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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

 

Membro del partito whig, strenuo difensore della libertà politica, abile e a volte esasperante oratore, la concezione di pdfBurke è strettamente legata alla sua attività politica e parlamentare. Gli esordi dell’attività parlamentare di Burke coincidono con l’acuirsi del contrasto delle colonie nordamericane con la madrepatria inglese. Burke intervenne più volte sostenendo le ragioni dei coloni e guadagnandosi la stima dei suoi colleghi. Nel suo Discorso per la conciliazione con le colonie abbiamo un esemplare saggio del suo pensiero politico moderato e ricettivo delle embrionali istanze democratiche dei contesti politici del diciottesimo secolo.

La fine della guerra dei Sette anni (1756-1763), nella quale entrarono in conflitto gli espansionismi commerciali e territoriali di Francia e Inghilterra, proclamò la supremazia britannica nel continente nordamericano, il quale è inglese per una estensione che va dal Canada alla Florida. Globalmente, quello britannico era un impero immenso che annoverava, fra i suoi possedimenti coloniali, quelli del Bengala e del Bihar, dell’Australia, di Guadalupe e Martinica, Cuba. L’amministrazione di questo impero richiedeva uno sforzo finanziario considerevole che la Gran Bretagna, debilitata dalla guerra, non riusciva a sostenere. Di qui il tentativo del governo britannico di esercitare una maggiore pressione fiscale sulle colonie. Tentativi che si espressero con il Sugar Act (1764), il quale colpiva con un forte dazio le importazioni di zucchero (necessario per le distillerie nordamericane) dai Caraibi francesi, e con lo Stamp Act (1765), tassa di bollo sugli atti ufficiali e sulle pubblicazioni, che sarà poi revocato l’anno successivo di fronte alla protesta dei coloni e alle critiche mosse dal partito whig nel Parlamento britannico (è in questa occasione che il nome di Burke inizia a farsi conoscere). Tuttavia, negli anni successivi furono presi provvedimenti per una progressiva tassazione sulle merci importate dai coloni e lo scontro crebbe rapidamente. Fra i coloni, alcuni intellettuali come Benjamin Franklin, John Dickinson, Thomas Jefferson, James Otis, Samuel Adams, pubblicarono una serie di opuscoli polemici in cui si faceva appello alla stessa tradizione parlamentare inglese per denunciare l’ingiustizia che il governo britannico stava perpetrando nei confronti delle colonie. In particolare, il riferimento costante era al principio secondo il quale nessuna tassa può essere imposta senza l’approvazione di un’assemblea nella quale i diritti dei contribuenti trovano un’adeguata rappresentanza. No taxation without representation: quindi il Parlamento britannico, nel quale non compaiono i rappresentanti delle colonie, non può legiferare sulle tasse alle colonie d’oltremare.

L’acuirsi del contrasto indusse Burke, il 22 marzo del 1775, a presentare al Parlamento la sua mozione di conciliazione con le colonie. Le argomentazioni esposte da Burke per giustificare la conciliazione sono di carattere politico, cioè riguardano l’opportunità degli interessi dell’azione inglese nei confronti delle colonie, mentre non si sofferma affatto sulla questione giuridica relativa al diritto di tassazione del Parlamento britannico sulle colonie. Burke si concentra sull’inopportunità di ricorrere alla forza per piegare le rivendicazioni dei coloni, in quanto la forza può risolvere i problemi nel periodo in cui viene applicata, genera incertezza e depaupera i soggetti confliggenti. In pratica, la guerra non è mai una soluzione politica, giacché minaccia costantemente di produrre problemi maggiori di quelli che intende risolvere. Senza citare il fatto, afferma Burke, che la guerra può generare altra guerra, perlomeno può favorire l’intervento di quei paesi, come Francia e Spagna, che potrebbero avere degli interessi nelle zone belliche. La guerra è inutile e dannosa, la via da perseguire è quella della pace.

Nella elaborazione di Burke vi è un altro aspetto fondante la sua avversione per la guerra. Coloro che hanno in animo la libertà dei popoli e delle persone, non possono né approvare la guerra e tantomeno essere piegati con una guerra a una condizione diversa. É impossibile cambiare l’atteggiamento e gli umori dei coloni, perché il loro carattere si forgia sull’amore della libertà1. Questo amore è presente nei coloni più che in ogni altro popolo del mondo, e questo perché il popolo dei coloni discende da quello inglese. L’Inghilterra ha da sempre coltivato una grande passione per le cause della libertà, e lo ha fatto in modo tipicamente inglese, quindi non anelando a un principio astratto di libertà, ma sempre rivolgendo la propria passione verso questioni sensibili e “nel nostro paese accadde […] che fin dall’inizio le più grandi battaglie per la libertà si combattessero intorno a questioni di tassazione”2. Fra l’altro, aggiunge Burke, le forme di governo e le assemblee amministrative costruite dai coloni sono molto democratiche, in alcuni casi la rappresentanza popolare genera democrazia diretta. Per cui è nell’indole stessa del colono nordamericano provare avversione per qualsiasi autorità che lo spinga a subire decisioni nelle quali non ha potuto esprimersi con alcun tipo di rappresentanza politica.

