passate esperienze storiche - una più mediata, sebbene non meno stretta associazione tra guerra ed affermazione del disegno divino. Un esempio ci è fornito dall’epica eroica della battaglia di Lepanto, combattuta dalla Lega Santa contro i Turchi.

“Il cristianesimo – scrive Davis Hanson - non aveva mai visto una così entusiastica celebrazione come quella che salutò la vittoria di Lepanto. In tutta l’Italia e la Spagna le folle intonarono il Te Deum Laudamus, di lode e ringraziamento a Dio. Vennero coniate speciali monete commemorative con l’iscrizione: “Nell’anno della grande vittoria navale per grazia di Dio contro i turchi”. Miguel Cervantes, reduce della battaglia in cui perse tra l’altro l’uso di una mano, immortalò Lepanto anni dopo nel suo Don Chisciotte, scrivendo che “quei cristiani che lì perirono furono persino più felici di quelli che ne uscirono vivi”15.

La maggior parte dei dipinti e delle canzoni popolari attribuirono l’eccezionale vittoria cristiana all’intervento divino16. Questa fu l’interpretazione del come La Lega Santa fosse riuscita in poche ore ad arrestare secoli di aggressione turca17. Davis Hanson attribuisce invece più praticamente “la tragica fine di migliaia di ottomani al largo dell’Etolia” al ben più secolare sistema cristiano del capitalismo di mercato “che produsse una profusione di galeazze, archibugi, cannoni, reti di abbordaggio e galee…18, mentre viceversa l’innovazione tecnologica e militare, spinta dal movente economico e dell’economia di mercato, mancò all’Islam, decretandone la sconfitta militare. L’analisi risulta interessante perché mostra come la differenza religiosa possa giocare un ruolo determinante nell’influenzare la stessa vittoria o sconfitta bellica (“Dio è con noi” diceva Cromwell, aggiungendo accortamente, con classico pragmatismo inglese: “ma tenete asciutte le polveri”).

Questo primo scenario di guerra tra grandi civiltà portatrici di distinti messaggi di salvezza, ci consente di aprire il discorso difficile della “Guerra santa”, un tema comune ad Islam e Cristianità.

Per l’Islam, altra grande religione di redenzione, la guerra santa (jihad) costituisce addirittura un capisaldo della sua dottrina di salvezza, peraltro largamente frainteso e conosciuto più per la sua vulgata popolare che per la sua originaria e più complessa matrice culturale.

In estrema sintesi possiamo tradurre il concetto di jihad come scopo e ragione dell’esistenza, ovvero come perfettibilità morale, da perseguire attivamente mediante una costante ed attiva guerra o lotta morale contro il principio del male; che è in noi non meno che fuori di noi. Quindi contro l’egocentrismo e contro le forze che operano nella storia.

Inscritta in un’etica di potenze contrapposte, che ambiscono all’anima umana, la concezione religiosa coranica postula un dualismo di fondo per certi versi assai simile a quello della christianitas delle Crociate. Operare e lottare contro le forze malvagie (Iblis è il corrispettivo demoniaco islamico), è quindi il senso originario della jihad come delle Crociate, come sforzo per migliorarsi, come una sorta di ascesi intramondana, per usare un termine weberiano.19 E tuttavia, la jihad è stata, ed è ancora oggi brutalmente intesa come “guerra perenne contro gli infedeli”, e come tale praticata; spesso al servizio di mire espansionistiche politiche, o come giustificazione di economie predatorie. Anche dall’influsso di questa concezione musulmana di jihad verrà a svilupparsi, a partire dalle secolari guerre di liberazione delle popolazioni iberiche contro la dominazione araba, l’ideale etico-religioso cristiano della Crociata.

