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Rivista di etica e scienze sociali / Journal of Ethics & Social Sciences

 

La centralità della globalizzazione nella società contemporanea ha portato, con l’estensione della competizione dei mercati, pdfad un effettivo trasferimento di poteri degli Stati ai mercati.

Se è vero che esiste un rapporto tra norme sociali, norme giuridiche e mercato, non si può non condividere l’opinione di molti analisti per i quali la globalizzazione produce effetti significativi anche nella sfera istituzionale, intendendo riferirsi sia a quella statale propriamente detta, sia a quella giuridica latamente intesa. In questo contesto rileva la perdita di esclusività del soggetto statale rispetto al suo classico ruolo di “law-maker” e acquistano rilievo alcune “istituzioni” di fatto della globalizzazione.1

Si tratta di soggetti “privati”: da un lato le grandi imprese transnazionali che si sono trovate investite, anche al di là della loro stessa volontà, di responsabilità di carattere istituzionale, dovute al loro potere di modificare le condizioni non solo di lavoro ma anche di vita di un grande numero di persone, influenzandone il modo di comunicare e di comportarsi; dall’altro le Non Governamental Organizations (NGOS) che la globalizzazione e l’espandersi del mercato hanno portato ad una dimensione transnazionale per rispondere ad istanze di pubblico interesse sullo scenario mondiale. Sembra dunque che il “welfare state”, basato sull’assunto che tutto ciò che è pubblico debba attenere alla sfera statuale, debba aprirsi a questi nuovi scenari.

Nelle pagine a seguire concentreremo la nostra attenzione sulla responsabilità sociale dell’impresa che, in quanto “istituzione” di fatto della globalizzazione, non può sottrarsi a contribuire positivamente ad un nuovo ordine globalizzato.

Se, infatti, il contributo delle Non Governamental Organizations (NGOS), a livello internazionale, è fondamentale e non è in discussione, basandosi su una tradizione consolidata che precede la stessa classificazione di NGOS, rifacendosi alla tradizione di enti impegnati nel sociale, tra i quali è antesignana la stessa Croce Rossa Internazionale, la responsabilità sociale dell’impresa è, invece, un risultato relativamente recente e dimostra che è oggi possibile conseguire nel mercato anche obiettivi di natura pubblica, ovvero di solidarietà.2

E’ vero dunque che l’impresa si presenta di fatto come nuova “istituzione” e quindi come compartecipe di scelte che influenzano direttamente o indirettamente il “diritto dei mercati”, ma è altrettanto vero che siamo, al tempo stesso, in presenza di soggetti economici, i consumatori, che cercano sempre più nelle loro scelte, non solo la massimizzazione di un paniere di beni ma anche una consonanza e un riscontro sulla base delle proprie convinzioni morali e religiose.

E’ noto che Max Weber sosteneva che l’humus, da cui si è potuto sviluppare il capitalismo moderno, non può che essere legato alla cultura cristiana e calvinista in particolare. E’ una lettura che coglie quasi inconsapevolmente il segno dei tempi in un passaggio epocale con le sue premesse di benessere diffuso e anche i suoi difficili equilibri sociali. Siamo ad oggi ad un altro snodo fondamentale della nostra storia, talchè non pare azzardato rilevare una forte antinomia nella sfida della globalizzazione: da un lato il rischio di una dittatura del mercato come paradigma delle relazioni sociali, dall’altro l’emergere di una risposta potenzialmente diffusa e democratica che nella “persona”, rilevata dalla tradizione ebraico-cristiana come superamento dell’”individuo”, trova comportamenti che permettono di esprimere scelte anche economiche che rispecchiano “personalità” e valori.

Se, dunque, occorre richiamare l’impresa a nuove responsabilità sociali non più eludibili dato l’incedere di crisi planetarie, è allo stesso tempo necessario incoraggiare scelte sempre più consapevoli del consumatore, ormai destinato ad essere cittadino del mondo, in quanto “persona” in relazione con il suo “prossimo” anche il più distante.

Siamo, da quest’ultimo punto di vista, in una fase nella quale non si può che ricorrere a scelte anche etiche poiché è ancora lontana una soddisfacente codificazione di quelli che sono stati chiamati i “nuovi diritti”, che prendono le mosse proprio dalle lotte degli anni sessanta e settanta del movimento ecologico e del movimento dei consumatori contro le grandi compagnie industriali e che hanno oggi condotto alla definizione di molti dei diritti umani di “terza generazione”.

Sono sempre degli anni sessanta i primi documenti della Chiesa cattolica che affrontano il tema dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, dell’esplosione dei consumi delle merci dei Paesi più industrializzati e, più in generale, dell’equilibrio e dell’equità dei mercati internazionali.

In effetti, se è vero che non è stata ancora prodotta una enciclica sulla “questione ambientale”, l’insegnamento sociale della Chiesa3 può essere, per molti versi, considerato precorritore dello stesso concetto di “sostenibilità”, unanimemente ormai riconosciuto, come vedremo più avanti, quale cardine della politica dello sviluppo. A questo proposito il forte richiamo della Chiesa che “il distruggere o sciupare beni che sono indispensabili ad esseri umani per sopravvivere è ledere la giustizia e l’umanità”, già presente nell’enciclica “Mater et Magistra” (1961), anticipa significativamente il concetto dello “sviluppo sostenibile” della dichiarazione dell’ONU alla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992. Seguiranno i documenti del Concilio Vaticano II tra cui la “Gaudium et spes” (1965) e le encicliche “Pacem in terris” (1963) e “Populorum progressio” (1967). Proprio quest’ultima enciclica pone l’accento sullo squilibrio della crescita economica nel mondo, rappresentando la necessità di programmi concertati e integrati nel segno di una solidarietà che superi l’emergenza e che individui come obiettivo, oltre la semplice consapevolezza dell’interdipendenza economica, l’impegno per il “bene comune”, inteso come “il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siano veramente responsabili di tutti”. In questa stessa ottica dell’etica della responsabilità, un’altra enciclica l’“Humanae vitae” (1968) esprimeva il punto di vista del Papa sul tema della difesa della vita e del controllo della popolazione che, in quegli anni, lo studio ispirato dal Club di Roma “Limits to growth”, aveva posto all’attenzione dell’opinione pubblica, proponendo di porre dei limiti alla crescita della popolazione, dell’estrazione di materiali e risorse dalla natura, della produzione agricola e industriale. Tesi che il mondo cattolico criticò ritenendo che esprimessero eminentemente logiche maltusiane.