L’attenzione riposta da Burke per le condizioni concrete della libertà di un popolo, contro le astrattezze della concezione politica razionale e individualistica, gli suggerisce i pericoli connessi con l’indebolimento dei diritti civili e politici dei coloni. Nelle parole di Burke: “allo scopo di provare che gli Americani non hanno diritto alcuno alle loro libertà, ci sforziamo ogni giorno di sovvertire le massime che preservano l’intero spirito della nostra stessa libertà. Per provare che gli Americani non dovrebbero essere liberi, siamo costretti a diminuire il valore della libertà stessa; e nel dibattito non guadagniamo mai un meschino punto su di loro, senza attaccare qualcuno di quei principi o deridere qualcuno di quei sentimenti per cui i nostri antenati versarono il loro sangue”3. In pratica, Burke afferma che ledere i diritti dei coloni significa mettere in pericolo gli stessi diritti dei cittadini della madrepatria inglese.

Per tali ragioni l’unica via da perseguire è quella della conciliazione, al di là di quello che la giurisprudenza potrà decidere sulla legittimità del diritto di tassazione del Parlamento britannico. E’ un fatto che una politica di contrasto con le colonie è foriera di numerose implicazioni controproducenti, per cui dall’affermazione di un criterio di expediency, di opportunità, Burke non sostiene gli ideali della rivoluzione americana ma giunge a difendere le pretese delle colonie in nome della loro appartenenza al corpus tradizionale inglese.

 

Ordine civile, pace e diritto

Reflections on the Revolution in France è l’opera più conosciuta di Burke. E’ una circostanza occasionale che guida il pensatore inglese a pronunciarsi su quanto è avvenuto in Francia: un sermone commemorativo della Gloriosa Rivoluzione inglese tenuto da un membro della Revolution Society, centrato sulla consonanza fra i significati della Rivoluzione francese e quelli inglesi del 1688. Nel distruggere ogni ipotesi di similitudine fra le due circostanze storiche, Burke non ricorre solo all’analisi storiografica, attraverso la quale riesce a dimostrare l’infondatezza delle tesi avanzate dal pastore non-conformista Richard Price. La Rivoluzione francese offre a Burke l’opportunità di confrontarsi con le questioni relative alle fondamenta dell’assetto e del cambiamento politico.

L’ordine sociale nasce per contratto, secondo Burke. Ma non si tratta di un contratto qualsiasi, come potrebbe essere quello che regola lo scambio di beni economici. Il sociale è pensato da Burke quale spazio della condivisione “di ogni scienza, di ogni arte, di ogni virtù e di ogni perfezione”, ed avendo obiettivi perseguibili nel corso del succedersi delle generazioni, esso diviene un’unione non solo fra i viventi, ma fra loro, i predecessori e i membri delle generazioni future. Anche l’ordine politico nasce per contratto e su questo livello Burke conduce una incisiva critica alle tesi della Rivoluzione francese. Infatti, coloro che guardano con entusiasmo alle innovazioni istituzionali francesi giudicano allo stesso tempo difettoso il meccanismo istituzionale britannico; in particolare, il dottor Price critica il sistema inglese della rappresentanza del corpo legislativo, fondato su meccanismi di censo, che produce iniquità e usurpazione.

Potere, autorità e amministrazione non sono parte degli originari diritti dell’uomo in una società civile: sono, piuttosto, stabiliti per convenzione. Quindi, anche aderendo alle istanze illuministiche che vogliono una posizione di intransigenza rispetto l’assoluta superiorità dei diritti umani, Burke osserva come il problema della rappresentanza e del potere politico – “tutti i tipi di potere legislativo, giudiziario o esecutivo”4 - non rientrano nella sfera dei diritti originari, ma sono il frutto di scelte e come tali possono essere giudicati dall’esperienza. Ma l’analisi di Burke si spinge ancora oltre: il contenuto del contratto si impernia sulla norma per cui “nessun uomo dovrebbe essere giudice della propria causa”, cioè “ogni singolo si priva del primo diritto fondamentale dell’uomo non vincolato da patti sociali, ossia del diritto di giudicare per sé e di farsi difensore del proprio caso”5. In pratica, ogni uomo rinuncia alla libertà di affermare autonomamente quali debbano essere i propri diritti sociali e politici per rimettere tale sentenza al corpo sociale e politico. Ecco perché, in Burke, la rappresentanza politica non può dispiegarsi secondo criteri di “diritti umani”, ecco perché “il governo non viene creato in virtù dei diritti naturali, che possono esistere, e in effetti esistono, indipendentemente da esso”6.