Concetto antitetico al primitivo o originario pacifismo cristiano, il bellum sacrum20 troverà espressione nel pensiero ufficiale della Chiesa a partire dal IX secolo, con Papa Giovanni VIII che proclamò la santità della lotta contro i saraceni combattuta nell’Italia meridionale. Aveva inizio idealmente un ‘complesso storico-mitico’ come Alphonse Dupront chiama il fenomeno delle Crociate21 tipico dell’Occidente, che durerà per circa dodici secoli e che ha costituito, come acutamente rileva l’autore, “una realtà millenaria dalla quale l’Occidente non è ancora liberato…”22. La “guerra santa” dell’Occidente cristiano avrà il carattere di un impegno totale; un fenomeno plurisecolare23 che, secondo il nostro autore, esprimerebbe i bisogni di un mondo, di un’epoca.

Questa “guerra santa”, spiega l’Autore, non è tuttavia la sacralizzazione della guerra. Chi la vive, infatti, non la percepisce come un mero fatto bellico, bensì come un fenomeno “totale ed originario”, un evento coinvolgente e costitutivo dell’intera vita e di un’intera epoca. Qualcosa che attiene alla stessa concezione del mondo, e che quindi ha il carattere assoluto di una realtà24 inevitabile e necessaria.

In queste mobilitazioni religiose e guerresche trovava formulazione e significato culturale “forte” la dimensione collettiva ed identitaria, della christianitas, comunità sovranazionale portatrice di un messaggio salvifico da affermare in questo mondo, sebbene non per questo mondo, come scrive Max Weber25.

Solo in questa cornice si può “capire” persino l’aspetto più perturbante delle Crociate, il massacro. Qui si tratta, dice infatti Dupront, di realizzare “l’ordine del mondo”26. Che si compie attraverso una “disumanità religiosa”. Nella Gerusalemme ormai conquistata, i crociati massacrano i saraceni di entrambi i sessi, rifugiati sul tetto del Tempio, destando la collera dello stesso Tancredi che aveva posto gli sventurati sotto la protezione della sua bandiera. Anche qui si ripete la sofferta distinzione tra anime opposte e conviventi di un fenomeno. Quella caritatevole e pacifica (se cos’ì possiamo dire), rappresentata da Tancredi, e quella violenta e disumana, che prevarrà.

Sangue a fiotti, cadaveri che si ammucchiano, che si ammassano nelle strade di Gerusalemme in cataste alte come case, rendono assai efficacemente la coerenza radicale della guerra santa, epurata di ogni emotività, consegnata alla realizzazione del disegno, in eterno, perseguito con impassibile e disumana ferocia. La grandezza stessa della vittoria implica il massacro inenarrabile, necessario per placare l’ansia collettiva di una salvezza mai garantita, che attanagliava la cristianità dell’epoca27. Solo quando sopraggiunge l’umanissima nausea, l’orrore del sangue, del massacro, allora, scrive Dupront, si apre un’altra strada e quel complesso evento epocale che sembrava assoluto ed inevitabile, necessario e fatale, si scioglie in un orizzonte storico più ampio di lui28.

Se pensiamo all’orrore che solo oggi sorge dalle coscienze religiose di ogni confessione di fronte a questa evocazione, possiamo forse cominciare a capire quale rivoluzione antropologica si stia delineando nella coscienza religiosa contemporanea. Da un lato infatti si sta conducendo una “domesticazione” della guerra, una tendenza ad occultare, distanziare, “eufemizzare” le manifestazioni belliche. Dall’altro, si cercano nuove e diverse “giustificazioni etiche” da dare alla guerra, laddove questa non può più contare su link religiosi.

“Da parecchi secoli almeno – scrive Dupront al riguardo, con straordinaria attualità - la guerra giusta ha tentato di “civilizzare” la “guerra santa”, e per le guerre ordinarie ci è riuscita; ma per quelle “grandi” o per quelle che mettono in discussione un ordine di vita o il possesso dell’universo, la sacralità della guerra santa resta, sia pure a brandelli, l’esaltazione suprema, quella che non ha più bisogno di giustizia.”29. L’ultimo e più attuale esempio di “guerra giusta” in questo senso sarebbe – per assumere il punto di vista dell’autore - quella combattuta dagli USA ed i suoi alleati contro l’Iraq di Saddam Hussein, mentre quella “totale” contro il terrorismo, “dovunque sia”, pure teorizzata dalla dottrina americana della “guerra preventiva”, sarebbe senz’altro una “guerra santa”, né più né meno di quella fomentata ed agitata da esponenti fanatici dell’integralismo islamico (da Al Qaeda a frange diverse dell’islamismo estremistico).

