Seleziona la tua lingua

Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

 

pdfLe grandi religioni incarnano le verità non disponibili per l’economia o politica, e rimangono salienti anche quando tutto il resto si cambierà. Ci ricordano che la civilizzazione sopravvive non a causa della forza ma della sua capacità di rispondere ai deboli, non a causa della ricchezza ma della cura dei poveri, non a causa del potere ma della preoccupazione per gli impotenti.” (J. Sacks, The Dignità of Difference, p.195)


L’autore è il Rabbino delle Congregazioni Giudaiche Unite del Commonwealth, uno dei più grandi intellettuali religiosi del nostro tempo. Sin dalle prime righe, l’opera affascina per lo stile di scrivere e per il vasto orizzonte umano che comprende. Le riflessioni prodotte sulla filosofia antica e moderna, sulle teorie dell’educazione e di etica, sulla futurologia, sociobiologia e la teoria dei giochi costruiscono una visione interessantissima per l’avvenire del terzo millennio.

Il libro, “supplica per la tolleranza nel tempo dell’estremismo”, –come lo definisce lo stesso autore–, cerca di rispondere ad una domanda cruciale: possono le religioni diventare una forza della pace piuttosto che dei conflitti? Ormai oggi nessuno nega il ruolo della religione sulla scena della politica internazionale. Però gli avvenimenti del settembre 2001 (e, possiamo aggiungere, del marzo 2004) convertono l’affermazione di Jonathan Swift in una domanda dolorosa: ma veramente abbiamo abbastanza religione per odiarci ma non abbastanza per amarci?!

J. Sacks afferma che dalla politica dell’ideologia siamo entrati nell’era della politica dell’identità. L’identità che sempre crea un “noi” e un “loro”. La pace richiede una profonda crisi di tale identità: siamo capaci –ci provoca l’autore­– di riconoscere l’immagine di Dio in colui che non sembra fatto a nostra immagine, in un straniero­? La globalizzazione ha trasformato il nostro mondo in un piccolo paese in cui tutti sono stranieri. Le nostre differenze devono trasformarsi per noi da una minaccia di conflitto ad un invito di sentirci arricchiti dalle diversità degli altri. Il filo rosso del libro è una forte richiesta di fare spazio per l’altro. Infatti, procede l’autore, la base teologica del rispetto delle differenze è radicata non nel relativismo ma nel monoteismo biblico. È proprio questa religione che per la prima volta ha insegnato all’essere umano ad uscire al di là della sua polis, del suo stato, tribù o nazione per rivolgersi all’umanità intera.

Il dialogo oggi si costruisce attorno a degli elementi in comune mettendo da parte le differenze come se fossero cose insignificanti e minime. Però nel nostro tempo, che secondo le parole di Freud, è caratterizzato dal “narcisismo delle piccole differenze” c’e una necessità vitale di sviluppare non solo la teologia del comune ma piuttosto la teologia delle differenze.

Una delle cause dell’inclinazione dei sistemi moderni ad imporre l’unità artificiale sulla diversità divinamente creata - che come conseguenza ha prodotto effetti drammatici come le crociate, le inquisizioni, la jihad ed l’olocausto- è radicata nel pericoloso paradigma dominante in tutte le culture universaliste (Grecia e Roma antiche, Cristianesimo del medioevo, Islam, Illuminismo e capitalismo globale) che lui chiama lo “spirito di Platone”.

Per Platone, sostiene Sacks, la vera essenza delle cose si colloca nel mondo delle idee e non nella concreta incarnazione del mondo dei sensi. Questo ultimo è soltanto il posto dei conflitti, degli errori e delle guerre. Il mondo perfetto è il mondo dove le differenze si risolvono nell’uniformità, dove la diversità degli alberi si riunisce nell’idea di Albero e la varietà degli uomini – nell’idea di Uomo. Questo mondo dell’universalismo è un mondo di pace e armonia. Per Sacks tale universalismo non è per niente migliore del tribalismo, la regressione ad un’antica e stizzosa lealtà. Se per il tribalismo esiste un dio per ogni nazione, per l’universalismo esiste un dio per tutta l’umanità e perciò solo una fede, un solo credo, una sola strada. Il tribalismo rifiuta i diritti agli outsiders. L’universalismo li concede solo se l’outsider si converte e viene assimilato.