Si tratta, d’altro canto, di portare proprio l’azienda a superare una visione meramente microeconomica e capitalistica che ha inteso, il più delle volte, spostare nel tempo e nello spazio i problemi che la produzione porta con sé. Devono, dunque, essere necessariamente superate le soluzioni basate sul presupposto che esistano Paesi poveri che possano da un lato offrire mano d’opera a basso costo, nonché spazi per i rifiuti e le scorie delle aziende dei Paesi più sviluppati.4

Non a caso uno degli slogan dell’ecologismo degli anni sessanta riprendeva una frase di Saint-Exupery per il quale “la terra ci è stata data in prestito dai nostri figli”. Ma dovettero passare molti anni per poter ritrovare questa “filosofia” d’approccio al problema, declinata nella formula di “Sviluppo sostenibile”, quale concetto chiave della Conferenza ONU su Ambiente e sviluppo, svoltasi a Rio de Janeiro nel giugno 1992. In verità, la definizione di sviluppo sostenibile è già contenuta originalmente nel Rapporto della Commissione Mondiale sull’Ambiente e Sviluppo (Commissione Burtland) del 1987. Con tale espressione, occorre ricordare, si rappresenta la necessità che le decisioni pubbliche nei più svariati settori tengano anche conto delle preoccupazioni ambientali. Le condizioni perché lo sviluppo sia ambientalmente sostenibile riguardano sia il principio del rendimento sostenibile, per cui non possiamo depauperare di risorse l’ambiente ad una velocità superiore a quella necessaria per ripristinarle; sia il principio della capacità di assorbimento, per cui non dobbiamo rilasciare nell’ambiente sostanze in quantità tali da non poter essere assorbite in tempi ragionevolmente brevi.

Questo ragionamento ci riconduce al concetto di responsabilità sociale dell’impresa che è opportuno, in premessa, cercare di chiarire declinando il significato dei termini:
- “responsabilità”: comporta la presenza di nuovi ambiti di discrezionalità nel perseguire le finalità istituzionali dell’azienda, prevedendo, quindi, l'esistenza di gradi di libertà nel decidere ambiti e modalità d’azione. L'azienda, dunque, è responsabile delle proprie scelte ed è chiamata a rispondere di esse e dei risultati ottenuti nei riguardi dei propri interlocutori (stakeholder).
- “sociale”: è l’attributo della responsabilità che indica che questa non deve limitarsi a evocare istanze proprie della collettività, ma intende rispondere non solo alle attese degli investitori, con la rimunerazione del capitale, ma anche dei clienti, con crescenti livelli di qualità e servizio competitivi, dei lavoratori, con l’attenzione alla qualità del lavoro, e delle istituzioni, con il condividere responsabilità collettive. In tal senso si vuole qui rimarcare la necessità di considerare in modo “olistico” gli impatti economici, ambientali e sociali delle scelte dell’azienda.

Un'azienda dunque può definirsi socialmente responsabile quando il suo comportamento è rivolto a soddisfare le legittime attese, economiche e non, di tutti gli stakeholder. Pertanto, un'impresa socialmente responsabile è volta a stabilire un dialogo costruttivo e un rapporto di reciproca fiducia con tutti i propri interlocutori, interni ed esterni.

In quest’ottica di scelte consapevoli va letta l’importanza delle certificazioni etiche. Siamo di fronte ai primi tentativi di dare evidenza, comunicazione, comparabilità ad un nuovo modo di “pensare” l’impresa, responsabile ed anche portatrice di interessi pubblici che ormai fanno parte dell’“agire” e delle responsabilità non più eludibili da parte degli attori del mercato, dove i consumatori si dimostrano interessati non solo a massimizzare la quantità dei prodotti del proprio paniere, ma pure alla loro intrinseca “qualità”, anche etica, di produzione.

Se la gestione per la “qualità” viene definita come l’insieme delle attività coordinate per guidare e tenere sotto controllo un’organizzazione dal punto di vista delle capacità di soddisfare le esigenze o le aspettative dei clienti, sempre più aziende sono indotte ad adottare a tal fine la cosiddetta “triple bottom line”: il sistema di rendicontazione su tre livelli, economico, sociale e ambientale. L’obiettivo è quello di fornire in maniera più sistematica ai loro stakeholder (investitori, clienti, fornitori, collaboratori) informazioni sulle proprie performance oltre che economiche, anche sociali e ambientali.

Infatti, l’evoluzione della certificazione delle aziende dopo le Iso 9000 (sistema qualità) e le Iso 14000 (rispetto dell’ambiente) ha riguardato gli standard internazionali Sa 8000 che misurano la “social accountability” cioè il grado etico e di responsabilità sociale di un’azienda.