 

Il rifiuto religioso della guerra

Contro queste due concezioni ideologiche della guerra, come contro ogni guerra, si è venuto sviluppando un pensiero di radicale rifiuto religioso che nel cristianesimo, ad esempio, trova un’immagine forte nella metafora (giornalistica) di Giovanni Paolo II come “Guerriero della Pace”.

In questo provocatorio termine si cela una trasformazione culturale molto importante. L’idea di una radicale presa di distanza della Chiesa cattolica dalla guerra, espressa in una sorta di “guerra alla guerra”.

Si afferma infatti su altre e più consolidate interpretazioni, una percezione religiosa della guerra come negazione della vita. E’ una esperienza emotiva e cognitiva nuova, sentita e diffusa, capace di mobilitare attivamente le coscienze di tutti gli attori sociali, persino dei non credenti, contro i disegni di dominio o di affermazione sociale sottesi ad ogni conflitto organizzato.

Questa elaborazione, nell’ambito della religione cattolica ad esempio, è percepibile come un lungo cammino nella via della pace, che progressivamente si è emancipato da pressanti condizionamenti sociali e culturali, peraltro documentato nel magistero sociale della Chiesa (1891-1991)30. A partire da numerose encicliche, infatti, l’opera dei pontefici cattolici, da Leone XIII in poi,31 si è ripetutamente impegnata a formulare direttive di azione in campo sociale a “segno e salvaguardia del carattere trascendente della persona umana”32, per ricordare “il bene ultimo, la giustizia umana, la pace vera” (Gaudium et Spes, n. 76).

Nella Populorum Progressio, enciclica di Paolo VI, riemerge ad esempio una metafora forte della sacralità della vita, presente nelle stesse aspirazioni ed esigenze dell’uomo, di ciascun uomo “immagine di Dio” e perciò portatore di inalienabili diritti e doveri. Sono segni di una riflessione sempre presente nel magistero della Chiesa cattolica ma che sembra crescere di ora in ora con straordinaria intensità.

Se ne può cogliere lo spirito profetico già dai discorsi per la Giornata mondiale della Pace33 scorrendo i titoli di questi discorsi.

Papa Paolo VI, fin dal 1968 parlava di “promuovere la pace” (Per la promozione della pace), ed individuava la via di questa promozione nel rispetto dei diritti dell’uomo34. Ne mostrava il carattere culturale, di attiva creazione umana35; ne ribadiva il legame con il primitivo messaggio cristiano, troppo spesso dimenticato36. Ne svelava il nemico segreto, l’ingiustizia sociale37, ne ribadiva la possibilità, in un momento storico che faceva disperare di ritrovare una coesione anche solo interna38. Ne indicava la responsabilità personale, alla quale tutti siamo chiamati39. Ed infine, forse più esplicitamente, ampliava e riconduceva il problema della pace a quello della vita40. Giovanni Paolo II riprenderà questi temi con una elaborazione ancora più serrata e radicale.

La pace diviene fonte di metafore che richiamano a sempre più forti assunzioni di responsabilità, verso Dio41; ma anche verso sé stessi, come un impegno al cambiamento anche personale42 Soprattutto, ricercandone i legami con la difesa della vita nelle sue manifestazioni più “deboli”43, sino a rivendicare infine la natura profondamente ed autenticamente religiosa della pace 44.

La lettura di questi temi mostra anche i “fuochi” culturali della lotta alla guerra. Di epoca in epoca, di momento in momento, cambia infatti la metafora della pace, il cui raggiungimento richiede strategie, forme e vie in sintonia col mutato contesto culturale.

Non a caso infatti il prossimo messaggio che il Pontefice proporrà per la Giornata Mondiale della Pace del 1 gennaio 2004, sarà dedicato a “Il diritto internazionale, una via per la pace”. Il tema richiama le responsabilità di tutte le società politiche (sia per le loro azioni che per le loro omissioni) circa gli esiti ancora più drammatici che il conflitto in corso potrebbe sortire.