L’etica biblica ci offre una visione ben diversa: la diversità – biologica, personale, religiosa, culturale - è l’essenza del mondo. Infatti, Bibbia si apre con i racconti su Adamo, Eva, Caino, Abele, Noé – archetipi dell’umanità – e solo in seguito prosegue raccontando di un uomo in particolare: Abramo, insegnandoci che l’universalismo è il primo passo sulla strada della creatività morale (Cfr. p. 51). Dio, creatore dell’universo, fa la sua alleanza con tutta l’umanità (l’Arca di Noe); volge poi la sua attenzione ad un popolo particolare facendo lo spazio alle differenze. Secondo l’interpretazione del Rabbino, Dio, facendo la sua alleanza con il popolo giudeo, non esclude la possibilità che gli altri popoli, culture e religioni possano avere proprie relazioni con Lui nel contesto delle leggi di Noe (Cfr. p. 55). L’unità di Dio si trova nella diversità della Sua creazione. Perciò la dignità umana è radicata nel fatto che ognuno di noi è unico e irrepetibile.

Per l’autore, la filosofia platonica è valida esclusivamente nell’ambito scientifico ma perde di senso nell’ambito della spiritualità ed dell’etica. L’etica filosofica che si basa su ciò che abbiamo in comune: razionalità (Kant), emozioni (Hume), massimizzazione delle conseguenze positive (Bentham), si differenzia molto dall’etica biblica che è molto più complessa perché sottolinea un certo dualismo: siamo particolari ed universali, gli stessi eppure differenti.

Dopo aver visto la base filosofico–teologica della riflessione di Sacks, passiamo all’nalisi della globalizzazione, delle sue sfide, le possibilità, le sofferenze, le resistenze e il rancore che essa porta. Il libro ci offre sei principi morali che dovrebbero guidare il processo di globalizzazione: controllo, contributo, compassione, creatività, coo-perazione, conservazione (le così dette “sei c”). Ogni principio viene rilevato rispetto alle dimensione fondamentali della globalizzazione: la perdita della responsabilità morale, l’economia del mercato, il concetto di tzedakah, la rivoluzione nella tecnologia informatica, la società civile, l’ambiente naturale. Cerchiamo di caratterizzare brevemente questi principi.

La globalizzazione è un processo molto destabilizzante: i cambiamenti dell’ambiente oggi superano molte volte le nostre capacità interiori di adattarci. Usando il linguaggio di William Ogburn: la cultura materiale si trasforma molto più velocemente della cultura non-materiale, cioè le nostre risposte mentali e culturali. Usando un’espressione cara a Z. Bauman, da pellegrini del mondo diventiamo dei turisti, e la società man mano assomiglia a un albergo piuttosto che a una casa. Scompare il concetto di appartenenza, “le zone della stabilità personale” vengono ancora diminuite con il collasso delle istituzioni della vita sociale (Cfr. p. 70). Assistiamo ad un collasso del linguaggio morale: “devo” si sostituisce con “voglio”, e ad un trasferimento della responsabilità – per educazione, salute, welfare - dalle famiglie e le comunità allo stato o mercato. Come risultato, “siamo davanti a un massimo di insicurezza con il minimo delle risorse per affrontarla” (p. 71). Sembra che la globalizzazione e l’insicurezza che essa porta siano fuori del nostro controllo.

In questa situazione la religione è quasi l’unica fonte di sicurezza. Il suo potere è nella capacità di localizzare la fonte delle azioni dentro di noi. Essa restituisce a noi la dignità di protagonisti e il senso di responsabilità. La fede trasforma la nostra vita da una catena di inevitabile determinismo del mercato, della moda o del genoma, ad una catena di azioni proprie guidate dalla nostra tradizione e dai nostri valori. Il potere delle grandi religioni consiste non solo nella capacità di offrire una visione del bene. Questo ci danno anche diversi sistemi filosofici. Le tradizioni religiose ci offrono qualcosa in più: la visione del bene incarnata nella vita delle comunità reali con le loro storie, i loro riti e le loro preghiere.