Nei prossimi paragrafi analizzeremo specificatamente l’evoluzione della certificazione che, partita dall’esigenza di rispondere e dare evidenza all’attenzione e all’impegno delle imprese al fenomeno del crescente inquinamento, legato all’intenso sviluppo economico, ha allargato il suo interesse alle tematiche sociali. Non a caso la fine del nostro percorso ci porterà a esaminare approcci di certificazione che integrano in un unico rapporto i tre fondamentali elementi della sostenibilità: quello economico, ambientale e sociale. Il fine è l’elaborazione e l’adozione di un unico “rapporto di sostenibilità”.

Modelli di certificazione ambientale

Il quadro di riferimento per la redazione di rendiconti e certificazioni ambientali risulta piuttosto articolato in quanto riguarda non solo normative di natura comunitaria e nazionale, ma anche standard volontari di matrice nazionale ed internazionale.

Proprio questa linea di impegno volontario e di “trasparenza” incoraggia il recente Sesto programma di azione comunitaria per l'ambiente che definisce obiettivi e priorità della politica ambientale dell'Unione Europea fino al 2010. Infatti, "Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta" è il titolo del programma che intende indicare la necessità di una "scelta" che, oggi più di ieri, superi la mera azione legale, intendendo l'Unione Europea assumere come iniziativa strategica, un approccio il più possibile condiviso, che faccia leva su vari strumenti e provvedimenti per influenzare il processo decisionale, non solo negli ambiti politici e imprenditoriali, ma anche in quelli dei consumatori e dei cittadini.

In quest'ottica di ricerca di collaborazione con il “mercato”, il programma d'azione richiama la centralità e l'importanza di "incoraggiare una più ampia adozione del programma comunitario di ecogestione e audit (EMAS- Enviromental Management and Audit Scheme)"che è stato introdotto dal Regolamento CEE n.1836/93 e recentemente innovato nella portata e nelle implicazioni dal Regolamento CE n.761/2001 del 19 marzo 2001.

L'applicazione del sistema EMAS si pone come obiettivo quello di favorire la credibilità e l'affermarsi dei sistemi di gestione delle imprese che intendono interiorizzare volontariamente gli aspetti ambientali della produzione ed ha il pregio di costituire un punto di riferimento normativo per la definizione di uno schema consolidato di rappresentazione dell’informativa ambientale che, malgrado sia volontaria, necessita comunque di una certificabilità per risultare attendibile e di una comparabilità per essere di facile lettura e utilizzo.

In quest’ottica è noto che l’EMAS ha mutuato gran parte delle norme ISO quale riferimenti del sistema gestionale ambientale, tanto che già nel 1997 la Commissione europea si è espressa formalmente sulla validità della norma ISO 14001. Adesso il nuovo regolamento EMAS riconosce ufficialmente che detto sistema di gestione ambientale sia attuato conformemente alla norma EN ISO 14001, riportata nell’Allegato I al punto A dello stesso regolamento CE n.761/2001.

Va precisato inoltre, che il Regolamento CEE n.1836/93 era applicabile solamente al settore industriale manifatturiero e che la registrazione EMAS riguardava il singolo "sito" e non l’organizzazione industriale che lo controlla. Attualmente, invece, l’estensione del campo di applicazione prevista dal nuovo regolamento del 2001, ha posto il problema di rivisitare questo concetto. E’ stato dunque sostituito nel testo del nuovo regolamento il termine “sito” con quello di “organizzazione”, non risultando applicabile in alcuni settori non industriali nel cui ambito hanno rilevanza principalmente impatti ambientali indiretti, come quelli presenti ad esempio lungo la "filiera" di approvvigionamento ( servizi, fornitori ecc.).

Utilizzando il concetto di “organizzazione” è risultato comunque che si perdono alcune caratteristiche peculiari del regolamento EMAS. Infatti, l’analisi ambientale iniziale del "sito", primo passo procedurale per ottenere l’attuale registrazione EMAS, è cosa differente dall’analisi ambientale iniziale dell’organizzazione.

La stessa definizione di “organizzazione”, in realtà, presenta una molteplicità di casi possibili, tale da risultare di difficile definizione. Sono, infatti, in via di elaborazione delle linee guida, affidate dall'Unione Europea a un gruppo di lavoro guidato dall'Italia, che hanno il compito di individuare le tipologie di “organizzazione” che possono accedere alla registrazione.

A questo proposito si registra, senza dubbio, interesse non solo da parte dell’industria ma anche da altri importanti settori finora esclusi dalla certificazione quali i servizi e i trasporti.

In effetti, la fondamentale garanzia che distingue EMAS rispetto alle altre certificazioni volontarie è la verifica degli elementi del sistema, svolta da un verificatore accreditato da un’istituzione pubblica (il Comitato per l’ecolabel e l’ecoaudit) che deve convalidare anche la dichiarazione ambientale. E’ opportuno ricordare a proposito della “ufficialità” del sistema EMAS, che a seguito della verifica, l’impresa può richiedere all’“organizzazione competente” la sua registrazione in apposito elenco, che deve essere trasmesso alla Commissione europea e pubblicato annualmente sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità europee.

E’ indubbio che, comunque, l’accreditamento EMAS mantiene un carattere prettamente volontaristico superando logiche di controllo verticale, rivelatesi in passato non efficaci e può portare a delle effettive razionalizzazioni.

Tra i provvedimenti previsti nel nuovo regolamento EMAS vi è, inoltre, l’invito agli Stati membri a predisporre incentivi che assicurino alle imprese, in quanto “organizzazioni” registrate EMAS, un’applicazione più favorevole delle procedure di autorizzazione e di controllo ambientale, nonché incentivi economici in special modo per favorire la certificazione di piccole e medie imprese.