Credo che sia possibile individuare in questo pur sintetica, limitatissima rassegna un percorso riflessivo che la Chiesa cattolica ha elaborato passando per la umana fatica di promuovere e creare, costruire e responsabilizzare gli uomini, verso la pace, fino ad indicare vie di più schietto impegno sociale quale il rispetto di minoranze sociali, delle coscienze individuali, per giungere a più universali impegni alla difesa della vita di per sé, come valore religioso, che con Giovanni Paolo II diventa la nuova via religiosa per la pace.

Sembra oggi più chiaro, rispetto a molti altri tormentati periodi storici, che la salvezza, non si possa imporre con la violenza, con le campagne militari. In una delle ultime udienze generali del mercoledì (26 novembre 2003), Papa Wojtyla ha ancora una volta replicato il suo pensiero sulla guerra proprio in un momento in cui la cultura che domina la scena internazione sembra proporre sempre più la logica delle armi per combattere ciò che (con termine religioso) gli Stati Uniti chiamano “Il Male” del terzo millennio.

Come riporta un cronista, nel negare l’utilità del militarismo , della violenza, del male da contrapporre al male, Papa Wojtyla nella lettura della Bibbia prende distanza dal “Dio degli eserciti” biblico, commentando il salmo 109 intitolato “Il Messia, re e sacerdote”, dove si parla di forze ostili neutralizzate dalla “conquista vittoriosa” di Dio.

Al di là della immediata lettura storica, forse corrispondente a situazioni politiche che si registravano nel passaggio dei poteri da un re ad un altro, Giovanni Paolo II sembra far rilevare che il testo è anche una potente metafora che rimanda ad un più generale contrasto tra il progetto di Dio (il Re) e quello degli uomini che vogliono affermare “il loro potere prevaricatore”. In questo scontro tra bene e male che si svolge all’interno delle vicende storiche umane, Dio si manifesta sempre, sottolinea il Pontefice. Ma mai con le stesse armi del male. Non a caso, rileva acutamente il cronista di questo articolo45 Giovanni Paolo II, citando un antico commentatore del salmo 109 (San Massimo da Torino, iv-v secolo), recupera l’immagine del Cristo seduto alla destra del padre, dove staranno le pecore, mentre a sinistra siederanno i capri. La metafora ci dice che l’agnello, il non violento, colui che giunge sino a lasciarsi immolare per la salvezza degli uomini, è colui che segue il disegno di Dio, rifiutando persino il disegno sociale umano. Ci indica una strada non equivoca, esplicita, diretta.

Nel recupero di questo messaggio “elementare”, eppure tante volte censurato, trasfigurato, rinnegato, per certi aspetti oggi eroico, in un’epoca così potentemente dominata da sentimenti collettivi di vendetta, Wojtyla ha levato una voce profetica, gridando la verità religiosa della pace come affermazione di un principio originario del cristianesimo e delle grandi religioni universali di salvezza, che i grandi processi storico-culturali dell’Occidente avevano subordinato al primato dell’affermazione dipdf una società (cristiana, islamica, ecc.) e della sua missione di salvezza universale.

In questa scelta esemplare, potrebbe riassumersi il passaggio da una religione della salvezza ad una religione della vita. In questo passaggio delle grandi religioni universali di redenzione da “vie di salvezza” a religioni dell’assoluta ed universale sacralità della vita, sta infatti una delle più rilevanti trasformazioni antropologiche della religione oggi.

 

Bibliografia

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Francesco Remotti, Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, 1996.

R. Russo, Atlante della storia dell’Islam, storie e dottrine, Demetra/Giunti, Firenze, 2001.

Gerardus Van der Leeuw , Fenomenologia della religione, 1956, 1992.

Giorgio Campanili, Alessandro Colombo, Vittorio Ugga (a cura di), Quaderno n. 1, novembre 1993 - Università Cattolica del Sacro Cuore - Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa, 1995, Milano.