Il secondo punto d’analisi di J. Sacks è la dimensione morale del mercato nell’era globale. L’autore è convinto che il mercato è efficiente nel creare la ricchezza ma non nel distribuirla. L’idea di scambio che è il cuore dell’economia di mercato incarna il principio della dignità delle differenze: attraverso lo scambio le differenze diventano benedizione. Però il mercato diventa inaccettabile quando serve non a sostegno della comunità ma al suo indebolimento attraverso la rottura dei legami di solidarietà e il crescente divario tra i ricchi e poveri. Proprio per la sua incapacità di far nascere naturalmente la distribuzione equa, il mercato ha bisogno di un orientamento, di un indirizzo. Tale indirizzo Sacks lo trova nel concetto ebraico di tzedakah che unisce in una parola due principi: la giustizia e la carità. Tzedakah non permette che esistano delle persone senza i beni necessari e obbliga coloro che sono avvantaggiati di condividere il surplus. Non è un atto opzionale che lo riduce alla carità. È un obbligo di legge. L’atto più grande del tzedakah però è ciò che permette all’altro individuo di diventare indipendente che ci fa venire in mente l’idea di Sen sullo “sviluppo come libertà”. L’equità finale nella concezione giudaica non è semplicemente equa distribuzione delle risorse o delle opportunità. È l’equa dignità, kavod habriyot, di ogni membro della società.

Questi punti sono determinanti per produrre delle valutazioni sull’era contemporanea. D’altronde, quando parliamo di globalizzazione facciamo soprattutto riferimento alla rivoluzione tecnologica, soprattutto nel settore dell’informazione e della comunicazione. Le nuove tecnologie anzitutto sono chiamate realizzare la democratizzazione della dignità umana rendendo accessibile a tutti l’educazione, per sviluppare non solo la capacità di scrivere e leggere ma acquistare anche una certa padronanza per saper applicare le informazioni acquisite. Questo spiega la posizione dell’autore che afferma che il miglior modo di esercitare tzedakah al livello internazionale è investite nell’educazione nei paesi in via di sviluppo.

Una delle più interessanti parti del libro è dedicata alle c.d. “relazioni di alleanza”. Nella metà del secolo XX, ci racconta J. Sacks, il mondo ha visto la nascita della teoria dei giochi e una delle sue più famose applicazioni “il Dilemma del Prigioniero” che sfidava la supposizione di Smith sulla “mano invisibile” del mercato che trasforma i comportamenti egoistici degli attori in benefici mutui. Il dilemma è stato spiegato qualche anno dopo: si è verificato il ruolo fondamentale della fiducia reciproca come punto di partenza per acquisire una abitudine alla cooperazione chiamata, appunto, oggi “capitale sociale”. Per farlo crescere oggi occorre la “rianimazione” delle relazioni dell’alleanza che si contrappongono alle moderne relazioni del contratto (covenant vs. contractual relationships). Le relazioni dell’alleanza (tra Dio e umanità, tra donna e uomo nel matrimonio, tra i membri di una comunità o tra i cittadini di una società) sono un legame non d’interesse o di vantaggio ma di appartenenza dove si sviluppa la grammatica della reciprocità e dove nasce la fiducia (Cfr. p. 151). Le alleanze sono più fondamentali e precedono i contratti: alleanze sociali creano società, i contratti sociali creano stati (Cfr. p. 205).

Abbiamo già menzionato che il mercato è una cosa che riguarda i prezzi non i valori e perciò deve essere guidato dalle virtù. Però non è capace di produrle. Solo le relazioni d’alleanza possono guidare la comunità politica ed economica nella ricerca del bene comune. Come giustamente nota l’autore, “Se la cooperazione senza concorrenza è zoppa, allora la concorrenza senza cooperazione è cieca”.