In quest’ottica rileva in Italia la legge del 1994 n.70 che contiene norme per la semplicificazione degli adempimenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza pubblica, nonché per l’attuazione del sistema di ecogestione e audit ambientale.

Alla luce di queste agevolazioni vanno valutati i dati della certificazione ambientale: se infatti, sulla scia di un consolidato successo delle certificazioni internazionali di qualità UNI 9000, i siti italiani certificati ISO 14001 hanno raggiunto nel 2002 quota 2117, con un aumento del 51% rispetto all’anno precedente, proporzionalmente analogo successo riguarda la “nuova” registrazione EMAS che conta 123 siti convalidati.

E’ opportuno ricordare, inoltre, che sono apprezzati anche standard italiani pubblicati dalla Fondazione ENI Enrico Mattei che ha portato avanti studi per la ricerca di indicatori ambientali e di criteri per la costruzione di un sistema di contabilità ambientale e la redazione del bilancio ambientale5. A questo proposito sono state redatte delle linee guida per la preparazione del “rapporto ambientale d’impresa”. Tale documento è strutturato in due parti: una qualitativa, cioè di commento, e l’altra quantitativa riguardante la presentazione delle principali variabili che descrivono le relazioni tra l’impresa e l’ambiente.

Sempre sul versante della certificazione di tipo contabile, un ulteriore notazione riguarda l’iniziativa della Commissione Europea che ha approvato il 30 maggio 2001 la “Raccomandazione relativa alla rilevazione, valutazione e divulgazione di informazioni nei conti annuali e nelle relazioni sulle gestioni della società”. Detto provvedimento riguarda le società che rientrano nel campo di applicazione della Quarta e Settima Direttiva, nonché alle banche, istituti finanziari e imprese di assicurazioni, comprese rispettivamente nelle Direttive 86/635/CEE e 91/674/CEE. L’obiettivo è quello di assicurare che i conti annuali e la relazione sulla gestione contengano dati di natura ambientale, indipendentemente dalle informazioni fornite nei report volontari delle aziende.

Modelli di rendicontazione e di bilancio sociale

Allo stato attuale non esiste, né a livello comunitario né a livello nazionale, alcuna normativa che codifichi forma e contenuto del bilancio sociale, né che indichi tipologie di certificazione e modelli di divulgazione. E’ pertanto opportuno partire da una breve digressione storica per delineare le tappe dell’evoluzione e le prospettive di sviluppo dei bilanci sociali.

Dopo le prime esperienze degli anni ’60 negli Stati Uniti, sono gli anni ’70 in Europa il periodo che registra la maggiore attenzione alla comunicazione dei risultati sociali delle imprese, dando vita ad alcune tipologie di approcci, alcuni dei quali, però, rimasero sostanzialmente degli isolati esperimenti. Ricordiamo tra questi il “total impact reporting” che si proponeva di sintetizzare in un’unica entità numerica tutte le interazioni sociali di un’impresa. Si trattava, cioè, di esprimere in un valore finanziario, talché risultava facilmente comparabile con i dati del bilancio, il valore dei miglioramenti o peggioramenti procurati dall’impresa alle persone e all’ambiente con cui interagiva.

E’ inoltre del 1997 la legge francese n. 769 che prevede obbligatoriamente la redazione del bilancio sociale, in riferimento agli aspetti dell’occupazione e della gestione delle risorse umane, per le imprese con più di trecento dipendenti. Una esperienza anche questa che è rimasta sostanzialmente isolata e non ha avuto seguito, essendo il vincolo di legge spesso giudicato come un freno al processo di sperimentazione spontanea nel mondo delle imprese.

Successivamente, dopo un periodo caratterizzato dalla flessione di interesse verso la redazione del bilancio sociale rispetto ai rendiconti ambientali, sono gli anni ’90 che, con l’emergere del fenomeno della globalizzazione e dell’apertura dei mercati, portano alla ribalta l’interesse verso gli strumenti di comunicazione sociale. Detti strumenti, infatti, in questi anni perdono la peculiarità di risposta episodica rispetto ad esigenze di carattere commerciale e di immagine, per dare seguito e, via via uniformarsi ad iniziative e modelli, primariamente internazionali, che definiscono metodi e contenuti dei bilanci sociali e ambientali prodotti.

Si tende, cioè, a sistematizzare e a rendere più verificabili e comparabili le informazioni per sottrarre all’arbitrio delle aziende la stesura dei rendiconti sociali e ambientali.

Partendo da queste premesse riportiamo di seguito gli standard ed i modelli di bilancio sociale più diffusi a livello nazionale ed internazionale.

Modelli di rendicontazione e di bilancio sociale italiani

Un modello di bilancio sociale, cui le imprese italiane possono uniformare i propri documenti, è quello messo a punto nel 1990 dall’Istituto Europeo per il Bilancio Sociale (IBS) ed applicato per la prima volta nel 1992 per la redazione del bilancio sociale delle Ferrovie dello Stato6. Elementi di novità introdotti con il modello dell’IBS, riguardano la “carta dei valori dell’impresa”, comprendente una lista di principi e valori di riferimento che l’impresa deve fare propri per perseguire finalità di natura sociale, e la struttura del bilancio sociale, articolato in quattro sezioni:

- l’identità dell’azienda, sintetizza la “mission”, le linee di politica aziendale e il disegno strategico dell’azienda;
- il valore aggiunto, esprime il calcolo del valore aggiunto e la sua distribuzione;
- la relazione sociale riporta un’analisi descrittiva della gestione e sviluppo delle risorse umane rispetto ad alcuni indicatori sociali;
- la contabilità sociale, esprime in modo qualitativo e numerico le spese e i ricavi sociali dell’azienda.