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Dizionario Enciclopedico Italiano Treccani, Roma, 1970, vol. III, Crociata.


Note
1 M. Weber, Sociologia della religione. L’antico giudaismo, Newton Compton, Roma, 1980, p. 107.
2 M. Weber , cit., p. 107.
3 M. Weber , cit.idem.
4 M. Weber , op. cit., p. 110.
5 M. Weber , cit., p. 111.
6 M. Weber , cit., p. 110.
7 G. Van der Leeuw, Fenomenologia della religione, (1956), Boringhieri, Torino, 1992, p. 25.
8 P. Clastres, Guerra e società primitive, ed altri scritti di antropologia politica, La Salamandra Edit., Milano, 1982.
9 E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Newton Compton, Roma, 1972.
10 P. Clastres, op. cit., p. 167.
11 P. Clastres, op. cit., p. 168.
12 F. Remotti, Contro l’identità, Roma-Bari, Laterza, 1996.
13 G. Van der Leeuw , op. cit., p. 536.
14 G. Van der Leeuw , op. cit., p. 538.
15 V. D. Hanson, Massacri e Cultura. Le battaglie che hanno portato la civiltà occidentale a dominare il mondo, Garzanti, 2002, p. 299.
16 V. D. Hanson, op. cit., p. 300.
17 V. D. Hanson, idem.
18 V. D. Hanson, op. cit., pp. 320-325.
19 R. Russo, Atlante della storia dell’Islam, storie e dottrine, Demetra/Giunti, Firenze, 2001, pp. 61-63.
20 Dizionario Enciclopedico Italiano Treccani, Roma, 1970, vol. III, Crociata, p. 660.
21 A. Dupront , Il sacro. Crociate e pellegrinaggi. Linguaggi ed immagini. Bollati Boringhieri, Torino, 1993, p. 277.
22 A. Dupront, cit., p. 277.
23 A. Dupront, op. cit., p. 278.
24 A. Dupront, op. cit., p. 279.
25 M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni Ed., Firenze, 1977.
26 A. Dupront, op. cit., p. 293.
27 A. Dupront, op. cit., p. 294.
28 A. Dupront, op. cit., p. 280.
29 Alphonse Dupront, op. cit., p. 277.
30 G. Campanili, A. Colombo, V. Ugga (a cura di), Quaderno n. 1, novembre 1993 - università cattolica del sacro cuore - centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della chiesa, 1995, Milano.
31 G. Campanili, A. Colombo, V. Ugga (a cura di), op. cit., p. IV.
32 G. Campanili, A. Colombo, V. Ugga (a cura di), op. cit., pp. IV, V.
33 in: “I Papi per la pace” 25 messaggi di Paolo VI, e Giovanni Paolo II per la celebrazione della giornata mondiale della pace. I gennaio 1968-1 gennaio 1992,Libreria Editrice Vaticana, Roma, 1992, p. 272.
34 Paolo VI, 1969, La promozione dei diritti dell’uomo, via verso la pace.
35 Paolo VI, 1970, La pace non si gode ma si crea.
36 Paolo VI, 1971, Ogni uomo è mio fratello.
37 Paolo VI, 1972, Se vuoi la pace, lavora per la giustizia.
38 Paolo VI, 1973, La pace è possibile.
39 Paolo VI, 1974, La pace dipende anche da te.
40 Paolo VI, Se vuoi la pace difendi la vita, 1977.
41 Giovanni Paolo II, 1982, La pace, dono di Dio affidato agli uomini.
42 Giovanni Paolo II, 1984, La pace nasce da un cuore nuovo.
43 Giovanni Paolo II, 1989, Per costruire la pace, rispettare le minoranze; 1991, Se vuoi la pace rispetta la coscienza di ogni uomo.
44 Giovanni Paolo II, 1992, La religione via alla pace.
45 Mimmo De Cillis, Il Manifesto, 27/11/2003, p. 12 Cultura, “Dal papa un’udienza contro la guerra. Wojtyla: il bene non s’impone con la violenza e con le campagne militari”. 

 

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