Uno dei pericoli più grandi dell’economia globale è il suo impatto negativo sull’ambiente. Secondo Sacks la costruzione dell’etica ambientale in termini esclusivamente secolari risulta essere molto difficile: su che base abbiamo obblighi verso la natura, se essa non ha obblighi verso di noi, cioè sta fuori del contratto e della reciprocità? Perché la tutela della biodiversità prevale sul guadagno immediato della generazione presente? Che cosa ci fa rinunciare al consumismo? In questa situazione la Bibbia è la fonte della coscienza ecologica che già nei primi capitoli di Genesi ci da due parole chiavi: le’ovdah “servire” e leshomrah “custodire”. Ecco in breve la migliore descrizione della responsabilità dell’uomo verso la natura.

Queste sei C - controllo, contributo, creatività, cooperazione, compassione, conservazione – ci portano alla settima grande C - Covenant, la nuova globale alleanza della solidarietà umana.

Secondo le valutazioni di Sacks, oggi più che mai abbiamo bisogno non di un contratto sociale globale ma di “un’alleanza che incornicia la visione condivisa del futuro dell’umanità” (p. 202). L’alleanza come un tentativo di creare partnership senza dominio o sottomissione che si differenzia dal contratto in tre aspetti fondamentali: essa non è limitata alle condizioni e circostanze specifici, è aperta e durevole, non è basata sull’idea di due individui che perseguono i propri interessi. È un “noi” che dà identità a un “io”.

Essendo non ontologiche ma relazionali le alleanze non sono esclusive, sono pluralistiche, non sono universali, ma assolute. La loro natura intergenerazionale estende gli orizzonti dei valori, delle storie, e delle esperienze vissute da una generazione all’altra.

L’alleanza della speranza di cui il nostro mondo disperatamente ha bisogno, non consiste in un semplice ottimismo, in una credenza condivisa che le cose si cambieranno in bene. Essa sottolinea che la fonte dei cambiamenti è dentro di noi, siamo noi chiamati ad essere protagonisti di un avvenire più giusto e più pacifico.

Durante gli ultimi 8 anni la comunità intellettuale e politica ha speso troppe forze scrivendo e discutendo sul famoso avvertimento di Huntington sullo “scontro delle civilizzazioni”. Leggere un libro che ci parla della religione come la forza per la soluzione dello “scontro” è senz’altro molto confortante. Il libro troverà una grande risonanza nel lettore cristiano: i concetti socio-antropologici di J. Sacks si integrano facilmente nella moderna visione cristiana (si pensi, per esempio, alla somiglianza tra il concetto di tzedakah e la nozione di giustizia sociale nata all’interno della Chiesa Cattolica).

Davanti all’impotenza della politica moderna di raggiungere la pace ed armonia tra i popoli, la religione come prima esperienza umana del fenomeno globale diventa la fonte delle risposte adeguate alle sfide del nostro tempo. Laddove la politicapdf “muove le figure sulla scacchiera, la religione cambia le vite” (p. 7).

Il libro ci invita a fomentare il nemico della violenza, cioè la conversazione, il dialogo che è un saper apprezzare le nostre differenze senza relativismo, è un condividere le nostre paure e vulnerabilità per riscoprire insieme la speranza. La speranza che sarà alla base della nuova alleanza globale.

 


Nota
1 È l’ultima edizione rivista con una prefazione nuova. Rabbi J. Sacks è stato criticato molto dai suoi colleghi ortodossi per il suo pluralismo religioso. Nonostante le critiche subite il libro nel primo anno della sua uscita (2002) è stato ristampato per ben 2 volte. 

 

BORSE DI STUDIO FASS ADJ

B01 cop homo page 0001Progetto senza titolo

 

 PCSTiP FASS

foto Oik 2

Albino Barrera OP  -  Stefano Menghinello  -  Sabina Alkire

Introduction of Piotr Janas OP