Con l’introduzione della “Carta dei valori d’impresa” e del bilancio sociale, l’Istitute of social and Ethical Accountability propone dunque un modello di bilancio sociale che non solo persegue finalità di natura informativa, d’immagine, strategica e valutativa, ma che può essere utilizzato dalle imprese come strumento di monitoraggio dei risultati aziendali rispetto agli stakeholders e come sistema di rilevazione delle politiche aziendali per verificare la coerenza tra comunicazione e strategie.

Nel 1998 è stato costituito il Gruppo di studio per la statuizione dei principi di redazione del Bilancio Sociale (GBS) composto da esperti del bilancio sociale appartenenti sia al mondo accademico che a quello degli ordini professionali e delle società di revisione e consulenza7. Il GBS ha l’obiettivo di preparare un modello standard di bilancio sociale, a valenza nazionale e internazionale. L’elemento fondamentale del bilancio sociale, come nel modello IBS, sono i valori dell’impresa e la loro coerenza con le scelte di gestione.

La struttura del bilancio sociale proposta dal GBS si compone di 3 parti:
1.Identità aziendale;
2. Produzione e distribuzione valore aggiunto;
3. Relazione sociale.

Per quanto riguarda le caratteristiche del bilancio sociale è proposto un modello che presenti un documento autonomo di bilancio, redatto annualmente e reso pubblico agli interlocutori sociali interessati.

Detto bilancio deve essere approvato dall’organo di governo dell’azienda e la sua redazione deve essere conforme ai principi generali di redazione che possono essere riassunti in 2 grandi tipologie:

- etico-comportamentali: responsabilità, identificazione, trasparenza, inclusione, coerenza, neutralità;
- contabile-ammnistrativo: competenza di periodo, prudenza, comparatività, comprensibilità, periodicità e ricorrenza, omogeneità, utilità, significatività e rilevanza, attendibilità e fedele rappresentazione, autonomia delle terze parti.

Tenuto conto delle due precedenti esperienze di classificazione sociale testè ricordate, anche l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) nel 2000 si è impegnata a definire un "modello di redazione del bilancio sociale per il settore del credito", finalizzato a offrire una modalità di classificazione per i dati qualitativi e quantitativi sulle operazioni svolte dalle banche per finalità sociali e fornire informazioni che permettano di valutare le performance sociali delle banche stesse. Detto modello di bilancio sociale, realizzato nel 2001 dal gruppo di studio dell’ABI sulla base dello schema IBS e degli standard GBS, è articolato in cinque parti fondamentali: 1 introduzione descrittiva dell’identità dell’azienda; 2 rendiconto (produzione e distribuzione del valore aggiunto); 3 relazione (di scambio) sociale; 4 sistema di rilevazione; 5 proposta di miglioramento (orientamento per la futura gestione).

Dette fasi, precedute da una Premessa metodologica sui principi di redazione del bilancio sociale, sono seguite poi da un’Attestazione di conformità procedurale consistente in una relazione sul bilancio sociale.

Modelli di “social accountability” a livello internazionale

A livello internazionale, i principali modelli di riferimento per la realizzazione di un modello di social accountability sono:

Lo standard Social Accountability 8000 (SA8000), pubblicato nel 1998 dal Cepaa - Council for Economic Priorities Accreditation Agency- un’organizzazione non governativa costituita appositamente per sovrintendere alla realizzazione del SA 8000, riguarda la certificazione della cosiddetta "social accountability", ossia del"grado" etico e di responsabilità sociale di un’impresa.

Il Cepaa riunisce 21 membri in rappresentanza di organizzazioni sindacali, delle ONG, di associazioni che tutelano i diritti umani e dell’infanzia, di imprese che investono in modo socialmente responsabile, delle società di certificazione.

Questo standard di certificazione sociale internazionale riguarda:

- Rispetto dei diritti umani
- Rispetto dei diritti dei lavoratori
- Tutela contro lo sfruttamento dei minori
- Garanzie di tutela e salubrità sul posto di lavoro.

Il sistema di certificazione risulta così articolato:

- Standard che rendono controllabili le attività delle imprese che adottano lo SA 8000.
- Standard relativi al sistema di gestione e di implementazione del SA 8000. Per l’elaborazione dei requisiti di detti standard si fa riferimento a quelli sviluppati da organizzazioni multilaterali e da talune convenzioni internazionali quali l’ILO (International Labour Organization), la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo.
- Una guida per l’interpretazione e l’implementazione del SA 8000.
- L’accreditamento di organizzazioni qualificate da parte del Cepaa per il processo di audit del SA 8000.

Lo standard AccountAbility 1000 (AA1000), sviluppato nel 1999 dall’ISEA - Institute of Social and Ethical Accountability- si prefigge il miglioramento continuo del sistema di rendicontazione di tipo sociale e della performance d’impresa, con particolare riguardo al dialogo e al confronto tra l’impresa e gli stakeholders.

L’AA1000 può essere utilizzato sia come una valutazione, finalizzata a rafforzare la qualità degli standard di responsabilità, sia come un processo autonomo per gestire e comunicare bilancio e performance sociali ed etiche.

L’adozione dello standard AA1000 non è solamente finalizzata ad una certificazione ma consiste nella condivisione di uno strumento per incoraggiare l’innovazione su alcuni principi fondamentali della qualità. La sua peculiarità riguarda la consultazione in modo sistematico degli stakeholders con i quali rimane in contatto durante tutte le fasi del processo di qualità, al fine di ottenerne la loro adesione fornendo opportune garanzie.