Dalla concezione contrattualista di Burke non deriva che la forma politica di governo può essere messa in discussione consensualmente ogni volta che lo si desideri. Burke considera la dinamica politica come un processo rispondente alle stesse regole dell’evoluzione naturale. Il mutamento politico è necessario, giacché “uno Stato privo dei mezzi utili a operare qualche mutamento manca dei mezzi atti alla propria conservazione”7, e si articola lungo le due direttrici dell’ordine e della regolarità. Per esempio, nel caso del sistema politico britannico, esaltato da Burke, si può sviluppare l’analogia con “un corpo permanente composto di parti transitorie” dove “secondo le disposizioni di una sapienza meravigliosa che ha plasmato il grande mistero dell’organizzazione sociale del genere umano, quell’insieme non è mai in un determinato momento vecchio, maturo o giovane, ma, immutabilmente costante, avanza attraverso le diverse direttrici del declino, della caduta, del rinnovamento e del progresso continui”8. In tal modo, “preservando il metodo della natura nella conduzione dello Stato, quanto miglioriamo non è mai completamente nuovo e quanto conserviamo non è mai completamente obsoleto”9.

Per tali ragioni, Burke rifiuta l’idea che si possa costruire un sistema politico dal nulla, cioè dalla distruzione delle forme precedenti. In particolare, risulta dannosa la pretesa di dedurre, da alcuni principi generali e astratti, la sistemazione dello Stato e gli equilibri fra le sue parti. Proprio questo è l’errore più grande che si può imputare ai fautori della Rivoluzione francese: quello di aver proceduto avventurosamente, sotto la guida di una razionalità astratta e, di conseguenza, pericolosa. Le virtù politiche segnalate da Burke sono la prudenza e la saggezza, e chiunque le possieda può accedere al governo di un popolo. Qualsiasi altro criterio, come la rotazione o il sorteggio, sono contro la natura stessa del potere politico e vanno rifiutati10. La pretesa dei fautori della Rivoluzione francese di livellare e architettare geometricamente le forme dello Stato e del governo sconcerta Burke che le rifiuta categoricamente.

Nel valutare il processo di democratizzazione avviato dall’esperienza rivoluzionaria francese, il peso di queste argomentazioni sull’assetto istituzionale è decisivo. Si ricorderà che Hume valuta positivamente l’equilibrio fra il carattere monarchico e quello democratico dell’assetto costituzionale inglese; in ugual misura Burke esalta la “via media” inglese, a un tempo monarchica e rappresentativa, in grado di opporsi all’assolutismo (“il dispotismo del monarchia”) e alla democrazia pura (“il dispotismo della folla”) per creare una forma intermedia, “ossia di una monarchia regolata da leggi, che venga controllata ed equilibrata dalle grandi forze della ricchezza e della dignità ereditarie, in questo modo entrambe coscienziosamente controllate dalla ragionevolezza e dai modi di sentire del popolo rappresentato in un organo adeguato e permanente”11. Al tempo stesso, Burke dichiara di non saper valutare il governo di Francia. “Pretende di essere una democrazia pura, ma penso che si stia già trasformando in un’oligarchia nociva e ignobile”12. Burke non si cimenta nella critica della democrazia: in sintonia con la sua concezione, non produce alcuna considerazione su di una idea astratta. Nondimeno, nell’esaminare le forme storicamente realizzatesi di democrazie, Burke afferma che “una democrazia assoluta non sia da annoverarsi, al pari di una monarchia assoluta, tra le forme di governo legittime”, cioè tra le forme politiche più desiderabili. Questo perché la democrazia favorisce lo scontro fra i gruppi sociali, e in nome di essa maggioranza e minoranza possono esercitare le oppressioni più crudeli sull’alta fazione. Comunque sia, dice Burke dichiarandosi eccezionalmente d’accordo con il pensatore tory Bolingbroke, le forme pdfpolitiche vanno giudicate per la loro duttilità, cioè per la capacità di prestarsi al cambiamento, e ravvisa che “è più possibile innestare una qualche forma repubblicana su una monarchia che non un qualsiasi elemento monarchico sulle strutture repubblicane”, per cui la sua preferenza va al sistema monarchico di tipo inglese.

 


Note
1 E. Burke, Speech on Conciliation with America, Londra, 1775; tr. it., Discorso di Edmund Burke nel presentare la sua mozione di conciliazione con le Colonie, in Scritti politici, Utet, Torino, 1963, p. 87.
2 Ibidem, tr. it., p. 88.
3 Ibidem, tr. it., pp. 96-97.
4 Ibid.
5 Ibidem, tr. it., p. 83.
6 Ibid.
7 E. Burke, Reflections on the Revolution in France, Londra, 1790; tr. it., Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, Ideazione, Roma, 1998, p. 45.
8 Ibidem, tr. it., p. 57.
9 Ibid.
10 Ibidem, pp. 72 e segg.
11 Ibidem, p. 145.
12 Ibidem, p. 146. 

 

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