Il Global Reporting Iniziative (GRI) è un progetto ideato nel 1997 da alcune istituzioni europee con il concorso di imprese, enti e organizzazioni non governative8. E’ volto a realizzare un sistema di "sustainability reporting" per le imprese che volontariamente si impegnano a produrre report sia ambientali che sociali. L’obiettivo è quello della redazione di un rapporto che, appunto, sintetizzi nella dimensione dello sviluppo sostenibile, i tre profili aziendali che la rappresentano, quello economico, quello ambientale e quello sociale, pur prevedendo al tempo stesso una struttura del rapporto che consenta comunque una separata identificazione dei tre aspetti della cosiddetta “triple bottom line”.

Le linee guida elaborate dal GRI, adottate su base volontaria, possono essere applicate da organizzazioni di ogni dimensione e tipologia e prevedono per il “rapporto di sostenibilità” la seguente articolazione:

- Dichiarazione dell’amministratore delegato
- Profilo dell’organizzazione
- Sommario ed indicatori chiave
- Visione e strategia
- Politiche, strutture di governo e sistema di management
- Performance

Considerazioni sui rendiconti e i bilanci sociali

Abbiamo brevemente riportato i principali modelli di bilancio sociale a livello italiano e internazionale, tra questi l’ultimo presentato il “Global reporting iniziative “ (GRI) rappresenta lo sforzo più organico di considerare non solo gli aspetti sociali dell’impegno dell’impresa ma tutte le dimensioni della sostenibilità: quella economica che riguarda la capacità di produrre reddito, profitti e lavoro; quella sociale intesa come la capacità di garantire condizioni di benessere e crescita equa e solidale nel rispetto dei diritti dell’uomo e del lavoro; quella ambientale, volta a garantire qualità e riproducibilità delle risorse naturali.

Proprio per queste peculiarità, così rilevanti nell’ottica della globalizzazione dei mercati, il “Suxstainability report “, proposto dal GRI, è stato adottato da importanti multinazionali.

Più in generale, è da rilevare la tendenza di molte importanti imprese che hanno comunque preferito superare la distinzione tra bilanci ambientali e sociali cominciando sempre più a convergere verso la predisposizione di bilanci socioambientali, che tenessero, cioè, conto dei due aspetti.

Un altro aspetto emergente riguarda, invece, la diffusione delle informazioni contenute nei bilanci sociali. Dette informazioni nel tempo hanno sempre più riguardato la comunicazione esterna, superando le perplessità riguardanti l’opportunità di divulgare informazioni su attività d’impresa che riguardano processi strategici sia in termini di gestione delle risorse umane, sia degli impatti socio-ambientali.

Ma la forte esigenza di “dialogo” con tutti gli interessati alle tematiche socio-ambientali ha convinto le imprese a prendere nuove iniziative9.

Fin dal 1992 per quanto riguarda il bilancio ambientale e fin dal 1995, per quanto riguarda quello sociale, è stato istituito annualmente in Italia il premio “Oscar di bilancio” che premia le imprese che hanno preparato i bilanci nel rispetto di alcuni principi fondamentali di carattere sociale e ambientale. A livello europeo, invece, si attribuiscono gli “European Environmental Reporting Awards” (EERA), che premiano ogni anno i migliori bilanci ambientali europei, rispetto alla qualità delle informazioni fornite.

Per quanto attiene poi alla verifica delle informazioni e dei dati forniti dai bilanci sociali, solo negli ultimi anni detti bilanci hanno cominciato ad essere corredati di rapporti di verifica. Un documento, cioè, che contenga il rapporto di verifica propriamente detto e i principi cui hanno fatto riferimento i verificatori del bilancio stesso.

Si tratta di una prassi che introdotta per i bilanci ambientali, sta trovando seguito e diffusione anche nella stesura dei bilanci sociali, per cercare di accrescere la credibilità delle informazioni fornite. In effetti, se da un lato si registra la mancanza di linee guida per la procedura di revisione dei bilanci sociali, dall’altro all’interno dei bilanci sociali sono sempre più presenti riferimenti agli standard SA 8000, ai principi GRI o a quelli proposti da IBS e GBS.

Pertanto sembra logico che la verifica del bilancio debba avere come punti di riferimento anche la conformità a tali linee guida.

In definitiva, ai fini di una migliore comparabilità, sembra opportuno auspicare che i bilanci sociali rispettino non solo determinati principi di redazione prestabiliti, ma che questi indirizzino il contenuto degli strumenti di rendicontazione sociale in senso non solamente retrospettivo ma anche prospettico.

L’attendibilità dei bilanci sociali dovrà comunque essere data non solo dal rispetto degli standard sopra richiamati, al fine di evitare che l’impresa si limiti a comunicare soltanto gli aspetti che costituiscono fattori di successo, ma è anche auspicabile che i bilanci vengano sottoposti ad una procedura di auditing da parte di organismi indipendenti.

Un numero crescente di imprese rende noto ,dunque, bilanci sulle proprie attività sociali. La rilevanza del fenomeno ha indotto l’Unione Europea, come vedremo nel successivo paragrafo, a monitorarlo e ad attrezzarsi per l’elaborazione di una propria politica in tale ambito. L’ultimo dato ufficiale, dal quale occorre partire, riguarda una cinquantina di importanti società che hanno aderito alla rete “CSR Europe” (Corporate Social Responsability Monitor), finalizzata a promuovere lo scambio delle migliori prassi e lo sviluppo di strumenti per la gestione della responsabilità sociale delle imprese. Inoltre, una recente inchiesta “PMI europee e Responsabilità sociale ed ambientale”, promossa dalla Commissione europea, tra più di 7.000 piccole e medie imprese di 19 paesi europei, rileva nel “Rapporto per il 2002” che quasi metà di queste società sono attivamente coinvolte in attività di impegno sociale, quali sponsorizzazioni e donazioni.

L’impegno dell’Europa nella promozione della responsabilità sociale delle imprese

Nel momento in cui l’Unione Europea si sta impegnando ad adottare una “carta dei diritti fondamentali” che definisca valori comuni europei, un numero sempre maggiore di imprese riconosce la propria responsabilità sociale, contribuendo spontaneamente a migliorare la società e a rendere più pulito l’ambiente, considerando tali impegni come parte rilevante della propria identità d’impresa.

In questo ambito il Libro verde della Commissione europea “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese” del 18 luglio 200110 ha aperto un serio dibattito sui vantaggi di tale responsabilità sociale, sviluppando gli intendimenti emersi con il Summit europeo di Lisbona del Marzo 2000. In quella occasione i governanti europei hanno richiamato l’importanza della responsabilità sociale delle imprese che riguarda aree ritenute, anche dai governi europei, strategiche, quali: la formazione continua, l'organizzazione del lavoro, le pari opportunità, la coesione sociale e lo sviluppo sostenibile.

Proprio quest’ultimo aspetto si collega poi agli impegni presi al summit di Goteborg nel giugno 2001, nell'ambito della più ampia strategia di sviluppo sostenibile. Anche in quella sede è stato ribadito che, nel lungo termine, la crescita economica, la coesione sociale e la tutela dell'ambiente vanno di pari passo (la “triple bottom line”), dunque che le imprese, per quanto di loro pertinenza, sono incoraggiate ad adottare una dimensione “sociale”11.

In effetti il Libro verde della Commissione europea si impegna a dimostrare che è nello stesso interesse dell'azienda assumere impegni “sociali”, anche al di là degli specifici obblighi di legge, ricevendone in tal modo un forte ritorno in termini di credibilità imprenditoriale e di risposta positiva da parte del mercato, premiando in definitiva una condotta responsabile sotto il profilo sociale ed ambientale, nell'interesse di tutti e, dunque, non solo degli stakeholder interessati. Tra questi ultimi, i rapporti con le comunità locali rivestono una particolare importanza, rappresentando mercati di riferimento e di fonti importanti di manodopera. Non sorprende quindi che vi sia una consolidata tradizione di responsabilità sociale delle PMI locali che, spesso, sponsorizzano manifestazioni di carattere sociale. Le aziende locali che esprimono capacità di accumulare “capitale sociale”, riescono infatti ad estendere i contatti e di stabilirne di nuovi con altre imprese del contesto economico, sociale e ambientale che le circonda, traendone benefici anche economici.

Altro aspetto del concetto di responsabilità sociale delle imprese è quello della dimensione internazionale che acquista sempre maggiore rilevanza con l’estendersi della globalizzazione, via via che le imprese scoprono nuovi mercati. In quest’ottica, rileva il Libro Verde, sempre più imprese adottano codici di condotta relativi alle condizioni di lavoro, ai diritti dell'uomo e alla tutela dell'ambiente, rivolti anche ai propri fornitori e subappaltatori, per garantire sotto il profilo sociale tutta la filiera produttiva interessata.

L'etichettatura sociale, pertanto, è una risposta alla pressante richiesta dei consumatori rispetto alle garanzie degli standard del lavoro, anche se, osserva il Libro verde, sarebbe necessario introdurre dei metodi efficaci di verifica degli impegni sociali contenuti nelle etichette.

L’invito poi a investire in “ fondi etici”, cioè in aziende che si attengono a determinati criteri sociali esprime una tendenza, ancora di nicchia, che necessita comunque di resoconti societari più trasparenti sotto questo profilo e standardizzati.

Sotto quest’ultimo aspetto il Libro verde raccomanda, più in generale, una maggiore uniformità sul tipo di informazioni che le aziende dovrebbero essere disposte a fornire, presentando in maniera più esaustiva la contabilità, la revisione dei conti ed i resoconti societari.

Successivo alle “raccomandazioni” del Libro verde della Commissione europea per promuovere l’impegno sociale delle imprese è la Comunicazione del 2 luglio 2002 “Responsabilità sociale delle imprese - un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile”, nella quale la Commissione, proprio sulla base della consultazione durata un anno per raccogliere le reazioni al predetto Libro verde, ha messo a punto una strategia comune per promuovere il contributo delle imprese al progresso economico ed ambientale.

E’ emersa l'esigenza di criteri e parametri comuni per valutare e promuovere la responsabilità sociale delle imprese, riducendo la confusione dovuta a differenti criteri, formulari e metodi di classificazione utilizzati in Europa.

Più in particolare le aziende europee hanno comunque espresso preferenza sul mantenere invariato il carattere volontario della responsabilità sociale d’impresa, auspicando allo stesso tempo soluzioni globali che evitino, però, una standardizzazione eccessiva, giudicata a loro avviso, controproducente e troppo vincolante. Ritengono inoltre che le responsabilità dei governi e delle organizzazioni multilaterali, nel promuovere la responsabilità sociale d’impresa, risultino in definitiva fondamentali, soprattutto fuori dall'Europa.

Le organizzazioni sindacali, invece, ritengono che la responsabilità sociale delle imprese non debba sostituire le normative ma affiancarle, e comunque esprimendo la necessità di punti di riferimento in un ambito legislativo o contrattuale, per regolamentarne l’ambito di applicazione. La globalizzazione, sostengono i sindacati, rafforza la necessità di regole sulla responsabilità sociale.

Le Organizzazioni non governative insistono sul coinvolgimento di tutte le parti interessate nella definizione di schemi di responsabilità sociale delle imprese e sulla necessità che le imprese prendano impegni verificabili in materia di responsabilità sociale, attraverso l’individuazione di obiettivi concreti e di standard internazionali applicabili e verificabili a livello mondiale.

Ulteriori elementi di conoscenza sono venuti dal forum europeo multilaterale sulla responsabilità sociale delle imprese, promosso dalla citata Comunicazione della Commissione europea del luglio 2002. L’obiettivo del forum è proprio quello di favorire lo scambio di esperienze e di buone prassi esistenti in tema di responsabilità sociale delle imprese e di tendere ad un approccio comune nelle iniziative intraprese su scala europea. Entro la metà del 2004 il forum dovrà tirare delle conclusioni concordando linee direttive a livello comunitario per migliorare la trasparenza e la convergenza delle pratiche e degli strumenti della responsabilità sociale delle imprese, quali i codici di condotta, i marchi di garanzia e la redazione di resoconti. E’ il caso di ricordare comunque che la Comunicazione della Commissione europea non propone misure normative in materia di responsabilità sociale delle imprese e, pertanto, permane volontario il ricorso ai predetti strumenti attuativi.

Il forum è, tra l’altro, impegnato sui seguenti temi: la responsabilità sociale d’impresa e la competitività, la responsabilità sociale delle imprese nei paesi in via di sviluppo, le specifiche problematiche delle PMI nella responsabilità sociale d’impresa, i marchi di certificazione sociale, gli standard applicativi della responsabilità sociale d’impresa.

Il primo rapporto sull’attività svolta dal forum verrà pubblicato entro l'estate del 2004. La Commissione ne valuterà i risultati, esaminando l'opportunità o meno di adottare altre iniziative per promuovere ulteriormente la responsabilità sociale, di concerto con le imprese e con le altre parti interessate.

Osservazioni conclusive

L’Unione Europea sta, dunque, tentando di influenzare il comportamento delle imprese, promovendo e implementando la responsabilità sociale delle imprese, utilizzando il suo potere di influenza sia sui media e l’opinione pubblica, sia a livello politico-internazionale adoperandosi per favorire la crescita delle istituzioni di “governance globale”12.

Questo può risultare non sufficiente. E’ probabile che il “mercato” necessiti direttamente di stimoli che l’Unione Europea può, per il suo potere finanziario e legislativo, attivare affinché la responsabilità sociale d’impresa divenga vincolo a cui subordinare la conclusione di contratti di approvvigionamento e di servizi.

Partendo da questa esigenza di implementazione, se da un lato risulta necessario per le aziende mantenere fermo il carattere di volontarietà della responsabilità sociale d’impresa, questa esigenza non elimina la necessità altrettanto sentita di chiare scelte di certificazione come evidenza e stimolo ai comportamenti virtuosi delle aziende13.

Sotto quest’ultimo profilo in Italia l’unico tentativo di legificazione è il disegno di legge del 22 luglio 1981, n.1517, presentato in Senato e che poi non ha avuto seguito. Detto disegno di legge riguardava norme sul rendiconto sociale e sulla costituzione dei Consigli di vigilanza.

Sotto il profilo dell’implementazione della responsabilità sociale delle aziende, qualcosa, invece, si sta concretamente muovendo almeno a livello di legislazione regionale. Rileva la legge n.21/2002 della regione Umbria che è l’unica a prevedere la creazione di un elenco di imprese certificate a livello regionale. In questa banca dati, infatti, potranno essere iscritte, a richiesta, le imprese certificate presenti nel territorio regionale, incluse quelle che hanno aderito ai requisiti della certificazione di responsabilità sociale SA 8000, risultando l’iscrizione in quest’albo motivo per l’assegnazione di concessioni autorizzative o per gli appalti di opere e servizi, compatibilmente con la normativa comunitaria e nazionale in vigore. Sono previsti, inoltre, contributi finanziari per le imprese umbre fino al 50% del costo necessario per certificare il proprio sistema, fra l’altro, alla norma SA8000.

E’ un primo passo, ma è necessario fare di più sia nell’ambito della promozione che della certificazione della responsabilità sociale delle imprese. Forse, in una prospettiva di lungo periodo, sarà necessario che gli stessi processi di contabilità nazionalepdf vengano modificati in modo che sia proprio il mercato a stimolare l’acquisizione di responsabilità sociali da parte delle aziende a mezzo di incentivi e di finanziamenti ad hoc.

In quest’ottica, la stessa definizione del citato Libro Verde della Commissione europea del 2001, che individua la responsabilità sociale dell’impresa come “la decisione volontaria da parte delle imprese di contribuire alla creazione di una società migliore e ad un ambiente più pulito”, dovrà essere rivista in funzione di un superamento del concetto “accessorio” di responsabilità sociale di impresa, rispetto ad una sua funzione integrata a pieno titolo nelle scelte delle imprese.

In definitiva, dovrà essere sempre più chiaro per le aziende che il perseguire profitti è un’attività indivisibile dalla protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori, nonché dalla protezione della società e dell’ambiente.

 

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Note

1 M.R. Ferrarese (2000), p. 101.
2 Ibid., p.117.
3 J.Y. Calvez (1998), p. 67.
4 L. De Biase (2001), p. 19.
5 F. Ranghieri (1998) , p. 55.
6 Ibid., p. 180.
7 D. Rupo (2001), p. 176.
8 Ibid., p. 179.
9 Ibid., p. 201.
10 Commissione delle Comunità Europee (2001), p. 4.
11 Ibid., p. 16.
12 D. Bianchi, D. Mauri, G. Sammarco (2001), p. 3.
13 Ibid., p. 13.

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